Regia di Sam Mendes –USA, 2022 – 119′
con OliviaColman, MichealWard,Tanya Moodie
Drammatico,sentimentale

 

 

 

 

 

SAM MENDES CERCA LA VIA DI UN CINEMA PIÙ INTIMO E PERSONALE, TORNA AGLI ANNI ‘80 E COSTRUISCE UN DRAMMA ROMANTICO

Dopo un trittico di film spettacolari (i bondiani Skyfall e Spectre, e il virtuosistico 1917), Sam Mendes ha deciso di riconciliarsi con un cinema più intimo e personale, pur senza sfociare nell’autobiografia, come hanno fatto recentemente molti suoi colleghi, daCuaróna Spielberg.

Empire of Light infatti è ambientato negli anni ’80 e ha come fulcro, sia perché ne è lo sfondo principale, sia perché è uno dei temi cardine dell’intero film, un cinema, quello in cui lavora Hilary (Olivia Colman) e dove – sfidando la relazione clandestina ma noiosa con il proprietario della sala (Colin Firth) – si innamora di Stephen (Micheal Ward), giovane commesso afro-discendente, da cui oltre il colore dell’incarnato la divide anche una notevole differenza d’età.

Da una parte l’arte popolare e l’emozione, luoghi simbolici in cui poter essere se stessi e amarsi senza paura, dall’altra “il mondo fuori”, che ci opprime e ci costringe a nasconderci: quella di Mendes è una visione romantica della questione, come se il cinema proprio in quanto arte
popolare non rispecchiasse quel mondo, non ne fosse eco o conseguenza, però fa parte del gioco di un film pensato per titillare i ricordi e le emozioni di un pubblico di riferimento chiaro.

 

Quello che invece fa meno parte di questo gioco è la forma che il regista gli ha dato, come se avesse intenzione di riesumare i fantasmi decadenti dell’accademia britannica che 40 anni di cinema britannico avevano spazzato via con risolutezza: scrittura scolastica nel procedere della passione, perfetta per garantire a Colman premi e candidature, costruita col bilancino dei ricatti emotivi (non manca la follia), una regia poco sentita, troppo corretta e impostata, ad altezza di emotività senile e con pochissimi tocchi ironici (meno che mai quelli sorprendenti).

È uno di quei film per cui si finisce col dire “bravi gli attori (vero), bella la fotografia”: verissimo, perché Roger Deakins (ennesima candidatura all’Oscar) è un maestro e qui, dentro questo film tiepido e prevedibile come un centrino di lana sulla cassettiera della nonna, può far cantare in maniera magnifica le sue immagini, può cullare lo spettatore dentro la bellezza del cinema e delle sue luci.

Ecco dov’è l’impero della luce di cui parla il titolo, nel lavoro visuale di un genio del colore e delle ombre cinematografiche, perché se lo cercassimo dentro questo film intessuto di solitudine, repressione e un po’ di mestizia, che fa fatica ad animarsi e ad accendersi come invece vorrebbe, rischieremmo di trovarci delusi.

EmanueleRauco -Cinematografo.it

 

 

IL REGISTA SAM MENDES

Sir Samuel Alexander “Sam” Mendes (Reading, 1º agosto 1965) è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico britannico. Dopo gli esordi a teatro e la direzione artistica della Donmar Warehouse di Londra, Mendes ha fatto il suo debutto alla regia cinematografica con il film American Beauty (1999), per cui ha vinto il Premio Oscar come miglior regista. Nel 2020 gli è stato conferito il cavalierato per i suoi servizi all’arte drammatica.

 

 

 

 

OLIVIA COLMAN

Pseudonimo di Sarah Caroline Colman (Norwich, 30 gennaio 1974), è un’attrice britannica.
Considerata una delle migliori attrici del mondo, ha ricevuto il plauso della critica per la sua interpretazione della Regina Anna di Gran Bretagna nel film biografico La favorita, grazie a cui si è
aggiudicata il Premio Oscar per la miglior attrice. Nel 2021 ha ricevuto la sua seconda candidatura
all’Oscar per la migliore attrice non protagonista per la sua interpretazione nel film The Father – Nulla è
come sembra, mentre nel 2022 viene nuovamente candidata all’Oscar alla miglior attrice per La figlia
oscura.

Molto attiva in campo televisivo, dove possiamo trovarla nella serie Broadchurch (2013-2017), nella miniserie The Night Manager (2016) e nella serie Netflix The Crown (2019-2020), per cui ha vestito i panni della regina Elisabetta II nella terza e quarta stagione; quest’ultimo ruolo le ha anche garantito la vittoria del Premio Emmy nel 2021.

 

 

MICHAEL WARD

Rimasto orfano di padre a due anni, Micheal Ward si è trasferito con la famiglia a Londra dalla Giamaica nel 2001.
Dopo aver lavorato qualche anno come modello ha fatto il suo esordio sul grande schermo nel 2016 nel film Brotherhood, mentre due anni dopo ha interpretato il ruolo principale di Brendan in The A List. Nel 2020 ha vinto il BAFTA perla miglior stella emergente e nel 2022 è stato diretto da Sam Mendes nel film Empire of Light, per cui ha ricevuto una candidatura al BAFTA al miglior attore non protagonista.

 

 

COLIN FIRTH

Colin Andrew Firth (Grayshott, 10 settembre 1960) è un attore britannico naturalizzato italiano.
Ha recitato in numerosi film di successo quali La fidanzata ideale, Il diario di Bridget Jones, La ragazza con l’orecchino di perla, Love Actually – L’amore davvero, L’importanza di chiamarsi Ernest, A Single Man, Mamma Mia!, Orgoglio e pregiudizio, Un matrimonio all’inglese e Il
discorso del re.
Attore versatile e pluripremiato, vince nel 2009 la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e il Premio BAFTA al miglior attore per A Single Man di Tom Ford, ricevendo la sua prima candidatura all’Oscar al miglior attore.
Nel 2011, grazie all’interpretazione di Giorgio VI del Regno Unito ne Il discorso del re di Tom Hooper vince il Premio Oscar come miglior attore protagonista, il Golden Globe per il miglior attore in un film drammatico, il Premio BAFTA e due Screen Actors Guild. Nel 2000 debutta da scrittore con The Department of Nothing.

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EMPIRE OF LIGHT ha ottenuto 1 candidatura a Premi Oscar, 1 candidatura a Golden Globes, 4 candidature aBAFTA,1 candidatura a Critics Choice Award, In Italia al Box Office ha incassato 393 mila euro

Recensioni
6/10 IGN Italia
3/5 Movieplayer
3/5Comingsoon

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MGF

CHIARA

Biografico
Regia di Susanna Nicchiarelli – Italia, Belgio, 2022 –
Durata 106′
con Margherita Mazzucco, Andrea Carpenzano, Carlotta Natoli, Paola Tiziana Cruciani

UN’ODE AL SAPER VIVERE FEMMINILE, QUASI UN MUSICAL DALLE TINTE SFUMATE

Dopo Nico, 1988 e Miss Marx, Susanna Nicchiarelli torna a raccontare di una donna in grado di segnare la storia.
La regista e sceneggiatrice affronta una figura femminile centrale giustapponendola alla sua epoca e contestualizzandola all’interno della società patriarcale.
Chiara viene considerata proprietà del padre e le viene vietato (inizialmente) il privilegio della povertà perché “senza possessione non c’è protezione”, sua sorella biologica trova rifugio in convento per sottrarsi ad un matrimonio combinato, e alle Clarisse sarà vietato uscire dal convento per viaggiare verso i luoghi sacri della religione, perché “sono femmine, non frati”.
L’accento di Nicchiarelli è anche sulla dimensione comunitaria e solidale che si crea intorno a Chiara, che rifiuta ogni impostazione gerarchica all’interno del suo ordine proclamando “qui non ci sono serve” e rifiutando di definirsi badessa. Ma la ragazza resta una figura carismatica che raccoglie e galvanizza l’energia femminile che la circonda (bella la scena in cui, cantando il suo nome, donne di ogni età e provenienza vengono attirate verso il convento), e la sua quieta determinazione conquista cardinali che diventeranno Papi, opera prodigi, cura gli infermi e le anime.

Paola Casella – MyMovies

LA STORIA DI CHIARA D’ ASSISI

Agli inizi del Duecento, una giovane ragazza nobile di nome Chiara scappa con una cara amica dalla casa paterna per seguire le orme di Francesco.
Francesco ha fondato un ordine di frati basato sulla vita in povertà che prontamente accoglie le ragazze. Chiara, spogliata delle sue nobili vesti, non avrà però vita semplice: le opposizioni paterne, quelle del pontificato e infine anche gli scontri con Francesco, ostacoleranno il desiderio della ragazza di servire il popolo. D’altronde, ricordiamolo, a vivere tutto ciò è una donna diciottenne del XIII Secolo.

 

L’UMBRIA PROTAGONISTA

A livello paesaggistico, la protagonista del film è l’Umbria. La terra d’origine non solo di Santa Chiara, ma anche di Nicchiarelli. La location principale è la Chiesa di San Pietro a Tuscania (ambientazione di film come Uccellacci e Uccellini), ampia pietra immersa nel verde che è luminosa di giorno e angosciante di notte, ma sempre credibile. Infine, una nota di merito va alle scene conviviali: in Chiara i banchetti non
mancano e, a seconda della situazione e dei personaggi, sono ricchi, scarni o esotici.

 

LA MUSICALITA’ DI CHIARA

Chiara è un film che viaggia indietro nel tempo ma che porta con se il presente, soprattutto a livello sonoro. La lingua in cui i personaggi
parlano è un volgare dialettale dalle cadenze umbre, che si alterna al latino dei testi e al francese delle canzoni che pervadono le scene. L’utilizzo di queste tre lingue collabora a trasmettere l’atmosfera del XIII Secolo: Chiara parlava in volgare, predicava in volgare perché era la lingua del popolo, un parlato distante dal latino ecclesiastico. Francesco inoltre amava il francese, il suo nome deriva proprio da quella lingua, quella delle chanson. La modernità di Chiara non è tanto nelle parole utilizzate, quanto nel montaggio sonoro: pur non essendo un musical, nel film i personaggi ballano e cantano interrompendo l’azione e venendo pervasi dalla musica e si coglie la volontà della regista di realizzare un film che possa parlare dei giovani di allora e che sia allo stesso tempo in grado di comunicare ai giovani di oggi.

 

IL DUO MAZZUCCO – CARPENZANO

Le scene più belle sono quelle in cui Chiara e Francesco sono fianco a fianco. La forza dei personaggi nella storia è resa dal potente duo attoriale Mazzucco e Carpenzano. Lei, una ragazza di diciotto anni reduce dalla serie di successo L’amica geniale. Lui, un attore promettente del cinema indipendente italiano (soprattutto con i Fratelli D’Innocenzo). I volti di pietra, gli sguardi persi che hanno contraddistinto i personaggi precedentemente interpretati dalla coppia di attori, questa volta vengono adattati allo scenario religioso e pittorico di Chiara. Mazzucco e Carpenzano sanno alternare spiritualità e pathos religiosi ai tipici sentimenti dei giovani: l’entusiasmo, l’idealismo, la voglia di cambiare il mondo.

 

MGF

IL SOGNO DI FRANCESCO

Biografico
Regia di Renaud Fely, Arnaud Louvet – Francia, Belgio, Italia, 2016
durata 90 minuti.
con Elio Germano, Jérémie Renier, Yannick, Renier, Éric Caravaca, Marcello Mazzarella

 

CON UNO STIE CHE SI POTREBBE DEFINIRE QUASI BRESSONIANO, IL FILM SEGUE LE VICENDE DI FRATE ELIA, UNO DEI PIU’ FEDELI COMPAGNI DI FRANCESCO D’ ASSISI

Assisi 1209. Francesco ha appena subito il rifiuto da parte di Innocenzo III di approvare la prima versione della Regola, che metterebbe i fratelli al riparo dalle minacce che gravano su di essi. Intorno a lui, tra i compagni della prima ora, l’amico fraterno Elia da Cortona guida il
difficile dialogo tra la confraternita e il Papato: per ottenere il riconoscimento dell’Ordine, Elia cerca di convincere Francesco della necessità di abbandonare l’intransigenza dimostrata finora, accettando di redigere una nuova Regola. Ma che cosa resterebbe del sogno di Francesco?

Nel libro “I Papi. Storia e segreti” di Claudio Rendina a proposito di Innocenzo III si legge: “Poco poteva essere lo spazio lasciato a certi movimenti pauperistici; si salvarono soltanto quelli che seppero mantenersi nei limiti dell’idealizzazione di una virtuosa vita cristiana, senza atteggiarsi troppo a condannare chi stava in alto, finendo per concordare una Regola e il riconoscimento del loro movimento come vero e proprio ordine religioso in seno alla Chiesa“. La sequenza di apertura, con il pontefice che ritiene utile per i porci la prima stesura della Regola francescana, chiarisce in modo efficace quanto sopra descritto.
Fely e Louvet sono assolutamente consapevoli di essere stati preceduti nel raccontare la figura del poverello di Assisi da nomi come Rossellini, Cavani, Zeffirelli e forse proprio per questo focalizzano la loro attenzione sul rapporto con frate Elia in cui si sviluppa il processo di trasformazione dello spirito originario del francescanesimo. Con uno stile che si potrebbe definire quasi bressoniano ci viene proposta la vicenda dal punto di vista dello stesso Elia del quale si mostra l’adesione allo spirito del fondatore nonché un’amicizia sincera che entrano in conflitto con l’esigenza ‘politica’ di ottenere un riconoscimento ufficiale. Il quale può essere ottenuto solo attenuando la radicalità evangelica ed accettando compromessi che Francesco non può fare propri.
La sceneggiatura, suddividendo la narrazione in capitoli dedicati a personaggi diversi della prima comunità francescana e grazie a una sentita adesione di Elio Germano e di Jeremie Renier ai reciproci personaggi, ci pone di fronte ad un dilemma che attraversa i secoli e si ripropone costantemente sia in movimenti religiosi che laici. Quanto la spinta iniziale può stemperarsi nel corso del tempo con la convinzione che il fine resti immutato ma che i mezzi per raggiungerlo debbano adattarsi alle contingenze?
Non è poi affatto casuale che un film come questo, che riflette sullo spirito evangelico, veda la luce degli schermi nel momento in cui a Roma siede il primo pontefice che abbia assunto il nome del santo di Assisi mandando un segnale preciso alla Chiesa universale.

Giancarlo Zappoli – MyMovies.it

LE RECENSIONI

“San Paolo è la Dottrina, Sant’Agostino il Pensiero, ma San Francesco è qualcosa di più: un’Utopia incarnata la cui forza ha attraversato i secoli concretizzandosi ora nel mandato di Papa Bergoglio, che simbolicamente ne ha assunto il nome. Parte da quest’assunto il film dei francesi Renaud Fély e Arnaud Louvet (…). Bressoniana, e quindi « francescana» nello stile, la pellicola è divisa in capitoletti di esile ordito e tuttavia, anche grazie agli interpreti, le figure dei due protagonisti emergono vivide e convincenti: Elio Germano è un Francesco poetico e sognatore, Jérémie Renier conferisce a Elia una qualità molto umana di dubbio e crisi di coscienza.”
(Alessandra Levantesi Kezich, ‘La Stampa’, 6 ottobre 2016)

 

“Le attenzioni del cinema per il Poverello di Assisi sono state tante: da Rossellini a Zeffirelli alle tre rivisitazioni compiute da Liliana Cavani.
Questo nuovo film francese, recitato in francese anche dagli italiani del cast a partire da Elio Germano, concentra il suo misuratissimo svolgimento su un dilemma di natura politica. (…) La riscrittura della Regola, dice il film, condusse sì al riconoscimento pieno ma a prezzo di rinunce: soprattutto al principio che ci si debba ribellare alla gerarchia se lo si ritiene giusto.”
(Paolo D’Agostini, ‘La Repubblica’, 6 ottobre 201)

 

“Nuova incursione del cinema nelle vicende del Poverello d’Assisi, questa volta scritta e diretta da due registi francesi, Renaud Fély e Arnaud
Louvet, che hanno voluto ‘essere con lui’ nella più spoglia delle autenticità possibili, con un minimo di mediazione artistica, prendendo assai più a modello la lezione didascalica di Roberto Rossellini, piuttosto che le interpretazioni tormentate e radicali di Liliana Cavani o l’elegante spettacolarità di Franco Zeffirelli. Non hanno voluto seguire alcuna biografia e nemmeno legarsi ai testi ufficiali del francescanesimo ma avvicinarsi il più possibile alla figura umana di Francesco, sempre attuale (…). Sogno e realtà, utopia e storia: dal 1209 agli ultimi giorni terreni del santo, il film approccia con un rigore ‘francescano’ la dialettica tra la visione del fondatore e la necessità di incarnarla in una
Regola – il cui cammino fu realmente tribolato – approvata dalla Chiesa, per mantenere una purezza teologica e assicurare una correttezza dottrinale, quando in quell’epoca il pauperismo assumeva anche derive ereticali.
(Luca Pellegrini, ‘Avvenire’, 7 ottobre 2016)

 

“Non è un biopic su San Francesco l’esordio in regia del duo francese Fély-Louvet, bensì una riflessione profonda sul peso di un’utopia
rivoluzionaria di fronte allaV mediocrità e all’ipocrisia del Potere.
La figura e le gesta sempre attuali di Francesco si prestano alla perfezione, per credenti e non, all’obiettivo così come l’obiettivo dei registi è solido dentro a un’arte povera e ‘naturale’. Germano e Renier incantano.”
(Anna Maria Pasetti, ‘Il Fatto Quotidiano’, 6 ottobre 2016)

MGF

 

 

Drammatico – 102′
Regia di Oliver Hermanus – Gran Bretagna, 2022
con Bill Nighy, Aimee Lou Wood, Alex Sharp

 

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Williams è un veterano della Seconda Guerra Mondiale e lavora come impiegato in un ufficio governativo, l’ennesimo ingranaggio della burocrazia Il suo compito consiste nello stabilire se chi richiede le autorizzazioni per utilizzare i luoghi pubblici ha i titoli per farlo, ed è inappuntabile nell’eseguire le pratiche.. Gli viene diagnosticata una malattia molto grave ma piuttosto che informare il figlio, ormai adulto e unico parente che gli è rimasto dopo la morte della moglie, decide di ignorare la situazione e trascorrere una notte brava con uno scrittore bohémien. Tuttavia l’incontro con un ex collega, Margaret, lo spingerà a ritrovare il significato della vita e del tempo che gli resta., tanto da iniziare a prendere in considerazione la possibilità di favorire la richiesta, apparentemente inaccettabile, della concessione di un parco giochi per piccoli pargoli…

 

LA RECENSIONE

IL SENSO DELLA VITA PER BILL NIGHY IN UN FILM TOCCANTE, TRA TOLSTOJ E KUROSAWA

Qualcuno potrebbe pensare che si deve essere davvero dei pazzi per decidere di confrontarsi con il remake di un capolavoro di Akira Kurosawa. Le possibilità di venire schiacciati dal peso del confronto sono innumerevoli. È normale quindi che all’annuncio del rifacimento di Vivere, classico del 1952 firmato dal regista giapponese (a sua volta ispirato ad una novella di Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič), in molti
abbiamo storto il naso. Ma Living, film diretto da Oliver Hermanus e scritto dal Premio Nobel Kazuo Ishiguro non è soltanto un remake/omaggio riuscito ma anche un film profondamente commovente.
Spostando l’ambientazione del film da Tokyo alla Londra del 1953 ancora intenta a fare i conti con le macerie materiali e morali della Seconda Guerra Mondiale, Living racconta la storia di Mr. Williams (un gigantesco Bill Nighy), anziano dipendente pubblico stretto nella morsa di una vita sempre uguale resa ancora più solitaria dalla morte della moglie. Quando scopre di avere un male incurabile la notizia
lo porta a fare un bilancio della sua esistenza e decide di spendere gli ultimi mesi che gli restano da vivere provando a non sprecarne nemmeno un minuto. Grazie all’aiuto di Peter (Alex Sharp), un giovane idealista appena assunto, William decide di prendere in mano una pratica aperta da un gruppo di mamme decise a far costruire un parto giochi in un’area degradata. Non è un caso che l’adattamento del film di Kurosawa sia ambientato in Inghilterra: anche la società inglese ha una capacità di controllare le emozioni fino a reprimerle. È quello che ha fatto Williams per oltre vent’anni dopo la morte della moglie. Ma quella sentenza di morte scatena in lui un’irrefrenabile voglia di vivere. Il film di Hermanus lo mette in scena in modo molto preciso mostrandoci la freddezza e compostezza dell’ambiente lavorativo e casalingo della prima parte della sceneggiatura, con lo schiudersi del protagonista nella seconda parte. La scrittura di Ishiguro è raffinata nel creare un’atmosfera quasi sospesa, dosando con attenzione le parole. La fotografia di Jamie Ramsay dona al film uno spessore, una densità tali da
sembrare scatti di un’epoca passata nel suo giocare sui contrasti. Come quelli interiori che vive il protagonista di questa storia. Uno zombie che per anni ha camminato senza una meta in grado di afferrare tutta la bellezza della vita ad un passo dalla sua fine.

Manuela Sattacatterina – Giornalista e critico cinematografico

 

IL REGISTA

OLIVER HERMANUS
Cape Town – Sudafrica – 1983

 

 

 

Oliver Hermanus e un regista e scrittore sudafricano. Dopo la laurea in cinema, media e studi visivi, ha lavorato come fotografo per un’agenzia di stampa. Ha poi completato gli studi alla London Film School, realizzando il suo primo film, Shirley Adams (2009).
In seguito ha diretto Beauty (vincitore del Queer Palm Award al Festival di Cannes 2011), The Endless River (primo film sudafricano in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2015), e Moffie (2019) e Living (2022)

 

IL PROTAGONISTA

BILL NIGHY
Caterham – Regno Unito
12 dicembre 1949

 

 

 

 

 

 

Bill Nighy è un attore molto acclamato di origine inglese. Nel 1991, divenne noto al pubblico televisivo per il suo ruolo del Professor Mark Carleton nella miniserie della BBC La stanza degli uomini. Da allora il talentuoso attore ha accumulato molti altri importanti riconoscimenti sia sul grande schermo che sul piccolo schermo.

Bill Nighy è nato a Caterham, una città nel distretto di Tandridge nel Surrey, sua madre Catherine Josephine aveva origini irlandesi mentre suo padre Alfred Martin Nighy era di origini inglesi. Mentre frequentava la John Fisher School, una scuola cattolica per soli ragazzi, Nighy faceva parte del gruppo teatrale della scuola. In seguito si è formato alla Guildford School of Acting. Da quando ha segnato il suo debutto sullo schermo nella serie della BBC Softly, Softly: Taskforce (1976), Bill Nighy è apparso in innumerevoli produzioni televisive, in particolare sulla BBC. Il brillante lavoro di Nighy come attore cinematografico e televisivo gli ha procurato un grande successo di critica nel corso degli anni.

 

 

La sua interpretazione nel film commedia di successo Love actually (2003) gli è valso numerosi riconoscimenti tra cui il Premio BAFTA 2003 per il miglior attore non protagonista.

Bill Nighy non è mai stato sposato. Tuttavia, ha avuto un coinvolgimento romantico a lungo termine con l’attrice inglese Diana Quick. Il duo si riunì nel 1981 dopo aver recitato in una commedia al Royal National Theatre di Londra. La loro relazione è durata per 27 anni durante i quali hanno avuto un figlio insieme. Si separarono amichevolmente nel 2008.
Sua figlia Mary Nighy è nata il 17 luglio 1984 e molto simile a suo padre, è attrice e regista.

 

L’attore è un appassionato amante del calcio ed è un sostenitore del Crystal Palace Football Club. È anche patrono di diverse organizzazioni di beneficenza, tra cui la Beneficenza per bambini del Crystal Palace, l’Ann Craft Trust e l’organizzazione benefica per bambini con sede a Londra “Scene & Heard”.

 

MGF

Drammatico – 183′
Regia di Damien Chazelle – USA, 2022
con Brad Pitt, Margot Robbie, Diego Calva.

 

ATTENZIONE:

QUESTO FILM CONTIENE SCENE CHE POSSONO URTARE LA VOSTRA SENSIBILITA’

 

 

LA TRAMA

Babylon, il film diretto da Damien Chazelle, ci porta nella Los Angeles degli anni 20 del Novecento. È l’Epoca d’Oro di Hollywood, regno della sregolatezza, dell’esuberanza e delle folli ambizioni ma è anche un momento cruciale per l’industria cinematografica, con il passaggio dai film muti a quelli sonori. Una rivoluzione che segnerà l’ascesa di nuove stelle e la rovina di vecchie glorie.
Seguiamo le vicende personali e professionali dei quattro protagonisti principali: Manny Torres (Diego Calva), un aspirante attore ispano-americano, che all’inizio si deve accontentare di un lavoro di assistente sul set, Jack Conrad (Brad Pitt), un famoso attore, tra i più pagati a Hollywood, noto per la sua vita privata sregolata, tra feste, divorzi e affari pochi chiari, preoccupato dall’arrivo dal sonoro, che rischia di stroncargli la carriera.
C’è poi la conturbante ma insicura Nellie LaRoy (Margot Robbie), destinata a diventare una stella dall’oggi all’indomani. Per lei la vita dovrebbe essere un party senza fine.
Il quarto protagonista principale di questa storia è Sidney Palmer (Jovan Adepo) un giovane trombettista jazz che ha l’opportunità di iniziare una carriera nel cinema.
Intorno a loro ruotano diversi personaggi, da Elinor St. John (Jean Smart), giornalista specializzata in cronaca scandalistica senza peli sulla lingua, a James McKay (Tobey Maguire) un gangster tossicodipendente in cerca di gloria, da Fay Zhu (Li Jun Li), attrice e cantante spesso protagonista delle sfavillanti serate hollywoodiane, a Irving Thalberg (Max Minghella), uno dei più noti produttori cinematografici degli anni 20 e 30, unico personaggio del film realmente esistito.

Deboli di stomaco astenersi. Qui il cinema richiede un contributo non da poco alle viscere. Fracassone e irresistibile, il nuovo film di Chazelle è una prima summa dei suoi temi, del cinema, della musica e dell’ossessione stessa per qualcosa che si ama. Sono i silenzi che emergono, però, proprio grazie alla contrapposizione con la frenesia, in un racconto sulla continua rinascita del cinema, a partire dal pionierismo del muto che muore quando nasce il sonoro.

 

LA RECENSIONE

LA FOLLIA CINEMATOGRAFICA DI DAMIEN CHAZELLE

Raramente un film come Babylon arriva così presto nella carriera di un autore. Ma geni della risma di Damien Chazelle trascendono le regole del tempo. Sbagliando e inciampando, anche. La nuova pellicola del regista di Whiplash e La La Land sembra già l’urlo definitivo del suo cinema. Un’opera che dividerà persino gli spettatori più granitici e schierati, perché Babylon è come quella montagna russa in cui prima stai
bene e poi stai male, ma nonostante tutto non perderai mai la voglia di scendere. La volontà di Chazelle di raccontare la sua idea di cinema parte dalla necessità di raccontare il cinema in generale. In poco più di tre ore di durata, questo mastodonte cinematografico racconta in chiave romanzata uno spaccato ben preciso della Hollywood degli anni Trenta, passando attraverso il punto di vista di svariate figure
chiave dell’industria che vivono il grande sogno del successo.

Una storia di ambizione per chi parte dal basso come il giovane Manny Torres (Diego Calva), un racconto di incredibile ascesa e di inesorabile declino per Nellie LaRoy (Margot Robbie), un’epopea di gloria giunta al suo tramonto come quella di Jack Conrad (Brad Pitt), star del cinema muto, che dopo le scintille dei grandi colossal deve affrontare la micidiale avanzata del sonoro, destinato a cambiare per sempre il modo di fare cinema e di fruirne. Una grande disamina sull’evoluzione della Settima Arte, sugli eccessi sfrenati, sulle perversioni e sulle perdizioni in cui il lato più oscuro di Hollywood risucchia chiunque si sia spinto più in là della luce. Nel raccontare questi svariati punti di vista, e nel ruotare attorno a più tematiche, Babylon è veramente una grande Babilonia del cinema. Un film cangiante, strepitoso nella sperimentazione di più generi differenti, è tanti film all’interno dello stesso film, un caleidoscopio di suggestioni, narrazioni e stili che si intrecciano tra loro in una vera e propria orgia cinematografica. Perché caotica, attraente, irresistibile e sfrenata. È film storico che poi si trasforma in satira pungente in cui si ride di gusto, poi diventa commedia e storia d’amore, poi film drammatico e persino horror.

Il nuovo film di Chazelle è puro caos, e funziona per questo, persino con i suoi tangibili difetti. È infatti un’opera narrativamente sfilacciata, prolissa, imperfetta sul piano della coerenza e della linearità dell’intreccio. Con momenti che, a livello di scrittura, rimangono confusi, a volte pretestuosi. Insomma, è una pellicola che vive di alti e bassi, ma in cui, per la varietà e la qualità dei temi trattati e del modo di portarli in scena, gli alti sono clamorosi e finiscono per oscurare o giustificare gli scivoloni.

Gabriele Laurino -Responsabile editoriale Everyeye.it

 

IL REGISTA

DAMIEN CHAZELLE
Providence, Rhode Island, Stati Uniti
19 gennaio 1985

 

 

 

È figlio di Celia Martin, una scrittrice e professoressa di storia e dello scienziato informatico francese Bernard Chazelle, docente a Princetown. Fin da piccolo è attratto dall’ambiente artistico e al liceo si concentra sulla musica, diventando batterista jazz al liceo di Princeton, dove a tormentarlo è un insegnante da cui prenderà ispirazione per il personaggio di Terence Fletcher in Whiplash. Abbandonate le velleità musicali dopo essersi reso conto conto di non avere abbastanza talento, torna alla sua prima passione, il cinema, che studia alla Harvard University, dove si laurea nel 2007. Nel 2009 scrive e dirige il musical Guy and Madeline on a Park Bench, dove appare anche
la sorella minore, l’attrice e circense Anna Chazelle. Protagonista della storia, una costante nella sua filmografia, è un musicista jazz, in questo caso un trombettista.
Inizia poi a scrivere sceneggiature per terzi, come The Last Exorcism e Il ricatto e a un certo punto si rende conto che scrivere per altri non è quello che vuole fare e butta giù la sceneggiatura di Whiplash, ispirata alle sue esperienze liceali, che mette poi in un cassetto perché la ritiene troppo personale. Quando trova il coraggio di proporla, non riceve riscontri positivi dai produttori, ma il copione (di sole 85 pagine) finisce nella Blacklist 2012 dei migliori non realizzati. Alla fine riesce a coinvolgere J. K. Simmons nel ruolo dell’insegnante e a farsi finanziare un cortometraggio che partecipa al Sundance 2013, dove vince il premio per la categoria. Dal corto realizza poi il lungometraggio che l’anno dopo sempre al Sundance vince il premio del pubblico e il gran premio della Giuria, facendo incetta di riconoscimenti anche a Deauville.

Nel 2014 il film ottiene 5 nomination agli Oscar e ne vince tre, nessuno dei quali va a Chazelle (candidato per la miglior sceneggiatura non originale). È poi cosceneggiatore del thriller sci-fi 10 Cloverfield Lane e torna ai temi del suo primo film con La La Land, con Ryan Gosling e Emma Stone, che è in concorso a Venezia dove alla Stone va la Coppia Volpi, vince il premio del pubblico a Toronto, 7 Golden Globe su
7 candidature e raggiunge un record di 14 nomination agli Oscar 2017. Il suo film successivo sarà un biopic sull’astronauta Neil Armstrong, ancora interpretato da Gosling, First Man, il primo uomo. Il film ha ricevuto recensioni positive, con Owen Gleiberman della rivista Variety che ha scritto che “Chazelle orchestra uno stato d’animo di avventura straordinariamente originale intriso di ansia“. Due anni più tardi dirige due episodi della serie televisiva Netflix The Eddy, da lui prodotta. Nel 2022 dirige Babylon, pellicola ambientata nella Hollywood degli anni ’20, con protagonisti Margot Robbie e Brad Pitt.

MGF