NOTTI MAGICHE
Regia di Paolo Virzì – Italia, 2018 – 125”
con Mauro Lamantia, Giovanni Toscano, Irene Vetere
Italia, 1990: la notte in cui la Nazionale viene eliminata ai rigori dall’Argentina, un produttore cinematografico (Giancarlo Giannini) viene trovato morto nelle acque del Tevere. I principali sospettati dell’omicidio sono tre giovani aspiranti sceneggiatori (Mauro Lamantia, Giovanni Toscano, Irene Vetere), chiamati a chiarire la loro versione al Comando dei Carabinieri. Sarà l’inizio di un viaggio/flashback in quello che resta dell’ultima stagione d’oro del cinema italiano.
Considerando che Paolo Virzì, quando arrivò a Roma, aveva la stessa età dei protagonisti della vicenda, il film si carica di una forte componente autobiografica.
Notti magiche allestisce una rocambolesca, affastellata, a volte amara e grottesca galleria del cinema italiano, ricamando un intimo romanzo di formazione.
Paolo Castelli
********
VIRZÌ FIRMA UNA COMMEDIA GIALLA TESA A OSSERVARE L’INTRECCIO PROFONDO TRA ESISTENZE INDIVIDUALI E STORIA COLLETTIVA.
Marzia Gandolfi – Mymovies
Mondiali ’90, Italia – Argentina, gli azzurri buttati fuori ai rigori, un uomo buttato nel Tevere a bordo di una macchina che non sa guidare. Produttore romano sull’orlo del fallimento, Leandro Saponaro è ripescato morto ma a ucciderlo non è stata l’acqua e nemmeno l’impatto. Giusy Fusacchia, ragazza coccodè e amante del Saponaro, giura che ad ammazzarlo sono stati tre aspiranti sceneggiatori: Eugenia Malaspina, Antonio Scordia, Luciano Ambrogi. Finalisti del Premio Solinas, i ragazzi si sono conosciuti pochi giorni prima a Roma in occasione della cerimonia. Eugenia è una ricca borghese ipocondriaca che odia il padre e ama un divo francese, Antonio è un messinese colto e formale come lo stile del suo soggetto (Antonello da Messina), Luciano è un baldo scriteriato che viene da Piombino. Ospiti per qualche giorno nella grande casa di Eugenia, che non vuole dormire sola, entrano nel mondo del cinema dalla porta d’ingresso, frequentando tutta la filiera e sognando di scrivere la sceneggiatura della vita. Finiranno invece al comando dei carabinieri a raccontare la loro versione dei fatti.
Dopo aver filmato l’America per la prima volta, in fuga tra Detroit e la Florida (Ella & John), Paolo Virzì ripiega in patria e firma una commedia gialla tesa a osservare l’intreccio profondo tra esistenze individuali e storia collettiva. (…)
È un film imperfetto Notti magiche, che si interrompe, che alterna i poli come la corrente elettrica, illuminandosi fulmineamente e spegnendosi bruscamente, indossando l’abito buono della gioventù in una sorta di com’eravamo rievocato sopra le righe e con un cast di giovani attori stonati che prevaricano i rispettivi personaggi. Giallo e tragicomico si combinano con le interpretazioni senza filtro e colore che implorano lo sguardo di un’anima caritatevole che possa ripescarle dal naufragio in cui soccombe nella finzione il Saponaro di Giancarlo Giannini.
Archiviati i personaggi pazzi d’amore e folli di dolore, i figli con la vita davanti e quelli col passato interrotto, consumati i baci e gli abbracci, il capitale umano e i santi giorni, l’autore sceglie tre dreamers che provano a definire la propria identità, individuale e collettiva, in funzione del loro rapporto coi sogni. Ma negli anni Novanta, inaugurati dal rigore sbagliato di Donadoni e Serena, non è più il cinema a generare i sogni, a nutrirli, a concimarli, a renderli possibili. Virzì lo sa, lo sa bene e ritorna alla notte del ‘delitto’, quando il cinema ha smesso di essere il mondo tout court. Da Truffaut e Scola riprende l’idea della triangolazione come struttura relazionale che lega i percorsi affettivi e sentimentali dei protagonisti ma non c’è vitalità né allegria nel rapporto che li lega, non c’è la forza comica, la verve dei dialoghi, sovente paternalistici, soltanto la carica distruttiva di vite che ripiegano su se stesse e nei recessi di questo o quell’altro mondo, in attesa che qualcuno soffi un po’ di aria fresca.
********
STORIA ‘POCONORMALE’ DEL CINEMA: ITALIA ANNI ’80, IL DECLINO
Una rilettura non convenzionale della storia del cinema.
di Pino Farinotti – MyMovies
(…) Procedendo secondo analogie e contrari in questo percorso “poconormale”, al decennio (per lo più) americano dei ’50, che rappresenta l’età dell’oro del cinema, a contrasto inserisco gli anni ottanta italiani. Che rappresentano la fine di un corso a sua volta d’oro, dal dopoguerra ai Sessanta, e seguono una stagione, i Settanta, certo meno nobile, ma con qualche segnale assoluto, cito un titolo, Amarcord.
Nel 1988 all’Ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci vengono attribuiti 9 Oscar. È il film, fino ad allora, più decorato a Hollywood dopo Via col vento. Sarebbe un trionfo italiano verso la fine di un decennio che il nostro cinema ha percorso faticosamente, senza picchi e lontano della nostra migliore tradizione. La misura di questo assunto sta nei riconoscimenti internazionali. L’Oscar, la Palma e il Leone d’oro, sono premi spesso messi in discussione, per ragioni etniche, artistiche, di marketing e di convenienza politica, tuttavia nel loro insieme rappresentano una legittimazione unanimemente accettata. Negli anni ottanta otteniamo solo tre premi: il Leone d’oro con La leggenda del santo bevitore, tutti quegli Oscar con film di Bertolucci e un Oscar come miglior film straniero a Nuovo cinema Paradiso di Tornatore. Un cartello con nove Oscar in quel decennio sarebbe qualcosa di anomalo e sproporzionato, e illogico. Invece una logica c’è, perché l’italiano Ultimo imperatore, non è un film italiano. Non è italiano il produttore, il londinese Jeremy Thomas, non c’è un italiano fra gli attori. Un po’ di italianità è nelle scenografia (Scarfiotti), e nella fotografia (Storaro), ma questi hanno a loro volta firmato opere internazionali, sono “artisti del mondo”. Ufficialmente L’Ultimo imperatore sarebbe un film inglese.
Identità
In quella stagione il cinema italiano aveva perso identità, in qualche modo doveva ricominciare, recuperare qualità, soprattutto doveva farsi riconoscere fuori dai confini. Gli anni ottanta hanno ospitato buoni titoli e bravi autori. Ma non hanno dato cittadinanza a Opere per il mondo. Gli anni ottanta sono quelli dello “smarrimento”, nel senso della ricerca di nuovi contenuti, di nuova poetica, di un progetto utile e possibilmente non provinciale, e magari di tentativi di rifondazione. Una sorta di punto e a capo. Naturalmente tutto questo non è contenuto in confini precisi: una corrente finisce un’altra ricomincia, un movimento nasce spontaneamente e si irradierà lontano, tuttavia si può affermare legittimamente, che nessun movimento italiano nato in quel decennio si irradia nel mondo. Ci sono tanti autori, questo sì. Alcuni cominciano, altri finiscono.
Negli Ottanta, dei grandi artisti generali, maestri di realismo, che ci hanno esportato nel mondo, De Sica, Visconti e Rossellini non ci sono più. C’è ancora Antonioni ma è molto stanco. Fellini c’è ancora e dirige. Ma anche lui ha minore ispirazione. L’energia, l’incanto che immobilizzava i critici e il pubblico, non ci sono più. Monicelli e Risi non sono artisti generali come i nomi fatti sopra (anche se Monicelli ci si è molto avvicinato con l’estetica de La grande guerra), ma sono “registi puri” definiamoli così, e narratori insuperabili. I loro titoli eroici La grande guerra, I soliti ignoti, L’armata Brancaleone (Monicelli); Una vita difficile, Il sorpasso, I mostri (Risi) sono tutti degli anni 50/60. La nostra grande stagione, quella dove eravamo prevalenti ed esportavamo, quella delle inutili tentate imitazioni da parte delle altre culture, finisce lì.
Ricorso
Nel processo di attesa di un ricorso all’altezza, che prevede un’involuzione, una perdita di identità e di qualità, diciamo pure peggioramento, gli anni settanta offrivano comunque un paio di… movimenti minori. Sergio Leone a metà dei Sessanta, con Per un pugno di dollari, rifaceva le regole di un genere diventando il modello persino degli americani che quel genere lo avevano inventato. I Settanta raccoglievano quel filo e quell’idea e la rilanciavano, certo con minore qualità se il filo e l’idea non erano più di Leone. Ma non c’era solo il western all’italiana, c’era anche il poliziesco. I registi si chiamavano Damiani, Lenzi, Di Leo, Massi; gli attori Nero, Merenda, Merli, Testi. Un segnale della qualità di quei film lo dobbiamo a uno che certo fa testo: Tarantino.
Negli Ottanta invece solo individualità più o meno fortunate, mai fortunatissime, mai nell’eccellenza. I nomi sono molti e il meglio lo hanno già dato. Bellocchio è ancora giovane, ma è uscito presto, ventenne aveva già molto inventato, in qualità e personalità. Sarà una garanzia nei decenni. Lo è ancora.
I Taviani si sono bene accreditati, negli anni ’80 hanno già una loro nicchia. Avati ha già iniziato il suo discorso di buon autore, ma la sua creatività è troppo monocorde. Non sarà mai un maestro. Un autore già importante è Scola che fa un ottimo film, La famiglia.
Si intravede Salvatores nell’estremo lembo del decennio, l’89 appunto, che dirige Marrakech Express. Sarà, per qualche stagione, un buon autore, vincerà persino un Oscar immeritato (detto anche da lui), con Mediterraneo. Si smarrirà una volta perduta la sua prima identità. Gli Ottanta sono invece il decennio della buona comicità. I nomi sono quelli di Verdone, Troisi, e Benigni. Certo non è grande cinema, non è “movimento”. Anche Argento ha già offerto la sua parte migliore. Una citazione naturalmente gli è dovuta, a lui, raro esportatore di cinema italiano e “semi-inventore” di genere.
Eccezione
Naturalmente non può non esserci un’eccezione. L’Italia è un Paese a cui il cinema si addice con grande naturalezza. Mi piace la metafora del calciatore in declino che tuttavia trova sempre il momento, per attitudine, tecnica e fantasia, magari non più per energia, di fare un gol d’autore. L’eccezione è Nanni Moretti. Verso la fine del decennio precedente mostra un’attitudine magnificamente anomala per il nostro cinema: la capacità di rappresentare contenuti importanti con ironia, leggerezza, facendo sorridere e ridere. È un’esclusiva che gli appartiene. Ma c’è un’altra prerogativa, anche questa quasi sua esclusiva: Moretti è un ottimo scrittore. I suoi film partono da lì, com’è giusto che sia. Il regista non sarà mai un acrobata del linguaggio, la cinecamera non percorrerà mai chilometri di rotaie in dritto o in tondo, e neppure in alto o in basso. Si piazzerà sui volti e sui campi, più o meno lunghi, per rappresentare chiaramente, non per stupire in velocità. Ne La messa è finita Nanni è un prete triste, perché non può fare niente intorno a sé. Nel 1989 firma Palombella rossa, film vicino alla politica, certo di qualità ma sopravvalutato, che apre la nuova fase, politica appunto, che diventerà in futuro sempre più definita e perentoria.
La crisi economica emersa negli anni ottanta comincerà ad attenuarsi nel decennio successivo. Ciononostante, le stagioni 1992-1993 e 1993-1994 segneranno il minimo storico nel numero di film realizzati, nella quota di mercato nazionale (15%), nel numero totale di spettatori (sotto i 90 milioni annui) e nel numero di sale. L’effetto di questa contrazione industriale sancisce la definitiva affermazione della televisione come mezzo di intrattenimento privilegiato, tanto da inglobare in sé tutto il cinema di genere, non più idoneo a competere con i grandi blockbuster hollywoodiani.
*******
MGF