L’UFFICIALE E LA SPIA

Regia di Roman Polanski – USA, 2019 – 126′
con Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner

Parigi, 1895. Condannato per alto tradimento dalla Corte marziale e umiliato pubblicamente, il Capitano dello Stato Maggiore Albert Dreyfus (Louis Garrel), di origine ebrea, viene allontanato dall’esercito francese e confinato sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. L’ufficiale di carriera Georges Picquart (Jean Dujardin), divenuto capo dell’unità di controspionaggio, è convinto della sua innocenza e inizia una durissima battaglia in sua difesa, opponendosi alla malafede delle più alte gerarchie militari e di una intera nazione.
Polanski ragiona sui rapporti di forza tra gli uomini e i giochi di potere tra vittima e carnefice e allestisce uno splendido affresco storico.
L’ambientazione d’epoca è una cornice perfetta per mettere in scena un racconto attualissimo di xenofobia e di persecuzione.

Paolo Castelli

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UN’OPERA DALL’IMPIANTO CLASSICO CHE TROVA LA VIA DEL GRANDE SCHERMO IN UN MOMENTO STORICAMENTE GIUSTO.

Giancarlo Zappoli – Mymovies.it

Gennaio del 1895, pochi mesi prima che i fratelli Lumière diano vita a quello che convenzionalmente chiamiamo Cinema, nel cortile dell’École Militaire di Parigi, Georges Picquart, un ufficiale dell’esercito francese, presenzia alla pubblica condanna e all’umiliante degradazione inflitta ad Alfred Dreyfus, un capitano ebreo, accusato di essere stato un informatore dei nemici tedeschi. Al disonore segue l’esilio e la sentenza condanna il traditore ad essere confinato sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. Il caso sembra archiviato. Picquart guadagna la promozione a capo della Sezione di statistica, la stessa unità del controspionaggio militare che aveva montato le accuse contro Dreyfus. Ed è allora che si accorge che il passaggio di informazioni al nemico non si è ancora arrestato. Da uomo d’onore quale è si pone la giusta domanda: Dreyfus è davvero colpevole? Roman Polanski mette le sue doti di Maestro del Cinema al servizio di una vicenda che, in tempi come quelli presenti, merita una rivisitazione. […] Il film purtroppo ha innescato diverse polemiche scaturite dall’intervista che il regista ha rilasciato per il pressbook che ha accompagnato il film alla 76.ma Mostra del Cinema di Venezia. In quelle dichiarazioni Polanski dice di aver potuto comprendere meglio la storia che stava portando sullo schermo a causa delle accuse false che gli vengono periodicamente lanciate. Questo ha provocato reazioni di diversa natura che hanno rischiato di offuscare il valore intrinseco del film. Perché L’Ufficiale e la Spia si colloca nella categoria delle opere di impianto classico che trovano la via del grande schermo nel momento storicamente giusto. È sicuramente vero che il regista e il suo co-sceneggiatore Robert Harris lavorano da anni su questa idea ma è ora che è indispensabile mostrare, con un film capace di arrivare al grande pubblico, come il Potere sia in grado di costruire falsificazioni capaci di resistere a lungo e di sconvolgere vite. Attraverso la persona di Picquart (magistralmente interpretato da Dujardin) Polanski ci ricorda come siano necessari uomini che siano capaci di andare al di là delle proprie convinzioni (il colonnello non amava gli ebrei) quando si trovano di fronte a un’ingiustizia che diviene tanto più palese quanto più chi la sta perpetrando fa muro perché non ne emergano le falsificazioni. Polanski ci interroga sulla morale dei nostri tempi (che non riguarda solo uno specifico settore) e ci invita a vigilare. Forse non siamo più in tempi in cui un articolo di giornale può fare riaprire un processo come accadde con il “J’accuse” di Emile Zola pubblicato su “L’Aurore” ma forse proprio per questo è necessario saper reagire a quella sorta di impermeabilizzazione agli scandali che rischia di produrre un appiattimento dell’opinione pubblica che finisce con il lasciare spazio al morbo dell’indifferenza diffusa.
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L’UFFICIALE E LA SPIA, QUELLO DI POLANSKI È IL THRILLER PERFETTO

Fabio Ferzetti – L’Espresso

[…] “L’ufficiale e la spia” è magnifico. Purché lo si guardi per ciò che è: un thriller storico ispirato al romanzo omonimo di Robert Harris (Mondadori) che rievoca con sguardo impassibile, ritmo incalzante e varie licenze (come quasi tutti i film storici) la storia del capitano Dreyfus e della sua lunga persecuzione attraverso gli occhi del colonnello Picquart (un ammirevole Jean Dujardin). Il militare che per primo intuì la macchinazione in atto e vi si oppose con tutte le sue forze sfidando politici e generali. per l’onore dell’esercito. Anche qui: vero? Falso? Gli specialisti lamentano semplificazioni e manipolazioni. Da un lato Polanski e Harris fanno di Picquart un eroe quasi hollywoodiano che addirittura collabora con i dreyfusardi, in testa Émile Zola. Dall’altro tacciono e minimizzano il ruolo della famiglia Dreyfus, l’eroica (quella sì) resistenza del capitano prigioniero sull’Isola del Diavolo, la fiera corrispondenza con sua moglie Lucie e soprattutto le indagini di suo fratello Mathieu. Si può ribattere che la storia la fanno gli storici, il cinema lo fanno i cineasti. E ricordare che se l’epilogo a sorpresa getta una luce non proprio edificante sul rapporto Picquart-Dreyfus, Polanski non smette di accumulare dettagli materiali e rivelatori, in particolare per ciò che riguarda lo spionaggio e la fabbricazione di false prove. Qui forse batte il cuore di questo grande film che sarebbe un peccato perdere.

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L’UFFICIALE E LA SPIA

Carlo Cerofolini – Ondacinema.it

[…]La qualità del lavoro realizzato da Polanski si vede nei dettagli, come lo sono quelli relativi alla presa in rassegna dei cosiddetti personaggi storici, per una volta esentati dall’essere delle semplici macchiette (soprattutto Zola, autore dal noto J’accuse da cui il film prende il titolo originale) e, in termini assoluti, quando si tratta di restituire e restituirci un Jean Dujardin come non l’avevamo visto dai tempi di “The Artist”, talmente dignitosa e piena di umanità è l’interpretazione del colonnello Georges Picquart, ufficiale dei servizi segreti a cui spetterà il compito di scoprire l’ingiustizia e, con sprezzo del pericolo, di denunciarla davanti a chi non aveva voglia di sentirla. Se Dreyfus è, per forza di cose, il doppio di Polanski, il personaggio incarnato da Dujardin ne è quantomeno la proiezione ideale, nella constatazione di una coerenza, quella del militare, che impedisce all’uomo di venir meno al senso di giustizia e di verità, difese ad oltranza, e di cedere ai pregiudizi nei confronti della comunità ebraica, a cominciare dai propri, dichiarati in una delle scene iniziali del film. Per Polanski è dunque lui l’uomo moderno, sintesi perfetta dell’umano riconciliato dalle contraddizioni che attraversano la nostra contemporaneità.

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Vi proponiamo la traduzione della lettera aperta di Émile Zola al Presidente della Repubblica Francese Félix Faure.

“Io accuso…!

“Signor Presidente, permettetemi, grato per la benevola accoglienza che un giorno mi avete fatto, di preoccuparmi per la Vostra giusta gloria e dirvi che la Vostra stella, se felice fino ad ora, è minacciata dalla più offensiva ed inqualificabile delle macchie. Avete conquistato i cuori, Voi siete uscito sano e salvo da grosse calunnie. Apparite raggiante nell’apoteosi di questa festa patriottica che l’alleanza russa ha rappresentato per la Francia e Vi preparate a presiedere al trionfo solenne della nostra esposizione universale, che coronerà il nostro grande secolo di lavoro, di libertà e di verità. Ma quale macchia di fango sul Vostro nome, stavo per dire sul Vostro regno – soltanto quell’abominevole affare Dreyfus! Per ordine di un Consiglio di Guerra è stato scagionato Esterhazy, ignorando la verità e qualsiasi giustizia. È finita, la Francia ha sulla guancia questa macchia, la storia scriverà che sotto la Vostra Presidenza è stato possibile commettere questo crimine sociale. E poiché è stato osato, oserò anche io. La verità la dirò io, poiché ho promesso di dirla, se la giustizia, regolarmente osservata non la proclamasse interamente. Il mio dovere è di parlare, non voglio essere complice. Le mie notti sarebbero abitate dallo spirito dell’uomo innocente che espia laggiù nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso. Ed è a Voi signor Presidente, che io griderò questa verità, con tutta la forza della mia rivolta di uomo onesto. In nome del Vostro onore, sono convinto che la ignoriate. E a chi dunque denuncerò se non a Voi, primo magistrato del paese? Per prima cosa, la verità sul processo e sulla condanna di Dreyfus. Un uomo cattivo ha condotto e fatto tutto: è il Luogotenente Colonnello du Paty de Clam, allora semplice Comandante. La verità sull’affare Dreyfus la saprà soltanto quando un’inchiesta legale avrà chiarito i suoi atti e le sue responsabilità. Appare come lo spirito più fumoso, più complicato, ricco di intrighi romantici compiacendosi al modo dei romanzi feuilletons, carte sparite, lettere anonime, appuntamenti in luoghi deserti, donne misteriose che accaparrano prove durante gli appuntamenti. È lui che immaginò di dettare l’elenco a Dreyfus, è lui che sognò di studiarlo in una parte rivestita di ghiaccio, è lui che il Comandante Forzinetti ci rappresenta armato di una lanterna, volendo farsi introdurre vicino l’accusato addormentato, per proiettare sul suo viso un brusco raggio di luce e sorprendere così il suo crimine nel momento del risveglio. Ed io non ho da dire altro che se si cerca si troverà. Dichiaro semplicemente che il Comandante du Paty de Clam incaricato di istruire la causa Dreyfus, come ufficiale giudiziario nel seguire l’ordine delle date e delle responsabilità, è il primo colpevole del terribile errore giudiziario che è stato commesso. L’elenco era già da tempo nelle mani del Colonnello Sandherr direttore dell’ufficio delle informazioni, morto dopo di paralisi generale. Ebbero luogo delle fughe, carte sparivano come ne spariscono oggi e l’autore dell’elenco era ricercato quando a priori si decise poco a poco che l’autore non poteva essere che un ufficiale di stato maggiore e un ufficiale dell’artiglieria: doppio errore evidente che mostra con quale spirito superficiale si era studiato questo elenco, perché un esame ragionato dimostra che non poteva agire soltanto un ufficiale di truppa. Si cercava dunque nella casa, si esaminavano gli scritti come un affare di famiglia, un traditore da sorprendere dagli uffici stessi per espellerlo. E senza che voglia rifare qui una storia conosciuta solo in parte, entra in scena il comandante du Paty de Clam da quando il primo sospetto cade su Dreyfus.
A partire da questo momento, è lui che ha inventato il caso Dreyfus, l’affare è diventato il suo affare, si fa forte nel confondere le tracce, di condurlo all’inevitabile completamento. C’è il Ministro della guerra, il Generale Mercier, la cui intelligenza sembra mediocre; c’è il Capo dello Stato Maggiore, il Generale de Boisdeffre che sembra aver ceduto alla sua passione clericale ed il sottocapo dello Stato Maggiore, il Generale Gonse la cui coscienza si è adattata a molti. Ma in fondo non c’è che il Comandante du Paty de Clam che li conduce tutti perché si occupa anche di spiritismo, di occultismo, conversa con gli spiriti. Non si potrebbero concepire le esperienze alle quali egli ha sottomesso l’infelice Dreyfus, le trappole nelle quali ha voluto farlo cadere, le indagini pazze, le enormi immaginazioni, tutta una torturante demenza. Ah! Questo primo affare è un incubo per chi lo conosce nei suoi veri dettagli! Il Comandante du Paty de Clam, arresta Dreyfus e lo mette nella segreta. Corre dalla signora Dreyfus, la terrorizza dicendole che se parla il marito è perduto. Durante questo tempo, l’infelice si strappava la carne, gridava la sua innocenza. E la vicenda è stata progettata così come in una cronaca del XV secolo, in mezzo al mistero, con la complicazione di selvaggi espedienti, tutto ciò basato su una sola prova superficiale, questo elenco sciocco, che era soltanto una tresca volgare, che era anche più impudente delle frodi poiché i ”famosi segreti” consegnati erano tutti senza valore. Se insisto è perché il nodo è qui da dove usciva più tardi il vero crimine, il rifiuto spaventoso di giustizia di cui la Francia è malata. […]
Ma questa lettera è lunga signor presidente, ed è tempo di concludere.

Accuso il Luogotenente Colonnello du Paty de Clam di essere stato l’operaio diabolico dell’errore giudiziario, in incoscienza, io lo voglio credere, e di aver in seguito difeso la sua opera nociva, da tre anni, con le macchinazioni più irragionevoli e più colpevoli.
Accuso il Generale Mercier di essersi reso complice, almeno per debolezza di spirito, di una delle più grandi iniquità del secolo.
Accuso il Generale Billot di aver avuto tra le mani le prove certe dell’innocenza di Dreyfus e di averle soffocate, di essersi reso colpevole di questo crimine di lesa umanità e di lesa giustizia, per uno scopo politico e per salvare lo stato maggiore compromesso.
Accuso il Generale de Boisdeffre ed il Generale Gonse di essersi resi complici dello stesso crimine, uno certamente per passione clericale, l’altro forse con questo spirito di corpo che fa degli uffici della guerra l’arcata santa, inattaccabile.
Accuso il Generale de Pellieux ed il Comandante Ravary di avere fatto un’indagine scellerata, intendendo con ciò un’indagine della parzialità più enorme, di cui abbiamo nella relazione del secondo un imperituro monumento di ingenua audacia.
Accuso i tre esperti in scrittura i signori Belhomme, Varinard e Couard, di avere presentato relazioni menzognere e fraudolente, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e del giudizio.
Accuso gli Uffici della Guerra di avere condotto nella stampa, particolarmente nell’Eclair e nell’Eco di Parigi, una campagna abominevole, per smarrire l’opinione pubblica e coprire il loro difetto.
Accuso infine il primo Consiglio di Guerra di aver violato il diritto, condannando un accusato su una parte rimasta segreta, ed io accuso il secondo Consiglio di Guerra di aver coperto quest’illegalità per ordine, commettendo a sua volta il crimine giuridico di liberare consapevolmente un colpevole.

Formulando queste accuse, non ignoro che mi metto sotto il tiro degli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che punisce le offese di diffamazione. Ed è volontariamente che mi espongo. Quanto alla gente che accuso, non li conosco, non li ho mai visti, non ho contro di loro né rancore né odio. Sono per me solo entità, spiriti di malcostume sociale. E l’atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque portarmi in assise e che l’indagine abbia luogo al più presto. Io aspetto. Vogliate gradire, signor Presidente, l’assicurazione del mio profondo rispetto.”»

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I FILM E LE SERIE TV PIU’ FAMOSI CHE HANNO TRATTATO L’AFFARE DREYFUS

L’Affaire Dreyfus – film del 1899, è un cortometraggio muto diretto ed interpretato da Georges Méliès e prodotto da Star Film 206.
Il film di Georges Méliès fu girato nel 1899 all’indomani del processo che riabilitava Alfred Dreyfus, quando il caso tuttavia non poteva ancora dirsi completamente concluso. Il film fu bandito in Francia per aver provocato nelle prime proiezioni risse tra i sostenitori e i detrattori di Dreyfus, facendone il primo film nella storia ad essere censurato per motivi politici.

L’affaire Dreyfus – film del 1902 diretto da Ferdinand Zecca.

L’affaire Dreyfus – film del 1908, un cortometraggio diretto da Lucien Nonguet e Ferdinand Zecca.

 

Émile Zola – di William Dieterle del 1937

L’affare Dreyfus – film del 1958 diretto da José Ferrer.

 

 

 

 

L’affare Dreyfus – miniserie televisiva del 1968 L’affare Dreyfus è uno sceneggiato televisivo trasmesso dalla RAI nel 1968, sull’allora programma nazionale (Rai 1). Andò in onda in due serate, nella prima serata di domenica 17 novembre e di martedì 19 novembre. La sceneggiatura della fiction era di Flavio Niccolini e Leandro Castellani, che curava anche la regia televisiva.

 

 

 

Prigionieri dell’onore – film del 1991 diretto da Ken Russell con Oliver Reed, Richard Dreyfuss e Peter Firth

 

 

 

 

 

 

L’Affaire Dreyfus – telefilm a puntate di Yves Boisset del 1995 (in francese) con un gigantesco Jean-Claude Drouot  nei panni di Zola.

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MGF

 

La presentazione del libro Operazione Avalon di Grace Freeman e Beckie Fiorello ha avuto grande risposta di pubblico la sera del 6 dicembre scorso, quando le due autrici, nonché volontarie del Fratello Sole, hanno aperto le pagine del loro libro ai numerosi ospiti in sala.

 

 

 

Era un atto doveroso: Operazione Avalon è un simpatico volumetto ispirato proprio all’ esperienza delle due autrici nell’ambito dei vari eventi cinematografici, e non solo, del nostro teatro.
La discussione si è soffermata sulla missione del volontariato in tutte le sue sfaccettature, ponendo l’accento sulla mole di impegno che ciò comporta.

 

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DOWNTON ABBEY

Regia di Michael Engler – Gran Bretagna, 2019 – 122′

con Hugh Bonneville, Jim Carter, Elizabeth McGovern, Maggie Smith

 

1927. Un grande evento sconvolge la quiete della splendida tenuta Downton Abbey: il conte di Grantham, Robert Crawley (Hugh Bonneville), riceve una lettera direttamente da Buckingham Palace, nella quale viene comunicato che il Re e la Regina d’Inghilterra faranno visita alla dimora.
Dopo 52 episodi divisi in 6 stagioni televisive, la fortunata serie di Downton Abbey approda sul grande schermo. Si torna nella celebre residenza, in una sorta di sequel pensato appositamente per il cinema e dotato delle caratteristiche e dinamiche che componevano il format british: attori in formissima all’interno di un cast che continua a fare dell’armonia il principale punto di forza, humour, sorrisi, sguardi e punti di vista sul mondo dei serviti e dei servitori nella Gran Bretagna sotto il regno di Re Giorgio V.

Paolo Castelli

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UN INGRANAGGIO BEN OLIATO E ASSEMBLATO A REGOLA D’ARTE. TUTTO MOLTO FAMILIARE, TUTTO IRRESISTIBILMENTE PIACEVOLE

Paola Caselli – Mymovies.it

1927. Downton Abbey è l’aristocratica dimora nello Yorkshire di proprietà della famiglia Crawley, al cui comando ora sono la primogenita Mary e il cognato Tom Branson, subentrarti al conte Robert e alla sua moglie americana Cora. La grande notizia è che re George V e sua moglie Mary (i nonni dell’attuale regina Elisabetta, per intenderci) verranno in visita e soggiorneranno presso i Crawley per una cena e una nottata. Tutta Downton Abbey si mobilita per accogliere degnamente i coniugi reali, e l’austera Mary cerca di neutralizzare le due mine vaganti: Tom l’irlandese, le cui idee indipendentiste potrebbero apparire indigeste ai reali, e il maggiordomo Thomas Barrow, subentrato all’affidabile Charles Carson. Per ovviare al secondo rischio Mary richiama Carson dalla pensione, e naturalmente Barrow risente dello schiaffo morale. Ma nessun affronto è peggiore dell’imposizione, da parte dei sovrani in visita, di sostituire all’intero gruppo di domestici di Downton Abbey lo staff della Casa reale. Dopo 52 episodi e sei stagioni televisive, Downton Abbey fa il salto verso il grande schermo, soddisfacendo il desiderio dei milioni di fan orfani della loro serie preferita. E la versione cinematografica della saga si rivela perfettamente aderente alle aspettative, un ingranaggio ben oliato e assemblato a regola d’arte: i personaggi restano fedeli alle rispettive caratterizzazioni ed entrano in dinamiche interrelazionali riconoscibili (anzi, anticipabili) dal pubblico degli aficionados, e anche se la trama non è particolarmente avvincente, ogni svolta della storia è seminata a dovere e raccolta al momento giusto, e l’atmosfera a base di tazze di tè, completi di tweed e “Dio salvi la regina” ha l’effetto rassicurante di un comfort food. In questo senso Downton Abbey è il perfetto antidoto ai tempi disordinati e anarcoidi in cui viviamo: una sorta di anti Joker adatto a ricollocarci in un’epoca in cui il divario sociale si
1927. Un grande evento sconvolge la quiete della splendida tenuta Downton Abbey: il conte di Grantham, Robert Crawley (Hugh Bonneville), riceve una lettera direttamente da Buckingham Palace, nella quale viene comunicato che il Re e la Regina d’Inghilterra faranno visita alla dimora. Dopo 52 episodi divisi in 6 stagioni televisive, la fortunata serie di Downton Abbey approda sul grande schermo. Si torna nella celebre residenza, in una sorta di sequel pensato appositamente per il cinema e dotato delle caratteristiche e dinamiche che componevano il format british: attori in formissima all段nterno di un cast che continua a fare dell誕rmonia il principale punto di forza, humour, sorrisi, sguardi e punti di vista sul mondo dei serviti e dei servitori nella Gran Bretagna sotto il regno di Re Giorgio V. Paolo Castelli
esprimeva in modo, per così dire, meno conflittuale. Certo, il film lascia chiaramente intendere che l’aristocrazia si sta avviando sul viale del tramonto e che certe caste e certi privilegi saranno (almeno in parte) sovvertiti: ma per il momento gli happy few vivono ancora di rendita, drappeggiati in meravigliosi costumi d’epoca e alloggiati in stanze sapientemente decorate e illuminate.[…] Lo sceneggiatore Julian Fellowes tiene la politica a distanza e si concentra sui rapporti fra i personaggi, spesso colorati da attrazione e sentimento. Tutto molto familiare, tutto irresistibilmente piacevole. Le rare scintille sono lasciate all’impareggiabile Maggie Smith nel ruolo della contessa Violet che battibecca con Isobel Merton e lancia frecciate a Lady Bagshaw, cugina e dama di compagnia della regina, interpretate rispettivamente da Penelope Wilton e Imelda Staunton. Al punto che viene spontaneo chiedersi se il prossimo episodio non possa essere uno spin off con le tre leonesse come protagoniste assolute.

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IL RITORNO DOPO ALCUNI ANNI DEI NOBILI E DELLA LORO SERVITÙ NON DELUDERÀ GLI AMANTI DELLA SERIE E NON SOLO.

Mauro Donzelli – Comingsoon.it

[…]Dopo quasi tre anni dalla conclusione della sesta e ultima stagione, oltre a vari tentativi poi abortiti, è giunto il momento del film di Downton Abbey. Un’occasione per soddisfare gli amanti della serie in crisi d’astinenza, ma soprattutto per avere la conferma che il creatore e sceneggiatore, Julian Fellowes, ha saggiamente atteso qualche tempo prima di avere l’idea giusta. Il formato è simile a quello degli speciali di Natale che sono stati proposti in passato, con un plot concentrato intorno a un evento importante per la casa. Quale più di una visita reale per ricompattare gli abitanti, anche quelli che l’avevano da poco lasciata, come Mr Carson, che si conferma uno dei personaggi più interessanti e amati della saga, insieme a una straordinaria Maggie Smith, ancora una volta, nei panni di Lady Violet. È lei a prendere le redini della parte conclusiva del film, quando la visita reale si sta concludendo ed è il momento di riprendere il filo della vita e del futuro della gente di Downton. I suoi dialoghi pungenti e i battibecchi sul filo di un’esilarante ironia sono, al solito, memorabili. Questa volta duetterà perlopiù con un nuovo personaggio che le tiene testa, la cugina e dama di compagnia della regina, Lady Bagshaw (Imelda Staunton). Diciamolo subito, l’operazione convince in pieno e non dà la sensazione di una minestra riscaldata. In un periodo in cui i confini fra cinema e televisione sono sempre più sfumati non ci sembra inopportuno vedere un prodotto del genere sul grande schermo. Una visione che riconcilia con la scrittura arguta e complessa, con delle recitazioni sempre impeccabili, per ogni singolo ruolo, e non sono pochi. Fellowes si conferma grande antropologo capace di analizzare l’evoluzione dei vizi e delle virtù della società britannica, eccellendo nelle sottottrame, nella cura con cui vengono rappresentati gli anni che passano, con le variazioni sociali e nei costumi, attraverso piccole sottolineature, fugaci momenti.

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I TEMPI E GLI SCHERMI CAMBIANO, DOWNTON ABBEY NO

Max Borg – Movieplayer.it

[…]Michael Engler aveva già diretto l’episodio di commiato di Downton Abbey, il che assicura una coerenza visiva che con il grande schermo non affievolisce, avendo il mantenuto un’estetica elegante ed ambiziosa degna dei migliori film in costume. Torna anche il creatore Julian Fellowes, con un copione che rispolvera il sistema delle classi sociali britanniche con la solita sagacia, senza dimenticare i dialoghi calibrati al millimetro, da ascoltare rigorosamente in originale per apprezzare il sarcasmo tipicamente british di personaggi come Violet, un’autentica miniera d’oro per quanto riguarda le frasi più memorabili del film (“Io non litigo. Spiego.“).

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DOWNTON ABBEY: I DIECI PERSONAGGI MIGLIORI DELLA SERIE TV

Max Borg – Movieplayer.it

10) ANNA BATES

La servitrice personale di Lady Mary, introdotta come un figura relativamente minore nei primi episodi della serie, col passare del tempo Anna Bates si è ritagliata uno spazio sempre più importante con il suo mix di eterna gentilezza e determinazione, unita a un delizioso accento, quello naturale dell’attrice Joanne Froggatt, che incarna alla perfezione lo spirito del Yorkshire dove è ambientato lo show (mentre i Crawley, essendo di rango più nobile, si esprimo con la cosiddetta received pronunciation, vale a dire l’accento inglese “neutro” associato alle classi più benestanti). È anche protagonista di quella che, a nostro avviso, è la storia d’amore più bella di tutta la serie, al fianco dell’altrettanto amabile John Bates.

 

9) CORA CRAWLEY

Lady Grantham, la moglie di Robert Crawley, è tra le figure più affascinanti dell’universo di Downton Abbey in quanto outsider per eccellenza, essendo americana (in uno degli episodi natalizi incontriamo la madre e il fratello, interpretati rispettivamente da Shirley MacLaine e Paul Giamatti). Questo dà a Cora Crawley un punto di vista abbastanza unico all’interno delle mura di Downton, e il modo in cui Elizabeth McGovern interagisce con i colleghi inglesi, dandosi una parlata vagamente nobile ma comunque “sporcata” dalle sue origini oltreoceano, regala a molte delle sue scene un’aria da classica commedia sofisticata.

 

 

8) THOMAS BARROW

Quella di Thomas è forse l’evoluzione più interessante di tutto lo show: inizialmente era un vero e proprio antagonista, con l’intenzione di farlo sparire al termine della prima stagione dopo il fallimento del suo piano nefasto, ma la performance di Rob James-Collier convinse i produttori a farlo rimanere. Saggia decisione, perché col passare degli anni, pur rimanendo in parte tendente ai complotti e poco affidabile, Thomas Barrow si è gradualmente trasformato in una sorta di figura tragica, condannato all’infelicità perché nonostante i suoi successi professionali non potrà mai essere completamente se stesso, dato che è segretamente gay e nel periodo in cui è ambientato lo show l’omosessualità era ancora illegale nel Regno Unito.

 

 

7) JOHN BATES

Servitore personale di Lord Grantham, anche John Bates, come la sua futura moglie Anna, da personaggio minore si è mutato in uno dei personaggi migliori di Downton Abbey oltre che uno dei più importanti, grazie soprattutto a una delle storyline più drammatiche dello show: l’accusa dell’omicidio della sua ex-moglie, che lo porta ad essere arrestato nel finale della seconda stagione e scontare una pena carceraria che durerà fino al terzultimo episodio della terza, una volta appurata la sua innocenza. È un personaggio affascinante anche perché, a differenza della maggior parte degli abitanti di Downton, non esita a far uscire il proprio lato oscuro se necessario, anche se nel complesso, soprattutto se al fianco della moglie, è l’emblema della felicità per quanto riguarda i piani inferiori della dimora.

 

 

6) MATTHEW CRAWLEY

Il ruolo che ha trasformato Dan Stevens in una star e spezzato il cuore ai fan quando il personaggio è stato ucciso alla fine della terza stagione, nello speciale natalizio, vittima di un incidente automobilistico mentre torna dall’ospedale dopo la nascita del figlio (una scelta obbligata poiché Stevens voleva lasciare la serie e Julian Fellowes lo venne a sapere all’ultimo, e qualunque altra opzione avrebbe danneggiato la storyline). Un’uscita di scena che lasciò l’amaro in bocca anche perché Matthew Crawley, arrivato a Downton Abbey nel primo episodio praticamente da esterno, era sostanzialmente la nostra guida, ed era tramite lui che ci eravamo affezionati a quel mondo, grazie al suo misto di sangue nobile e prospettiva da persona che conosce anche il mondo esterno, concetto che poi è stato applicato in parte anche a un altro personaggio fondamentale.

 

 

5) TOM BRANSON

Introdotto nella prima stagione come autista, Tom Branson è poi entrato a far parte della famiglia tramite il matrimonio con Sybil Crawley, pur restando, almeno ideologicamente, un outsider a causa della sua origine umile e della nazionalità irlandese, il che lo rende a volte una presenza ingombrante a Downton quando si parla di politica. Anche lui, per certi versi, è l’altero ego dello spettatore, e il suo carisma “terra terra”, unito a una grande onestà intellettuale (pur disprezzando l’aristocrazia, vuole bene alla famiglia Crawley perché trattano tutti con il dovuto rispetto), l’ha trasformato in una delle figure più sottilmente complesse dello show, ponendo anche le basi per una delle sottotrame più interessanti (e a tratti una delle più appaganti) del film.

 

 

4) MRS. HUGHES

Tra i pochi personaggi a non avere un nome di battesimo (o meglio, non l’abbiamo quasi mai udito, salvo rare eccezioni come l’episodio finale della serie), Mrs. Hughes è l’anima dei piani inferiori di Downton, compassionevole nei confronti dello staff (esemplare il suo rapporto di amicizia con i coniugi Bates) ma anche guidata da un senso del dovere che si traduce in una mentalità severa e contraria al nonsense, ulteriormente arricchita dal suo essere spudoratamente, deliziosamente scozzese. Irresistibili i suoi occasionali battibecchi con Mr. Carson, che sposerà al termine dello show.

 

 

 

3) LADY MARY CRAWLEY

Altro caso di notevole evoluzione nel corso dello show, nella prima stagione Mary Crawley era la classica figlia viziata e in parte decisamente insopportabile a causa della sua mentalità puramente pragmatica nei confronti dei nuovi arrivati. Poi, complice l’amore per Matthew, si è addolcita, fino a diventare uno dei nuclei emotivi della serie, con una trasformazione tale che, nelle annate finali e anche nel film, è diventata praticamente la migliore amica di Branson, cosa assolutamente impensabile nel 2010 quando la conoscemmo per la prima volta.

Uno dei migliori esempi della scrittura a lungo termine di Fellowes, coadiuvato dalla performance di Michelle Dockery (la quale, per sua ammissione, nella vita è decisamente poco aristocratica, essendo originaria dell’Essex e quindi teoricamente più adatta a interpretare una serva).

 

 

2) MR. CARSON

Il maggiordomo di Downton, interpretato con granitica dignità da Jim Carter, Mr. Carson è una figura affascinante per il suo attaccamento al dovere, dietro il quale si cela però un affetto genuino per tutta la famiglia, in particolare per le tre figlie di Lord Grantham e soprattutto per Lady Mary, che difende dalle critiche di Mrs. Hughes nella prima stagione. Per certi versi è lui la vera anima della dimora, e il suo pensionamento nel finale di serie per motivi di salute è uno degli apici dello show a livello di pathos, così come lo è la sequenza del film in cui lui, in occasione della visita dei reali, torna a casa, per così dire, per servire ancora una volta i Crawley.

 

 

1) LADY VIOLET CRAWLEY

Potevamo non mettere lei al primo posto tra i migliori personaggi di Downton Abbey? Certo, Maggie Smith con la serie ha un rapporto che si può definire conflittuale (ha candidamente ammesso, dopo ripetute pressioni da parte di un conduttore televisivo, di non aver mai visto un episodio), ma la sua presenza nei panni dell’acida, perennemente sarcastica Lady Violet è una fonte di gioia come poche altre, grazie a un attaccamento alle tradizioni che fa del personaggio una riserva inesauribile di freddure nei confronti di tutto e tutti, parenti inclusi. La più bella, però, è stata tenuta da parte per il film, dove lei ancora una volta ruba la scena: “Io non litigo. Spiego.”

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MGF

Sabato 25 gennaio ritornano i dinosauri al Fratello Sole, con due spettacoli pomeridiani: 15.30 e 18.00

Ecco cosa dicono di loro:

Quattro risate nella preistoria tra comicità e dinosauri giganti

E se i dinosauri tornassero tra noi? E se ricomparisse anche l’uomo di Neanderthal? A teatro questo è possibile: ma non nell’illusione che si crea sul palcoscenico, ma proprio in carne e ossa.Una storia esilarante ambientata in un museo dove i giganti preistorici prenderanno vita grazie all’enigma della “tavola del tempo” risolto dal paleontologo tedesco Alfred. C’è poi la direttrice del museo, uno scienziato un po’ pazzo, due ladri maldestri e l’uomo di Neanderthal, che danno vita a una serie di gag e trovate che rendono lo spettacolo gradevole sia per gli adulti sia per i bambini.I dinosauri in scena sono 5 (un tyrannosaurusrex, un velociraptor e un triceratopo e 2 cuccioli di t.rex): 5 macchine straordinarie a grandezza naturale, costruite in gommapiuma e stoffa su uno scheletro d’acciaio, pesanti circa 40 chili e guidate all’interno da un operatore con telecamera, monitor e joystick per guidarne i movimenti. Un vero prodigio della tecnologia “animatronic” – ossia quella multi-disciplina che unisce anatomia, robotica, meccanica e teatro di figura per creare pupazzi con caratteristiche del tutto realistiche. .I nostri dinosauri sono stati scelti dalle seguenti  trasmissione televisive:  TU SI QUE VALES  – GRANDE FRATELLO VIP- I SOLITI IGNOTI.

Per info o prenotazioni :  366 9590150 dal lunedì al venerdì dalle 9.30 -12.30 e 17.00-19.30

Prezzo : Bambini € 10.00 – adulti € 13.00

Durata: 1 ora

Età consigliata: da 2 anni in poi

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Vi aspettiamo numerosi!

LEONARDO. LE OPERE

Docu-film di Phil Grabsky

MARTEDI’ 14 GENNAIO – ORE 16.00 e 21.00

Il nuovo docu-film che indaga le opere pittoriche dell’artista di Vinci per un’inedita visione in ULTRA HD accompagnata dal commento di alcuni dei massimi esperti mondiali di Leonardo.

LE OPERE PITTORICHE DI LEONARDO

di Beatrice Fiorello

Se c’è un artista che non ha bisogno di presentazioni, quello è Leonardo da Vinci.

Genio a tutto tondo, della sua epoca come della nostra, nel corso della sua vita ha esplorato moltissimi campi del sapere: quasi tutti, si potrebbe dire, passando con eguale disinvoltura dall’arte pittorica alla scienza, alla musica, alla geologia… si interessò persino di paleontologia, in un’epoca in cui non era certo comune interessarsi alla materia.

Nato a Vinci nel 1451, figlio bastardo di un notaio, fu presto messo a bottega presso l’artista Andrea del Verrocchio, e da subito cominciò a mostrare i segni inequivocabili di un precoce quanto straordinario talento, arrivando persino ad oscurare la maestria del Verrocchio.

La sua giovane mano si può già riconoscere nel dettaglio del volto di un angelo in un’opera del suo maestro (Il Battesimo di Cristo, 1475) e, non si può negare, oscura l’intero dipinto che pur nella sua splendida fattura è relegato ad essere una mera cornice per quel volto delicato e attraente. E proprio questa delicatezza nel dipingere i tratti umani è, secondo me, una delle caratteristiche più affascinanti di Leonardo, al di là di ovvie constatazioni sulla sua maestria e sulla sua straordinaria intelligenza eclettica: guardando un’opera di Leonardo non si può che restare affascinati da quei volti dolci, di bell’aspetto e quasi asessuati.

 

Nei volti dipinti da Leonardo le emozioni sono sempre le protagoniste: ne sono una prova gli innumerevoli disegni preparatori eseguiti per dipingere il perduto e grandemente rimpianto affresco raffigurante la Battaglia di Anghiari. Volti contratti, deformati dall’ira e dalla furia della battaglia, contorti nel dolore, estremamente diversi l’uno dall’altro e mai banali; tuttavia, ogni viso riporta sempre la consueta morbidezza dei tratti, sia nel soffice gonfiarsi delle guance di un giovinetto, sia nell’aggrumarsi delle rughe di un anziano.

 

Leonardo amava profondamente la realtà ed era in grado di trarre da essa il meglio e il peggio, la quotidianità e lo straordinario, per poi unire il tutto ed elevarlo ad un grado di bellezza e realismo quasi ultraterreno. L’arcinota Vergine delle Rocce ne è un fulgido esempio: un volto di mamma, quello di Maria, bello e immortale nella sua ordinaria bellezza, che è il viso di tutte le mamme. Dolce, un po’ stanco forse, con quell’ombra di preoccupazione che è presagio del destino che Maria sa attendere il suo unico Figlio, e forse una minuscola punta di disapprovazione per il piccolo Giovanni, che portando un bastone a croce ne è memoria visiva.

 

 

 

 

Oppure, i molteplici ritratti, dalla Monna Lisa alla Dama con l’Ermellino, finanche al ritratto di Ginevra de’ Benci e a La Belle Ferronière: ogni donna è diversa dalle altre, lo stile pittorico cambia in maniera innegabile da un ritratto all’altro e la veridicità della resa pittorica è tale che i personaggi all’epoca dovevano essere stati perfettamente riconoscibili e ancora stupisce come la mano delicata di Leonardo abbia saputo dare alla Monna Lisa quell’aura di mistero che la contraddistingue, sfumandola quasi nel paesaggio.  Sembra di riconoscere una donna timida e ritrosa, convinta a stento a farsi ritrarre, ma che vorrebbe essere da tutt’altra parte. Nella Dama con l’Ermellino e nella Belle Ferronière si riconosce un fiero orgoglio, eppure in toni diversi: la Dama è altera, nobile, fissa lo spettatore dall’alto in basso come a voler sottolineare il proprio rango, mentre la Ferronière è una superba bellezza del popolo, una donna che ci si aspetta possa essere l’angelo caduto dal cielo che serve da bere agli assetati e ne allieta la giornata con un sorriso, forse storto ma sicuramente così allegro da far dimenticare per un istante i dolori. Due donne forti, dunque, eppure nessuna delle due è stereotipata o caricaturizzata.

 

Ed è proprio questo suo talento nel cogliere il fluire dei sentimenti che rende doloroso osservare il suo autoritratto eseguito in tarda età: un vecchio dall’aria scorbutica, con le labbra piegate all’ingiù e le sopracciglia cespugliose aggrottate in un cipiglio duro e scostante. Una barba lunga, pochi accenni al resto del corpo: perché questo era, Leonardo, pura mente, e noi non possiamo ardire di immaginare quale peso deve recare al suo portatore una tale capacità di comprendere, teorizzare e mettere in atto. Possiamo solo figurarci un uomo che non smise mai di cercar “virtute e conoscenza”, per dirla con Dante Alighieri, un saggio mai pago della propria cultura, un affamato di novità dall’infanzia a quando l’ultimo respiro lasciò il suo petto, invitandolo ad una nuova scoperta.

Morì il 2 maggio del 1519, in Francia, solo.

 

 

“Chi ha provato il volo camminerà guardando il cielo, perché là è stato e là vuole tornare.”

Leonardo da Vinci