Regia di Aki Kaurismäki- Finlandia, 2023

con Alma Pöysti, Jussi Vatanen, Janne Hyytiäinen

 

 

 

 

 

 

FOGLIE AL VENTO DI AKI KAURISMÄKI: LA POESIA DEL QUOTIDIANO

Quando pensiamo alla Finlandia la prima cosa che ci viene in mente non è il senso dell’umorismo. Per usare dei luoghi comuni, forse si forma nella nostra mente prima l’immagine della Nokia e poi lo xilitolo. Invece un autore come Aki Kaurismäki è la prova che non bisogna mai pensare per stereotipi: cerchiamo di spiegare come un film possa essere asciutto, quasi gelido, e allo stesso tempo molto romantico e divertente.
Foglie al vento è la storia di Holappa (Jussi Vatanen), ormai senza più alcun entusiasmo, se non per i vecchi film, che va a vedere in un cinema che sembra appartenere a un’altra epoca. Trascinandosi tra un lavoro che non sopporta e l’altro, l’unico suo contatto con il mondo esterno è l’amico Huotari (Janne Hyytiäinen), con cui va puntualmente a ubriacarsi.
In Finlandia fa freddo, ma è soprattutto un freddo esistenziale. Almeno fino quando non incontra Ansa (Alma Pöysti). Anche lei pero è disillusa e non vuole un alcolizzato accanto. Gli impone quindi una scelta: o lei, o la bottiglia. Ce la può fare una persona che ormai si sente come una foglia secca sbattuta dal vento a ricominciare a credere nel futuro solo perché glielo chiede un’altra persona?
Holappa e Ansa non sono romantici. E sono anche dei perdenti. La società li tratta come fossero invisibili, salvo poi accanirsi quando non serve, come quando lei viene licenziata per aver portato a casa un panino scaduto, che sarebbe stato comunque buttato dall’azienda, ma viene considerato un furto. Eppure nei loro incontri goffi, davanti a una cena romantica che fa tenerezza per la sua semplicità, vediamo nascere un amore dignitoso e commovente, che scalda il cuore.

Il cinema spesso fa sognare con gesti romantici eclatanti, ma la vita vera spesso è molto più simile a quella raccontata da Kaurismäki. È impossibile quindi non fare il tifo per questa coppia sgangherata, che quasi non vuole cedere alla scintilla che improvvisamente sconvolge l’abitudine e il grigiore da cui ormai sono anestetizzati. Eppure il destino continua a farli incontrare, finendo per far credere loro che forse anche per due così c’è possibilità di felicità, nonostante alla radio non si faccia che parlare di guerra e recessione economica.
Foglie al vento non è soltanto una storia d’amore tra i due protagonisti: c’è anche una grande celebrazione del cinema d’autore e soprattutto dell’atto romantico di andare in sala. I due protagonisti sono legati a questo luogo ed è come se i poster di grandi film del passato facessero da testimoni al loro amore. Vengono citati Bresson, Godard. Poi il cane della protagonista si chiama Chaplin. E in effetti nel racconto di Kaurismäki c’è qualcosa di tutti loro.

Valentina Ariete – Movieplayer.it


Il cinema di Kaurismäki è ormai entrato in una dimensione a parte, che solo pochi hanno conosciuto. Quella in cui racconto, forma, vita si uniscono in una semplicità assoluta.


Un’umanità minore, emarginata, deprivata della propria identità sociale, che però – ed è questa la tesi del regista – conserva sentimenti, dignità, desiderio di riscatto, di amicizia, di amore. Quell’amore che i due intravvedono una sera, e inseguono caparbiamente, cadendo e rialzandosi, tra lunghi silenzi e battute fulminanti, attese e pentimenti.


Recensioni
4/5 Cineforum
5/5 Sentieri Selvaggi
4/5 Movieplayer

 

LO STRALUNATO AKI KAURISMÄKI

 

Nato in una famiglia della campagna finlandese, si trasferisce a Helsinki in gioventù con il fratello Mika, oggi anche lui cineasta, con il quale coltiva fin dall’infanzia la sua passione per il cinema. Sopravvive con umili lavori manuali, frequentando contemporaneamente cineteche e cineclub, e ben presto inizia la sua carriera come critico cinematografico.
Decide poi di creare con il fratello la casa di produzione Villealfa Filmproductions che realizza a budget ridotto i film di entrambi, opere minimali caratterizzate da uno stile tipicamente nordico, laconico ed essenziale.

 

 

I due debuttano nel 1981 con il film La sindrome del lago Saimaa, documentario sulla musica rock girato a quattro mani sulle sponde del più grande lago della Finlandia.
Nel 1983 realizza poi un Delitto e castigo tratto da Dostoevskj. Poi vengono Calamari Union, Ombre nel paradiso e nel 1987 Amleto si mette in affari, personale rilettura della tragedia shakespeariana in chiave anticapitalistica.

 

 

 

Dopo Ariel (1988) realizza nel 1989 La fiammiferaia, con cui prosegue la sua indagine attraverso l’universo del proletariato tramite la storia di Iris, un’operaia di cui racconta la triste esistenza in fabbrica e le delusioni amorose.
Nello stesso anno porta di nuovo la musica sul grande schermo con Leningrad Cowboys Go America, folle e surreale road movie che si dipana attraverso il mondo del rock americano.
Con Tatjana (1994) Kaurismäki giunge alla più pura essenzialità nordica realizzando un’opera quasi priva di dialoghi, ambientata in un mondo surreale, dolce e sconsolato allo stesso tempo.
Due anni più tardi nasce Nuvole in viaggio, commedia che prende spunto dall’attualissima problematica della disoccupazione, mentre nel 1999 Kaurismäki realizza, nello stile del cinema muto con tanto di didascalie, il film in bianco e nero Juha, adattamento di un classico della letteratura finlandese di Juhani Abo.
Del 2002 è invece il fortunatissimo L’uomo senza passato, che ha visto in tutto il mondo una consacrazione da parte della critica e del pubblico. Nel 2006 il maestro finlandese ha confermato lo stile surreale e malinconico del suo cinema, commuovendo il pubblico con la triste storia di un solitario guardiano notturno innamorato di una donna che si rivelerà un’esca per una rapina (Le luci della sera).

 

 

Nel 2011 fa centro ancora una volta con il toccante Miracolo a Le Havre. Torna al cinema con L’altro volto della speranza, vincitore dell’Orso d’Argento per la Miglior Regia al Festival di Berlino, una commedia surreale e poetica che vede incrociarsi le strade di un rifugiato siriano sbarcato a Helsinki e di un commesso viaggiatore finlandese con l’hobby del gioco d’azzardo.
Nel 2023 presenta al Festival di Cannes – vincendo il premio della Giuria – il film Fallen Leaves, l’incontro tra due solitudini ambientato nella notte di Helsinki che chiude l’ideale quadrilogia dedicata al lavoro e iniziata nel 1986 con Ombre in paradiso.

 

 

 

MGF

 

 

Regia di Ridley Scott – USA, Gran Bretagna, 2023 – 158′

con Joaquin Phoenix, Vanessa Kirby, Tahar Rahim

 

 

 

 

 

COME IL VERO NAPOLEONE, DUE VOLTE NELLA POLVERE E DUE VOLTE SULL’ALTARE, LA STORIA MESSA IN SCENA DA RIDLEY SCOTT SI DIVIDE IN DUE STRADE, TRA STRAORDINARIE SCENE DI GUERRA E UNA STORIA D’AMORE DA ROMANZO D’APPENDICE, CHE NON S’INCONTRANO MAI.

Eccolo, il Napoleon di Joaquin Phoenix. Lo troviamo subito tra la folla che attende la decapitazione di Marie Antoinette, ne seguiremo poi l’incredibile ascesa nella Francia post-rivoluzionaria, dalla battaglia di Tolone alla campagna d’Egitto, passando per la presa del potere con il colpo di stato nel 1799, la proclamazione a Imperatore dei francesi nel 1804, la battaglia di Austerlitz del 1805, arrivando poi alla disastrosa campagna di Russia, all’esilio dell’Elba, al ritorno in patria e al tentativo fallito di Waterloo, fino all’ultimo respiro sull’Isola di Sant’Elena, nel 1821, dopo sei anni di esilio.
Si salta dunque da un periodo all’altro, eludendo molto certo (d’altronde la lunghezza pur notevole del film, quasi 160’, non potrebbe mai contenere tutto) e procedendo seguendo le linee guida del “classico” film storico, incentrato però sull’ambiguità di un personaggio talmente lucido e risoluto nell’arte della guerra, tremendamente goffo e fragile altrove.
Fatta salva la solita, indiscutibile grandeur con cui il regista 85enne restituisce l’epica nelle scene di battaglia, Napoleon è un biopic plumbeo che stupisce per la scelta di non voler mai eccedere, evitando così tanto il rischio di situazioni grottesche o sopra le righe (i momenti ridicoli dell’Imperatore sono sì accennati, mai caricati troppo), ma anche il pathos che un film come Il gladiatore – sicuramente più imperfetto e più fantasioso di questo – riusciva a regalare.
La volontà è piuttosto quella di “ingabbiare” il personaggio di Napoleone in un limbo perenne dove l’egotismo e la megalomania, unitamente al genio strategico in battaglia, combattono con il sentimento d’amore che lo lega alla donna della sua vita, Giuseppina (Vanessa Kirby), moglie fedifraga, poi imperatrice, poi lasciata perché incapace di donargli l’atteso erede maschio, figura che però accompagnerà la storia di quest’uomo anche all’indomani della di lei morte.
“Francia. Esercito. Giuseppina…”, le ultime tre parole che avrebbe proferito in punto di morte Napoleone, uomo che al comando della fanteria e della cavalleria francese, nel corso di una ventina d’anni, ha ucciso più di 3 milioni di persone. Ma che ha dovuto rinunciare all’amore per lasciare se stesso alla patria.

Valerio Sammarco – Cinematografo.it


Napoleon, nuovo film sul Primo Imperatore di Francia con protagonista Joaquin Phoenix: intellettualmente ambiguo, storiograficamente preciso, dal tono schizofrenico ma esteticamente sontuoso e memorabile.


Il Napoleone di Phoenix è ironico, egocentrico, osservatore, imprenditore, ma anche outsider e si approfitta delle debolezze altrui, pensando di saperne sempre di più. Campagne militari, intrighi politici, gelosia, litigi e sesso animano la sceneggiatura.


Recensioni
6/10 Ondacinema
3,8/5 Sentieri selvaggi
4/5 Coming Soon

 

5 MAGGIO 1821: COSI’ MORIVA NAPOLEONE

Napoleone chiude gli occhi per sempre sull’isola-prigione di Sant’Elena, uno scoglio sperduto nell’oceano Atlantico, a 1.900 km dalla costa africana. Ad assicurarsi lo scoop è il giornale inglese The Statesman, nell’edizione del 4 luglio 1821: due mesi dopo l’evento. La contessa de Boigne, animatrice di salotti fra Londra e Parigi, ricorderà nelle sue Memorie: «Uomini del popolo, piccoli borghesi si incontravano per strada stringendosi la mano piangendo, ma la massa dell’opinione pubblica, schierata con la monarchia, felice della pace e della prosperità ritrovata, rimase inerte».

 

 

I tempi erano cambiati: l’Europa del 1821, nata dal Congresso di Vienna, non era più quella del 1815, e Napoleone non faceva più notizia. L’interesse nei confronti dell’ex imperatore si risvegliò solo due anni più tardi, sull’onda dello straordinario successo del Memoriale di Sant’Elena, dettato in gran parte da Napoleone, con l’aggiunta, da parte di Emmanuel de Las Cases (funzionario e amico dell’imperatore), di particolari della vita in esilio.

 

 

 

Per quasi sei anni, dal dicembre 1815, l’uomo che aveva segnato i destini d’Europa visse in un’abitazione (Longwood House) su quell’isola in mezzo al nulla dal clima malsano, caldo e umido, flagellata da venti fortissimi e senza nessuna comodità. La casa era infestata da insetti, zanzare e topi. Il circondario era sorvegliato costantemente dai gendarmi agli ordini dell’ostile governatore britannico Hudson Lowe. In quel contesto, la salute di Napoleone non poteva che peggiorare rapidamente. Il suo medico personale, l’irlandese O’Meara, gli diagnosticò un’epatite cronica. Nel 1818 il dottore fu costretto a lasciare Longwood House, perché Lowe non approvava la sua crescente familiarità con il prigioniero.
Per rimpiazzare il dottor O’Meara, il 22 settembre 1819 arrivò a Sant’Elena il chirurgo còrso Francesco Antommarchi, accompagnato dagli abati Buonavita e Vignali. Il fedele servitore Louis Marchand introdusse il medico nella stanza del malato: l’imperatore giaceva a letto in una camera piccola e oscurissima.

 

Le pillole mercuriali usate frequentemente dai medici che lo curarono non fecero che peggiorare la situazione. A 51 anni Napoleone ne dimostrava venti di più: era molto sovrappeso e, nelle rare uscite in giardino, doveva appoggiarsi al braccio di Marchand. Nell’ aprile del 1821 il male (un’ulcera cancerosa: fu questa infine la causa di morte) si manifestò in tutta la sua violenza: crampi allo stomaco, vomito, vertigini, sudori abbondanti. Per mettere a suo agio il malato, fu montato il suo letto da campo nel salone, più grande e meglio areato della sua piccola stanza. E fu lì che, nel pomeriggio del 3 maggio, l’abate Vignali gli somministrò l’estrema unzione. La notte fra il 4 e il 5 maggio fu agitatissima: Napoleone delirava, parlava a stento, pronunciava parole incomprensibili. Mormorò “la France, l’armée, tête d’armée, Joséphine». Poi più nulla. La piccola corte dal mattino presto si era radunata per assisterlo fino alla fine.

 

Il polso era ormai debolissimo e dopo il tramonto, alle cinque e undici minuti, l’imperatore dei francesi esalò l’ultimo respiro.

 

MGF

 

 

Regia di Fabio De Luigi – Italia, 2024 – 110′
con Fabio De Luigi, Stefano Accorsi, Elisa Di Eusanio

 

 

 

 

 

IL TERZO FILM DI FABIO DE LUIGI E’ UNA COMMEDIA (MOLTO DIVERTENTE) SUL VALORE DELLA DELICATEZZA DEI SENTIMENTI (MASCHILI) LEGATI AD UN PASSATO CHE RIGUARDA IL FUTURO

Se i Blues Brothers, vestiti di nero, in un completo sgualcito ma leggendario, erano in missione per conto di Dio, ecco Fabio De Luigi e Stefano Accorsi che, nella stessa identica estetica, sono invece in missione per legittimare l’intimità e i sentimenti maschili. Come? In una commedia che è sì un remake (l’opera matrice è 25 km/h di Markus Goller), ma è uno di quei remake fatti bene, ispirati, coerenti, intellettualmente oculati nella scrittura e, soprattutto, nell’interpretazione (l’eccezione che conferma la regola?). Una commedia che fa la commedia, dall’inizio alla fine: si ride, si pensa, ci si emoziona, seguendo un viaggio che ha il sapore della catarsi e del cambiamento. Insomma, al terzo film da regista, De Luigi con 50 km all’ora, molla le regole impolverate del family movie e vira verso la maturità. In tutti i sensi.
Del resto, il filo del film è quello di un viaggio che assomiglia ad una tardiva occasione di crescita, perché restare bambini per sempre, in un mondo oscuro e disilluso come il nostro, è un pericolo non da poco. Dunque, tra tempi comici perfetti, imbarazzanti balletti, insetti nelle minestre e scorribande in giro per i colli dell’Emilia Romagna, 50 km all’ora diventa il divertissement che non ci aspettavamo, capace di prendere di petto l’emotività maschile – e l’emotività fraterna – delineando, in chiave divertita, il profilo di due uomini sperduti e malinconici a cui voler spassionatamente bene.
Com’è che si diceva? Non è la meta che conta, ma il viaggio. Una frase fatta perfetta per spiegare il senso di 50 km all’ora, in cui il Fabio De Luigi regista incontra la sua controparte attoriale in un’unione meravigliosamente amalgamata con un indomabile e giggionesco Stefano Accorsi. Coppia strana, coppia complementare per sguardi e per parole: se la commedia italiana non se la passa benissimo (basti vedere gli incassi), De Luigi e Accorsi riescono a dare un nuovo senso al concetto, risultando credibili e, senza dubbio, umani. In fondo, di umanità parla il film: un’umanità sgangherata, storta, sconnessa e ammaccata. La stessa umanità di una famiglia che vive di memorie, ferma tra la rabbia e il perdono, covando però il bisogno naturale di un affetto fortissimo, che attende di essere ristrutturato.
Attenzione, però: 50 km all’ora non è l’ennesimo melenso film sul valore del perdono, ma un road movie che somiglia ad un coming-of-age disfunzionale, intervallato dagli scherzi, dagli incontri, dalle liberazioni emotive che pesano come macigni. Un romanzo di formazione in cui la crescita è uno stato mentale, dove una risata stempera il risentimento, puntando ad una crescita, tanto narrativa quanto metaforica. C’è un nevralgico cambiamento nei due protagonisti, e c’è un costante cambio di tono nel film che, sotto, delinea quel sentimento maschile dato fin troppo per scontato, eppure sfumato in una delicatezza riconoscibile, fragile e ritrovata.

Damiano Panattoni – Movieplayer


Due fratelli, un viaggio in motorino, il passato da elaborare per andare incontro al futuro. De Luigi scrive, dirige e interpreta questo film sincero, onesto, pieno di buoni sentimenti ma senza inutili sentimentalismi.


Fabio De Luigi e Stefano Accorsi sono la riuscita coppia cinematografica che non ci si aspettava, insieme sono protagonisti di 50 km all’ora, terza commedia diretta dallo stesso De Luigi e da lui scritta insieme a Giovanni Bognetti. Un road movie tutto italiano, anzi romagnolo, che coniuga divertimento e tenerezza.


Nasce una nuova strana coppia: Fabio De Luigi e Stefano Accorsi. Hanno una buona alchimia, divertono e si completano. Hanno differenze all’apparenza inconciliabili, e proprio per questo funzionano.

Recensioni
3/5 ComingSoon
3,5/5 Movieplayer
4/5 Ciak Magazine

*****

I ROAD MOVIE

Nella storia del cinema i “film su strada” hanno fotografato anima e cultura di moltissimi Paesi e periodi storici. Quello dei road movies è uno dei generi cinematografici più iconici e peculiari di tutti, costellato da pellicole nelle quali i protagonisti sono sempre alla ricerca o in fuga da qualcuno o qualcosa. Tutto questo a bordo di veicoli iconici, entrati nel cuore di cinefili (e non solo) di tutto il mondo.
Un filone dominato da personaggi irrequieti, tormentati e “maledetti” ma dotati di una vitalità a volte sbalorditiva. Tra i tanti generi di cui si compone la storia del cinema, quello dei “film su strada” è uno di quelli che nel corso degli anni sono stati in grado di sondare nel profondo temi complessi come l’alienazione, la voglia di riscatto, la mascolinità tossica e la follia, spesso cristallizzando le tensioni e l’identità culturale di un Paese o di un periodo storico.

Tutto questo utilizzando il viaggio come metafora della metamorfosi compiuta sia dai personaggi protagonisti delle vicende narrate sia dei luoghi all’interno dei quali queste ultime avvengono. Le scene di viaggio tendono inoltre a suscitare nostalgia per un passato mitico idealizzato.

I protagonisti del road movie sono in movimento per tutto il film; pertanto, sono elementi iconografici importanti i mezzi di trasporto (principalmente automobili), le riprese “a carrellata” e gli spazi aperti. I road movie del secondo dopoguerra sono stati fortemente influenzati dal romanzo Sulla strada di Jack Kerouac (1957), in quanto in esso viene delineato il futuro dei road movie, fornendo la sua principale narrativa di esplorazione, ricerca e viaggio.

 

La consacrazione di tale genere arrivò solo negli Anni Sessanta con film come Gangster Story e Easy Rider.

I primi road movie degli Anni Trenta erano incentrati su coppie eterosessuali, mentre, a partire dal secondo dopoguerra, i protagonisti sono diventati principalmente amici maschi; le donne appaiono solitamente come personaggi occasionali che si incontrano lungo il percorso, oppure come compagne temporanee di viaggio.

 

 

 

 

Più raramente sono effettive protagoniste, come nel caso di Thelma e Louise del 1991.
Celebri road movie italiani sono La strada di Federico Fellini (1954), Il sorpasso di Dino Risi (1962), Bianco, rosso e Verdone di Carlo Verdone (1981) e Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo (2010). Tre uomini e una gamba (1997) presenta diversi sketch dei comici Aldo, Giovanni e Giacomo, riproposti in salsa road movie misto a commedia romantica.

 

 

 

             

MGF

 

 

POVERE CREATURE!
Regia di Yorgos Lanthimos – USA, 2023 – 141′
con Emma Stone, Mark Ruffalo, Willem Dafoe

 

 

 

 

 

UN’ENERGIA VISIVA ESPLOSIVA CHE ESALTA LA FANTASIA INTERPRETATIVA DI EMMA STONE. E SI RIDE, DELLA COMICITÀ PIÙ ACUTA.

Oltre alle cicatrici che lo sfigurano e alle terribili menomazioni del suo fisico, Godwin Baxter deve a suo padre anche una sincera passione per il metodo scientifico e le pratiche chirurgiche. L’esperimento che più lo inorgoglisce è Bella, che tratta come una figlia. L’ha trovata cadavere, incinta di un feto ancora vivo, e le ha ridato il respiro e trapiantato il cervello del neonato. Ora Bella, già cresciuta e splendida nel corpo, cresce rapidamente anche nelle facoltà mentali, imparando a camminare, parlare e, soprattutto, desiderare. A nulla vale, a questo punto, il tentativo del suo creatore di fermarla: God(win) le ha dato la vita e, con essa, il libero arbitrio.
La donna bambina va alla scoperta del mondo con uno sguardo nuovo, affamato e primigenio, che non ha memoria delle regole e dei pregiudizi che muovono la società, non conosce vergogna ma solo curiosità. Farà esperienza di quanto il suo comportamento sia contrario alla norma, e di quanto la norma sia lontana tanto dalla logica che dalla natura.
Quale miglior occasione, per Lanthimos, per fare sempre meglio ciò che ha sempre fatto? La Bella di Emma Stone è infatti il viatico ideale, la lente distorta che occorre per guardare con lucidità la realtà nelle sue componenti principali (già illuminate ne La favorita): mostruosità e ironia.

Povere creature! ne aggiunge o consacra un’altra: la libertà. Una dimensione rischiosa, sempre sfuggente, perché, nella scienza come nell’esistenza, “è così finché non si trova un altro modo” e ancora e ancora. Una trasformazione antropologica e sociale è dunque possibile? Una reale libertà del femminile? O è solo una favola di fanta-scienza? Per rispondere, il regista greco lancia la sua Eva in un viaggio senza tempo (non è cambiato molto, nei secoli, in materia di relazioni uomo-donna), liberando contemporaneamente un’energia visiva esplosiva, che frulla suggestioni pittoriche e organiche, impressionismo ed espressionismo, esalta il racconto vittoriano dello scozzese Alisdair Grey alla base del film, la fantasia interpretativa della Stone e il lavoro immaginifico di scenografi e costumisti.
Più simile al Candido voltairiano che al mostro di Frankenstein, la creatura di Yorgos Lanthimos fa esperienza dell’abbondanza cromatica del mondo e della scarsità di empatia dei suoi abitanti, passando in rassegna un campionario maschile tragicomico (il buono, il geloso, il padre, il cinico, il crudele) che ha in comune la tendenza a volerla rinchiudere nel proprio universo, con la scusa di offrirle protezione. E si ride, con Povere creature!, della comicità più acuta: quella che non nasconde il suo lato oscuro.

Marianna Cappi – MyMovies


Cosa accadrebbe se resettassimo il nostro cervello? Quale sovrastruttura intaccherebbe per prima la nostra mente? Quale istinto primordiale si scatenerebbe senza alcun filtro? A queste domande cerca di rispondere Povere Creature!, il film di Yorgos Lanthimos tratto dal romanzo di Alasdair Gray. Il vincitore del Leone D’oro 2023 è un film potente, ironico e grottesco, ma soprattutto è un manifesto politico, un’analisi disincantata della società che il regista greco osserva attraverso la lente della fiaba gotica.
Carmen Palma – Sentireascoltare.it


Recensioni
5/5 Cinematographe.it
4/5 Cinefilos.it
4,2/5 MyMovies

 

IL CINEMA GOTICO

 

I film gotici sono quelli di un genere specifico che tenta di ricreare i temi e gli ambienti presenti nella letteratura gotica classica. I temi spesso ruotano attorno a stati emotivi ossessivi, trame familiari malvagie, il male e il soprannaturale, sebbene ce ne siano molti altri e diverse varianti. Una caratteristica distintiva di molti film gotici è l’ambientazione in cui i personaggi esistono, spesso fornendo sia l’atmosfera che il progresso della trama. Dall’inizio dell’industria cinematografica ci sono stati tentativi di creare versioni cinematografiche della letteratura gotica classica del XVIII e XIX secolo e di catturare l’essenza del genere in nuovi racconti ambientati in tempi moderni.

Questi film sono considerati diversi dai film horror in quanto usano raramente gli stessi dispositivi per creare suspense, generalmente mancano scene che coinvolgono grandi quantità di sangue e tendono a concentrarsi maggiormente sull’interazione tra i personaggi come punti di tensione o trama.
Una delle aree della letteratura gotica che alcuni sostengono sia stata migliorata dai film gotici è la rappresentazione dell’ambiente attorno ai personaggi. Attraverso l’uso di luci e set realistici, i film sono in grado di trasmettere il senso oscuro del mistero che alcune ambientazioni dovrebbero contenere.

 

 

 

 

             

 

Il cinema gotico nasce con pellicole come Nosferatu o Il golem, passando per la casa di produzione Hammer (serie di film di Dracula, de La mummia e di Frankenstein), Terence Fisher, Roger Corman e Mario Bava.
Tim Burton è senz’altro uno dei registi cardine del cinema gotico contemporaneo, ma non del gotico classico poiché ne offre una versione contaminata da influenze glam e pop e da una forte ironia.
Temi e personaggi ricorrenti sono mostri, vampiri, zombie (o altre forme di non-morti), lupi mannari, fantasmi, demoni, antiche maledizioni, creature possedute dal demonio, occulto, animali demoniaci, oggetti inanimati dotati di una vita proveniente dalla magia, streghe, scienziati pazzi, case infestate, cannibali e creature extraterrestri.

Storie e personaggi provenienti dalla letteratura, specialmente dai romanzi gotici, sono diventati molto popolari ed hanno ispirato molti sequel e remake. Tra questi sono da ricordare Dracula, Frankenstein, La mummia, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, l’uomo invisibile, i racconti di Poe e Lovecraft.

 

I film horror giapponesi, che puntano molto su atmosfere inquietanti, stanno riscuotendo in tempi recenti un certo successo, tanto che di alcune di queste pellicole vengono girati dei rifacimenti (remake) negli Stati Uniti (tra questi, The Ring, The Grudge, Dark Water e The Eye).
Generalmente i film horror estremo-orientali tendono a descrivere per lo più storie di fantasmi e vendette, mentre quelli occidentali si basano più su mostri concreti, spesso creati dalla società stessa.

 

 

 

In tempi recenti si sta formando poi un nuovo filone, quello che può essere definito come Horror spagnolo (nato, sostanzialmente da Guillermo del Toro, il cui film più rappresentativo è Il labirinto del fauno e rimane il migliore ed il più rappresentativo per la presenza di tutte le tematiche essenziali) che ha come tratti caratteristici la presenza di bambini sospesi tra due mondi, uno reale e l’altro fantastico/spiritico; questi film hanno ampie connessioni con la realtà attuale o storica e più in generale tendono ad essere usati come mezzo per descrivere stati d’animo o agnizioni completamente realistiche, di cui la componente fantastica fa da contraltare creando un mondo di fuga, ma al tempo stesso ignoto, e quindi spaventoso.

 

 


 

Consigli di lettura

POVERE CREATURE!
Romanzo di Alasdair Gray
Safarà – Editore

 

 

MGF

Regia di Thaddeus O’Sullivan – USA, 2023 – 91′
con Maggie Smith, Laura Linney, Kathy Bates

 

 

 

 

 

UN FILM PIACEVOLE COME UNA TAZZA DI TÈ IRLANDESE. CON UN CAST DI ESPERTE CHE CI FA SORRIDERE E COMMUOVERE.

Dublino, 1967. A quarant’anni di distanza dalla sua partenza per gli Stati Uniti, Chrissie Limey torna alla casa dove è nata e ha trascorso la sua adolescenza, per partecipare al funerale della madre Maureen. La comunità la accoglie con sorpresa, in particolare Lily, la migliore amica di Maureen, ed Eileen, che è stata la migliore amica di Chrissie. Il grande assente è Declan, il figlio di Lily, morto da giovane per annegamento – lui che sapeva nuotare come un pesce. Quando erano ragazzi Chrissie, Eileen e Declan erano inseparabili, e Chrissie e Declan erano una coppia innamorata.
Poi però è successo qualcosa che ha creato divisioni insanabili all’interno del gruppetto, e che ha determinato la partenza di Chrissie per gli Stati Uniti. Il funerale di Maureen è anche l’occasione per assegnare un premio ad alcuni membri della comunità: un pellegrinaggio a Lourdes, che potrebbe ridare la parola ad un bambino e la speranza ad Eileen. Quel viaggio diventerà soprattutto un’occasione di perdono e di riconciliazione – se coloro che l’hanno intrapreso sapranno accoglierle.
The Miracle Club ha un titolo fuorviante, perché fa presupporre una commedia scanzonata, di quelle in cui un gruppo di attrici âgée gigioneggiano per suscitare l’ilarità del pubblico.
Qui il gruppo centrale di attrici è effettivamente âgée, ma la storia non è comica, anche se non mancano i siparietti divertenti. La trama ha parecchie fragilità e l’ambientazione irlandese fa leva su molti stereotipi cinematografici, che il regista dublinese Thaddeus O’Sullivan cavalca senza esitazione, ma il gruppetto di interpreti formato da Kathy Bates, Laura Linney, Maggie Smith e un quasi irriconoscibile Stephen Rea riesce a tenere alta l’attenzione del pubblico. A rubare la scena, come sempre, è la quasi nonagenaria Smith nel ruolo di Lily, una madre gravata dal lutto e dal senso di colpa che però non ha perso l’ironia e la capacità di dimostrarsi affettuosa e fedele.

Kathy Bates ritorna in gran forma (anche fisica) per calarsi nel ruolo complesso di Eileen, madre di famiglia che non ha mai lasciato il suo quartiere, con un marito brontolone (l’irresistibile Stephen Rea) ad incarnare un certo maschilismo d’antan. Laura Linney dà alla sua Chrissie reticenza e misura, raccontando una donna che ha imparato l’empatia pur non avendone ricevuta alcuna nel proprio passato, custode di un lontano rancore di cui vorrebbe liberarsi.

La ricostruzione d’ambiente è attenta anche se un po’ stucchevole, e l’intera confezione è piacevole, nonostante (o grazie a) l’adesione a molti cliché: una rassicurante tazza di tè irlandese servita da un cast di professioniste esperte nel far commuovere e sorridere.

Paola Casella – MyMovies


“Questo è un road movie, un viaggio di scoperta dove non sai cosa troverai alla fine. Tutto ciò che le protagoniste sanno è che si stanno lasciando la vita alle spalle.“ Thaddeus O’Sullivan


Recensioni
3,2/5 Movieplayer
4/5 Ciak Magazine
2,7/5 MyMovies

 

MAGGIE SMITH: 89 ANNI E UNA LUNGA CARRIERA RICCA DI SUCCESSI

Dame Maggie Smith (28 dicembre 1934 – Londra) è una vera e propria luce verde speranza (ancora oggi e nonostante l’età) nella cinematografia mondiale, una delle migliori attrici inglese che il panorama della Settima Arte abbia avuto. Una voce, un volto e delle movenze che non usciranno mai dalla testa dello spettatore. Irresistibile, mai sottovalutata, una vera pietra rara da incastonare nella memoria collettiva e che tutti, nel nostro piccolo, vorremo possedere.

 

 

 

GLI INIZI – Nel 1958 ottiene il primo ruolo da protagonista nel film Senza domani di Seth Holt, che le vale una candidatura ai BAFTA Awards come miglior attrice debuttante.

LA CONSACRAZIONE – Il ruolo che la consacra come icona del cinema è quello di Desdemona in Otello, film del 1965 con Laurence Olivier. Smith ottiene una candidatura ai Golden Globe come migliore attrice e una all’Oscar come miglior attrice non protagonista

 

 

 

IL PRIMO OSCAR – Nel 1969 Maggie Smith è la protagonista assoluta de La strana voglia di Jean di Ronald Neame. Nella pellicola interpreta l’anticonformista professoressa Jean Brodie. Per quel ruolo le viene assegnato il BAFTA Awards e vince il primo Oscar come miglior attrice protagonista nel 1970

 

 

 

ANNI D’ORO – Gli anni Settanta per Smith proseguono nel segno del successo con In viaggio con la zia (1972), dove interpreta l’eccentrica zia Augusta, che le vale una candidatura ai Golden Globe e all’Oscar come migliore attrice protagonista. Nel 1976 recita poi in Invito a cena con delitto di Robert Moore, dove prende la parte dell’investigatrice Dora Charleston, e nel 1978 in Assassinio sul Nilo tratto dal romanzo di Agatha Christie

 

 

 

IL SECONDO OSCAR – Nel 1979 fa parte, con Michael Caine e Jane Fonda, del cast di California Suite di Herbert Ross. Smith, che nella commedia interpreta un’attrice lunatica, vince il suo secondo Oscar, stavolta come miglior attrice non protagonista. Riceve inoltre il Golden Globe e una candidatura ai BAFTA

 

 

 

GLI ANNI OTTANTA – Nel 1985 Smith intepreta Charlotte, dama di compagnia di Helena Bonham Carter, in Camera con vista di James Ivory. Grazie a questo ruolo vince il secondo Golden Globe con miglior attrice e ottiene una candidatura all’Oscar Gli anni Ottanta proseguono con La segreta passione di Judith Hearne (1987) di Jack Clayton. Per l’interpretazione della protagonista, una cinquantenne insegnante di pianoforte, Smith riceve il BAFTA alla miglior attrice

 

ANNI NOVANTA – Negli anni Novanta, l’attrice britannica trova l’ennesima ondata di successo grazie alla sua doppia partecipazione nel film Sister Act (1992) e nel suo sequel (1993). In entrambi interpreta la Madre Superiora del convento a fianco della “suora scatenata” Whoopi Goldberg. Maggie Smith è protagonista anche di Un tè con Mussolini (1999). Grazie all’ennesima magistrale interpretazione, per la regia di Franco Zeffirelli, l’attrice britannica chiude un altro fortunato decennio ottenendo il suo settimo BAFTA Award

 

 

ANNI DUEMILA – Smith si fa conoscere anche ai più giovani lungo tutti gli anni Duemila, nei quali viene ricordata per l’interpretazione della (severa ma buona) professoressa Minerva McGranitt nella serie Harry Potter

 

 

 

 

ANNI DUEMILADIECI – Tra i ruoli iconici di Smith non si può non citare quello di Violet, Contessa Madre di Grantham, nella serie televisiva Downtown Abbey. Per la sua intepretazione riceve due premi Emmy (2011 e 2012), una candidatura come miglior attrice non protagonista ai BAFTA (2012) e ottiene una vittoria al Golden Globe come miglior attrice non protagonista in una serie (2013)

 

 

 

 

MGF