Regia di Michael Mann – USA, 2023 – 130′
con Adam Driver, Penélope Cruz, Shailene Woodley

 

 

 

 

 

 

MANN SI MISURA CON IL GENIO, LE OSSESSIONI E LA COMPLESSITÀ DI ENZO FERRARI, IN UN SOLO ANNO DELLA SUA VITA.

C’è sempre, nel cinema di Michael Mann, un momento che rimane impresso, per il modo in cui la sua pregnanza emotiva va di pari passo con una certa irrilevanza narrativa, quasi che il regista ci invitasse a cercare il senso profondo della vicenda in qualcosa che sta ai suoi margini.
In questo film il momento arriva nella prima parte, quando la moglie di Ferrari si reca in cimitero, alla tomba del figlio scomparso prematuramente. Non è una scena fondamentale, potrebbe tranquillamente essere espunta dal tessuto del film, oppure avere la concisione necessaria a segnalare al pubblico che la morte del ragazzo ha lasciato una scia profonda di dolore in entrambi i genitori (subito prima della madre, al cimitero abbiamo visto il padre). E invece Mann si dilunga, attraverso un lunghissimo, ininterrotto primo piano di Penelope Cruz, la cui durata è tale da registrare con puntualità la tempesta emotiva che le attraversa il volto. Prova di talento dell’attrice, che deve fronteggiare la continuità del primo piano e la conseguente necessità di lavorare sulla transizione e la gradualità fra i diversi stati d’animo che segnano la presenza in cimitero del personaggio. Ma anche una spia, la scena, dell’umanesimo che caratterizza in modo profondo il cinema di Mann, al di là, forse persino a dispetto, della griglia di genere entro la quale si collocano abitualmente i suoi film, e delle storie che è “obbligato” a raccontare.
Ferrari, da questo punto di vista, ne è un esempio perfetto. In linea di principio dovrebbe collocarsi all’intersezione di due generi, un sempreverde del cinema americano (il film sportivo) e uno, il biopic, che gode oggi di una straordinaria popolarità. Mann segue invece con ammirevole coerenza la sua traiettoria umanista, noncurante degli effetti di disgregazione che produrrà sui generi di riferimento. In questo modo Ferrari diventa, al contempo, un anti-film sportivo – a fargli difetto sono il dettaglio della performance agonistica del protagonista, che non è un campione e addirittura non pratica alcuno sport, e il motivo dell’affermazione finale, qui macchiata da un evento luttuoso che la spoglia di ogni enfasi – e un anti-biopic, poiché il personaggio del titolo non rappresenta una figura eccezionale, sotto nessun punto di vista. Quello della straordinarietà del personaggio è, nel biopic, la ragione prima del film (perché dovremmo narrarvi questa storia, se non ha al suo centro una figura fuori dal comune?) e il suo punto di approdo (prima o poi vi racconteremo tempi e modi della sua eccezionalità); un diktat al quale nemmeno Nolan in Oppenheimer ha saputo sottrarsi.
Mann invece scolora Ferrari sino a renderlo un uomo ordinario, schiacciato da pressioni familiari (moglie, amante e figlio illegittimo) ed economiche (l’azienda è in perdita), sociali (obbligato ad andare in chiesa per farsi vedere dai suoi operai) e manageriali (motivare i piloti, sovraintendere alla meccanica e alla manutenzione delle auto). Un imprenditore qualunque in un mondo qualunque, la cui unica ragione di eccezionalità sta nel fatto di avere perso un figlio, con tutto il carico di dolore che ne consegue.
Nessuna Formula 1, nessuna vittoria, né Villeneuve né Schumacher: solo un uomo che prova a difendersi dalla disperazione. Per un cineasta umanista come Mann, basta e avanza: sarà per questo che nel film a prendere gradualmente il sopravvento è la vena melodrammatica, la messa in scena del dolore, lo spettacolo di una elaborazione del lutto perennemente differita.

Leonardo Gandini – Cineforum.it


Michael Mann ha lavorato a lungo sulla figura di Ferrari, che nelle sue mani diventa un Saturno capace di divorare i propri figli (i due naturali e le sue stesse creazioni di metallo), padrone di sé e delle proprie ossessioni solamente nella dimensione della velocità estrema.


Riprese in Italia, troupe di eccellenza (fotografia di Erik Messerschmidt, costumi di Massimo Cantini Parrini, hair & make-up Aldo Signoretti, montaggio del due volte premio Oscar Pietro Scalia), non si tratta di un biopic, bensì di una tranche de vie portata su schermo: le corse automobilistiche degli Anni Cinquanta, la leggenda traballante di Ferrari e le sue vicissitudini familiari, l’all-in sulla Mille Miglia, nell’estate modenese e italiana del 1957.


Recensioni
3/5 Cineforum.it
3,1/5 MyMovies
4,8/5 Sentieri selvaggi

 

LA MILLE MIGLIA

Enzo Ferrari la definì “la corsa più bella del mondo”. La competizione, conosciuta anche come Freccia Rossa e nata come gara di velocità per poi diventare gara di regolarità, dal 1977 si svolge in tarda primavera lungo l’asse Brescia-Roma-Brescia. Il suo nome deriva dalla lunghezza del percorso, che si snoda per 1.600 km (ovvero mille miglia).

La Mille Miglia è nata nel 1927 ed è stata interrotta tra il 1957 e il 1977 per ragioni di sicurezza. La partecipazione è limitata alle vetture, prodotte non oltre il 1957, che avevano partecipato (o risultavano iscritte) alla corsa originale.
La prima edizione della Mille Miglia si tiene nel marzo del 1927 con il nome di Coppa delle 1.000 Miglia e con la partecipazione di 77 equipaggi. A organizzarla i piloti bresciani Aymo Maggi, Renzo Castagneto e Franco Mazzotti insieme al giornalista Giovanni Canestrini.

 

 

Inizialmente era costituita da una gara unica, in un percorso a forma di otto. Solo 51 auto raggiungono l’arrivo. Dopo 21 ore, 4 minuti, 48 secondi alla guida su strade non asfaltate, Ferdinando Minoia e Giuseppe Morandi tagliano il traguardo da vincitori a bordo della loro Om 665 Sport Superba. Velocità media: 78 km/h.

La gara del 1930 entra negli annali. A vincerla, con l’Alfa Romeo di Enzo Ferrari, è Tazio Nuvolari. Resta nella storia il sorpasso notturno al rivale Achille Varzi: per fargli credere di essere stato vittima di un guasto, il pilota mantovano spegne i fari della propria auto e prosegue al buio, seguendo le luci di coda dell’avversario, per poi superarlo di sorpresa e andare a vincere la corsa.

La Mille Miglia viene sospesa nel 1939 per un grave incidente avvenuto a Bologna l’anno prima e poi viene interrotta negli anni della Seconda guerra mondiale.

 

Riprende nel 1947 e dura per dieci anni: l’ultima Mille Miglia di velocità si corre nel 1957. Vince Piero Taruffi che, all’arrivo a Brescia, tenendo fede a una promessa fatta alla moglie Isabella, annuncia il suo ritiro dalle competizioni. Il suo trionfo conquistato con la Ferrari passa però sotto silenzio: a fare notizia sono i nove morti tra gli spettatori che a Guidizzolo, in provincia di Mantova, mentre stanno assistendo al passaggio della carovana di bolidi a lato della strada vengono falciati da un’altra Ferrari, “impazzita” per una gomma scoppiata. Muoiono anche i piloti Alfonso De Portago e il suo compagno, Nelson. Il mondo dello sport si ribella e dice basta. Per quella tragedia Enzo Ferrari viene messo sotto processo dalla magistratura e poi, anni dopo, assolto.

 

 

 

Quell’incidente a Guidizzolo cancella la Mille Miglia di velocità, che però torna a essere organizzata vent’anni dopo, nel 1977, con la formula di gara di regolarità: percorso di trasferimento da Brescia fino a Roma e quindi risalita a Brescia, intervallato da prove cronometrate, alcune con tempo imposto. La prima riedizione viene vinta dall’Alfa Romeo RL SS di Hepp-Bauer: è l’inizio di un successo andato via via aumentando. Nel novembre 2004 l’Automobile Club di Brescia e alcuni appassionati della corsa danno vita a Sant’Eufemia (in provincia di Brescia) al Museo della Mille Miglia. Al suo interno sono presenti le macchine storiche utilizzate dai vari piloti nel corso degli anni. La gara, a cui ogni anno partecipano molte personalità famose della politica, della cultura e dello spettacolo, ha un grandissimo seguito.

 

 

MGF

 

 

Docufilm diretto da Phil Grabsky

Con l’ausilio di interviste di esperti e letture di diari e grazie a un sorprendente sguardo gettato sul suo quotidiano, HOPPER. UNA STORIA D’AMORE AMERICANA fa rivivere l’artista probabilmente più influente di tutta la storia statunitense

 

 

 

 

EDWARD HOPPER: SOLITUDINE O MERAVIGLIA?

Edward Hopper è stato di recente definito l’artista della pandemia; sì, la nostra, il Covid-19 che ha spezzato la quotidianità a cui eravamo tanto abituati. Non posso che essere d’accordo, ma non per la solitudine, l’ineluttabilità, la tristezza che così tanto sembrano permeare le sue opere: per l’esatto contrario.
Le opere di Hopper dipingono soggetti comuni: persone, luoghi e oggetti che tutti noi ci troviamo davanti agli occhi almeno una volta al giorno, solo uscendo di casa.

 

 

La signora che beve un caffè al bar, l’edificio illuminato dal sole a mezzogiorno, l’uomo di mezza età seduto sul bordo del marciapiede ad aspettare chissà cosa… tutti elementi banali e trascurabili della realtà di ogni giorno, banali e trascurabili in quanto non influiscono in alcun modo sul trascorrere della nostra giornata.
E invece eccolì lì, olio su tela, esposti in un museo.
Essere esposti in un museo significa arte, ancor di più quando lo spettatore si ferma e prova qualcosa, sente emozioni che non sapeva di avere dentro di sé; e allora, questi insignificanti elementi della routine quotidiana sono arte?
Sì, sono arte. Sono piccoli istanti che avremmo gettato via senza farci troppi problemi, forse addirittura senza rendercene conto.

 

È arte la signora che beve un caffè al banco: forse si è fatta bella per qualcuno, forse invece solo per se stessa.
Forse si è alzata dal letto stamattina e ha deciso di meritarsi un caffè preparato da mani che non sono le sue, forse si è vestita sorridendo perché sta finalmente per incontrare un’amica che non vede da tempo, forse si è fatta coraggio per uscire e cercare un respiro che a casa le sfugge.

 

 

 

È arte la banalissima casetta a schiera tutta bianca che a dire il vero infastidisce quando la luce del sole ci si riflette sopra in una certa maniera: è arte perché qualcuno ci abita e la ricolma di amore, è arte perché sta aspettando che qualcuno la faccia sua, è arte perché qualcuno l’ha amata e vissuta e ora essa ne è eterno simulacro.

 

 

 

È arte l’uomo seduto sul bordo del marciapiede, quello che ti aspetti di vedere distrutto nel giro di pochi mesi: è arte il suo tirare avanti, provarci e fallire, “riprovarci e fallire meglio”, per dirla con Beckett.

 

 

 

L’arte è celata in molte cose: nell’acero in giardino che comincia a coprirsi di foglie nonostante non ci siano bambini a guardarle. Nel cielo così azzurro da far venire le vertigini, anche se non ci sono folle di persone nei parchi gioco a distendersi sull’erba e a rimirarne l’immensità. Nel piccolo bocciolo del cactus sul vaso del balcone, che ha deciso di fiorire proprio mentre tutto il resto del mondo è immerso in una stolida immobilità di stupore.

 

 

La vita fiorisce, e la vita è poesia: la solitudine può essere bellezza, ce lo mostrò già Van Gogh con le sue opere. La disperazione è arte nella testardaggine del combattimento contro di essa, una strada nascosta e quasi invisibile che quasi certamente non ci porterà dove pensavamo di andare, ma che forse seguiremo comunque per ritrovarci in un posto inaspettato e meraviglioso.

 

 

Era arte cantare dai balconi alla domenica, applaudire il coraggio di medici e infermieri, era arte anche solo andare sui social network e interagire con perfetti sconosciuti e raccomandare loro di stare al sicuro, di non correre rischi, augurare loro il meglio se si ammalavano o se riferivano della malattia dei loro cari.
Durante il lockdown, ricordo la paura: azioni quotidiane e banali erano diventate all’improvviso fonte di rischio, un nemico invisibile ci aveva assediati nelle nostre stesse case… ma ricordo anche tanto amore e tanta bellezza.


Ricordo un bocciolo di tulipano che sbucava dal terreno nel giardinetto dietro casa, che si spingeva a respirare l’aria insolitamente pura. Ricordo un cielo così azzurro da volerci fare un quadro. Ricordo persone qualsiasi, che spiccavano in un mondo all’apparenza disabitato, uscite per qualche commissione urgente, e ricordo quanto ho amato, per una breve frazione di tempo, quegli sconosciuti.
L’arte ritrae la realtà, e la realtà è ognuno di noi. E Hopper ci insegna ad amare tutto ciò.

 

 

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali


Quella di Hopper è un’America popolare, silenziosa e misteriosa, capace di influenzare pittori come Rothko e Banksy, cineasti come Alfred Hitchcock e David Lynch, ma anche fotografi e musicisti.


Il successo delle sue tele, la personalità enigmatica dietro il pennello, la capacità di indagare la solitudine come nessuno prima di lui era riuscito a fare, tanto da dialogare, a distanza di decenni, anche con chi, in periodo Covid, si è trovato recluso, solo, isolato.


MGF

 

Regia di Antonio Albanese – Italia, 2023 – 94′
con Antonio Albanese, Liliana Bottone, Bebo Storti

 

 

 

 

UN FILM SULL’ITALIA PERBENE, CON BELLISSIME INTUIZIONI DI REGIA E UN ALBANESE COME SEMPRE MAGISTRALE

Il tornio maneggiato con molta perizia da Antonio Albanese nella parte iniziale di Cento domeniche è lo stesso che ha usato per anni quando era operaio specializzato, prima di consegnarsi al cinema. Come se l’attrezzo fosse rimasto ad aspettarlo fino alla prova più importante della sua carriera di attore e regista.
Il particolare è la parte più romantica di un film per il resto fortemente drammatico che piace nel suo rigore, nell’asciuttezza stilistica, nel controcanto dei caratteri e delle psicologie, nella sobrietà dei panorami lacustri e degli interni piccolo borghesi. Siamo a Lecco, dove si specchia l’esistenza quieta, senza pretese, definitiva di Antonio Riva, gran lavoratore da poco in prepensionamento per certe turbolenze dell’azienda, amico del titolare (Elio De Capitani) che ne apprezza la competenza e le qualità umane e ancora si serve di lui per istruire gli apprendisti avendo cura che non lo sappia il sindacato.
Antonio vive con la mamma anziana (Giulia Lazzarini, 89 anni), ha un’ex moglie con la quale è rimasto in buoni rapporti (Sandra Ceccarelli) e una brava figlia, Emilia (Liliana Bottone), in procinto di sposarsi con il socio del negozio di abbigliamento in cui lavorano entrambi. L’uomo ha un gruzzolo in una banca locale, è la sua sicurezza. Ma ha convertito le obbligazioni in azioni senza rendersi conto che la barca stava andando nei pali. Tra l’altro proprio quando si era deciso, con orgoglio paterno, a sostenere i costi del matrimonio di Emilia nonostante i genitori dello sposo, più facoltosi, si fossero offerti di fare altrettanto.
Antonio ha un sogno da onorare e non sente ragioni anche se le avvisaglie della tempesta si moltiplicano: 30 mila euro è l’entità del prestito chiesto alla banca con l’intesa che gli interessi sarebbero stati presto ripagati dal buon andamento delle azioni. Invece tutto crolla, gli impiegati diventano evasivi, frettolosi, usano parole di circostanza. I giornali cominciano a parlare di crack. Un conoscente nelle stesse condizioni del buon Antonio va fuori di testa. Insomma, il piccolo patrimonio sfuma e per l’operaio specializzato Riva è un’insopportabile vergogna.
I risparmi di una vita coscienziosa e perbene, fedele alle regole e ai principi, vengono cancellati dalla speculazione. Antonio si sente tradito, ma testardamente rifiuta ogni aiuto, trascinato nella disperazione dalla consapevolezza che non tutti subiranno quell’onta. Albanese racconta un horror sociale: il precipizio di un uomo che si trova di fronte a un muro e cede alla depressione. Abituato a usare le mani e con quelle a determinare il suo destino, Antonio è ora impotente. Altri manovrano contro di lui. Gli tolgono la capacità di scelta, la forza di reagire, la dignità.
Albanese guarda all’attualità e scorge un mondo di truffatori e di truffati, in cui il buon senso, l’etica, la parsimonia, anche sentimentale, sono una chimera e la solidarietà è commiserazione. Non è più tempo di ridere, sembra dire il comico Albanese, se la società non riconosce i meriti, nega la buone azioni e trasforma i gentili in fessi da raggirare e i virtuosi in gente che non conta nulla. Il discorso del film è politico, sociale e di prospettiva: quale futuro può esserci di fronte a questa rovinosa deregulation etica. Alla quinta regia, Albanese conferma uno stile che rimonta alla grande lezione di Ermanno Olmi, a un cinema senza aggettivi, fedele alla grammatica delle emozioni. E da lodare è il coraggio, ripetutamente dimostrato, di saper rinunciare ai vantaggi di un enorme credito popolare maturato grazie alla televisione, per un cinema civile, appassionato, che è una lama nella coscienza collettiva. Nota finale: le cento domeniche citate nel titolo è il tempo che in media un operaio della provincia italiana degli anni Sessanta impiegava per costruire la propria casa, attività a cui normalmente poteva dedicarsi solamente nel fine settimana quando non lavorava in fabbrica.

Paolo Baldini – Corriere della Sera


Da commedia gentile ad angosciante tragedia: Antonio Albanese torna nei suoi luoghi d’origine con un film che sa unire l’urgenza del racconto alla sincerità d’esecuzione. I sogni infranti dei piccoli risparmiatori traditi dalle banche di fiducia.


Più amaro di Ken Loach, Albanese firma il suo miglior film da regista, ammirevole per il nobile impegno civile e l’autenticità di scavo esistenziale, tornando nella nativa Olginate a raccontare il misero destino della brava gente finita sul lastrico per essersi fidata delle banche.


Trasformista capace di far ridere o piangere con egual intensità, Albanese stavolta ci prende per mano per accompagnarci all’altare sacrificale della finanza creativa. Interpreta, scrive e dirige un film confidenziale sul dramma dei piccoli risparmiatori abbindolati dalle banche, convinti – come Pinocchio dal Gatto e la Volpe – a firmare contratti complessi senza farsi troppe domande

Recensioni
3,5/5 Movieplayer
3,6/5 MyMovies
6/10 Ondacinema

 

VENT’ANNI DI CRACK DELLE BANCHE

Dal caso Cirio agli scandali Parmalat, Veneto Banca e Popolare di Vicenza all’ultimo della Banca Popolare di Bari. I crack bancari e finanziari degli ultimi anni, tra fallimenti e liquidazioni che si sono succeduti nel nostro paese e all’estero, hanno trascinato nel baratro oltre 1,3 milioni di risparmiatori italiani, i quali hanno visto andare in fumo complessivamente più di 45,4 miliardi di euro investiti in azioni, obbligazioni e titoli vari.
Così il Codacons che stima una perdita media di 34.427 euro a risparmiatore. Con il caso di Banca Popolare di Bari, l’associazione dei consumatori trae spunto per aggiornare i conti dei principali default registrati a partire dall’anno 2000 e che hanno coinvolto le tasche degli italiani, cancellando i risparmi investiti.
Si parte con i casi Bipop-Carire, Argentina e Cirio che tra il 2001 e il 2002 hanno coinvolto complessivamente più di 500mila risparmiatori italiani, passando per gli scandali Parmalat (2003, 110mila investitori) e Lehman Brothers (2008, 100mila investitori), fino ad arrivare ai più recenti Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza (2016, oltre 206mila investitori coinvolti).
Banca Popolare di Bari ha bruciato fino ad oggi 1,5 miliardi di euro di risparmio dei 70mila soci attraverso l’azzeramento del valore delle azioni, e al momento non si  conosce il destino dei 213 milioni di euro investiti dai piccoli risparmiatori in obbligazioni della banca.
Il conto totale per la collettività – dice il Codacons – è abnorme: dal 2001 ad oggi più di 45,4 miliardi di euro di risparmi sono letteralmente andati in fumo, e solo una minima parte di tali investimenti è stata poi recuperata dai piccoli risparmiatori

 

CONSIGLI DI LETTURA

L’ITALIA DEI CRACK. VITTIME, ARTEFICI E MANDANTI DELLE TRUFFE FINANZIARIE DEGLI ULTIMI ANNI
di Mara Monti

 

È la parabola della Parmalat e del suo fondatore, Calisto Tanzi. Vicenda parallela a quella di Sergio Cragnotti e della Cirio. Era dai tempi del crack Ambrosiano e del Banco di Napoli che non si vedevano dissesti di queste dimensioni. Più di mezzo milione le vittime dei crack degli ultimi anni: dai bond venduti come sicuri e divenuti carta straccia dopo l’insolvenza (Parmalat, Cirio, Giacomelli, Fin.part), ai derivati spericolati di Italease, fino alle dot.com della new economy all’inizio degli anni 2000 (Freedomland, Finmatica, Opengate e Algol). “L’Italia dei crack” ripercorre le storie del malfunzionamento del sistema finanziario italiano, gli intrecci con le banche, i controlli troppo laschi, i conflitti d’interesse dei revisori, dei sindaci e dei consiglieri. Una ricostruzione lucida e rigorosa che svela misteri e retroscena del fallimento di alcune grandi società, anche alla luce delle sentenze che la giustizia ha finalmente emesso.

 

 

MGF

 

 

Regia di James Hawes – USA, 2023 – 110′

con Anthony Hopkins, Helena Bonham Carter, Johnny Flynn

 

 

 

 

 

UN’OPERA CHE SI METTE AL SERVIZIO DELLA STORIA NON SPRECANDO UN SOLO MOMENTO. È UNO DEI FILM PIÙ BELLI SULL’OLOCAUSTO.

1938. Vigilia della Seconda Guerra Mondiale, Nicholas Winton, londinese, 29 anni, agente di borsa, avvertendo la minaccia dell’invasione della Germania di Hitler organizza un piano di salvataggio, noto come “Operazione Kindertransport” per centinaia di bambini, molti di religione ebraica, prima dell’inizio del conflitto. Grazie a Martin Blake, che gli aveva chiesto di andare a Praga per aiutarlo a coordinare le operazioni del Comitato Britannico per i rifugiati della Cecoslovacchia e altre figure centrali come Doreen Warriner e di sua madre Babette che intanto collaborava da Londra, Winton riesce a far partire otto treni con a bordo centinaia di bambini che raggiungono la Gran Bretagna dove vengono ospitati da famiglie affidatarie. Nella seconda metà degli anni ’80, l’impegno di Winton viene finalmente riconosciuto pubblicamente quando ha avuto l’occasione di incontrare quei bambini ormai adulti nel corso della trasmissione della BBC That’s Life!. Alla fine ne ha salvati 669 dai campi di concentramento e verrà denominato come lo “Schindler britannico”.
Proprio come in Schindler’s List di Spielberg, c’è un elenco di nomi da salvare. E come in quel film, anche in questo caso i volti restano subito impressi, dai bambini nel campo di rifugiati in Cecoslovacchia sotto la neve che chiedono la cioccolata a Nicholas, alla dodicenne che porta con sé un neonato, ai genitori che sono costretti a separarsi dai loro figli.
Il primo piano in One Life ha una forza espressiva dirompente proprio perché racchiude la storia di ognuno dei personaggi. James Hawes è al suo primo lungometraggio per il cinema ma sembra che ne ha già girati dieci dopo aver già mostrato le proprie capacità per circa trent’anni come solido regista televisivo.
One Life ridefinisce autonomamente il proprio posto all’interno del “cinema sull’Olocausto”, si sofferma su dettagli fondamentali e inquietanti (la cartina con il piano temporale di espansione di Hitler nel corso degli anni) ma soprattutto ci sono i momenti delle partenze e degli arrivi, tra le stazioni della Cecoslovacchia e di Praga, che sono pagine di grande cinema.
Possono essere un po’ più lunghi (l’affidamento dei bambini alle famiglie inglesi) o anche brevissimi ma che lasciano il segno (l’attesa al binario di un treno che non arriverà mai). Ma già da qui si vede in James Hawes la mano sicura ma al tempo stesso coinvolta dalla storia che racconta, dove le tracce della memoria sono già in quella stanza incasinata della casa di Winton nel 1987.
In più, colpiscono contemporaneamente le prove di Anthony Hopkins e Johnny Flynn (rispettivamente Winton anziano e giovane). Il primo con una maestria e un’intensità che diventa esplosiva nella trasmissione That’s Life! in cui rivede molte delle persone che ha salvato. È una scena cruciale e sconvolgente di cui è già presente un filmato su YouTube. Hopkins sembra riprodurlo con una lezione di tecnica di recitazione mentre in realtà lo reinventa facendo vivere sulla propria pelle quello che il suo personaggio stava provando. Flynn invece è vero in ogni inquadratura e sembra quasi uscire dal documentario di un personaggio.
Non c’è un momento sprecato, ogni inquadratura arriva e colpisce direttamente. Quella di One Life è una storia emozionante raccontata benissimo, con rispetto, pudore e passione, rabbia. Quando il cinema sa mettersi al servizio della Storia. Proprio per questo One Life è già, in qualche modo, un film indimenticabile.

Simone Emiliani – MyMovies


Anthony Hopkins giganteggia nel ruolo di Nicholas Winton, che salvò 669 bambini ebrei prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale: un period drama che inizia in modo scolastico per poi rivelarsi semplice e commovente


La dimensione epica della generosità è una di quelle cose che al cinema funzionano meravigliosamente: la quadratura tra lo sforzo del singolo e la salvezza dei molti trova subito la misura giusta dello schermo, la magnitudo della scossa emotiva necessaria a collocare la Storia nella sua bella cornice da appendere nel salotto della vita quotidiana.


Recensioni
3/5 Cinematografo.it
3,7/5 MyMovies
3,6/5 Sentieri selvaggi

 

NICHOLAS WINTON (1909 – 2015)

Nicholas Winton nasce in Inghilterra nel 1909 da una famiglia ebrea di origine tedesca.
Lavora in diverse banche a Berlino e Parigi. Nel 1938 diventa operatore di Borsa a Londra. Nel mese di settembre dello stesso anno Hitler invade la regione cecoslovacca dei Sudeti. Un amico, che lavora all’ambasciata inglese a Praga, lo coinvolge nell’assistenza ai profughi.
A Praga sono già presenti numerosi volontari che prestano servizio per lo più per militanza politica antinazista, ma Winton non si fa illusioni sul futuro che attende gli ebrei e non intende limitarsi a un’attività di primo soccorso.

 

Trevor Chadwick

 

Operando nella Praga occupata, a continuo rischio di essere arrestato, porta avanti un progetto più ampio: vuole trovare famiglie britanniche che consentano almeno ai bambini di salvarsi, espatriando in Inghilterra. Inizia a cercare famiglie che ospitino questi bambini e ottiene l’approvazione del progetto dal Ministero degli Interni inglese. Mentre rientra a Londra, da dove dirigerà le operazioni nottetempo dopo il lavoro, il suo collaboratore a Praga Trevor Chadwick compila una lista di bambini pronti a partire.

 

 

 

 

È l’inizio dei Kindertransport, otto viaggi in treno attraverso tutta l’Europa che permetteranno il salvataggio di 669 bambini. I salvataggi si interrompono il 3 settembre 1939, quando il nono treno in partenza da Praga viene bloccato perché è scoppiata la guerra. Durante il conflitto Winton combatte nella Royal Air Force conseguendo il grado di Ufficiale aeronautico. In tempo di pace osserva il più stretto riserbo sulla sua vicenda finché, nel 1988, la moglie Greta non scopre un suo taccuino con annotati tutti i nomi dei bambini salvati e i dati delle famiglie che li hanno accolti.

 

 

Da quel momento Winton diventa un personaggio molto popolare ed è candidato diverse volte al Premio Nobel per la Pace. Nel 2003 è stato nominato cavaliere dalla regina Elisabetta II per i suoi “servizi all’umanità”. Nel 2009 a Praga è stato organizzato un viaggio in treno attraverso l’Europa per commemorare i Kindertransport. In questa occasione Winton ha dichiarato: “La vera sfortuna è stata che nessun altro Paese abbia fatto altrettanto. Ho provato a sensibilizzare gli americani, ma non hanno preso con sé alcun bambino. Se l’avessero fatto avrebbero fatto la differenza”.
Molti dei bambini salvati costituiscono per Winton una sorta di grande famiglia allargata. Sir Nicholas si spegne nel sonno nella notte tra il 1° e il 2 luglio 2015, nell’anniversario del Kindertransport più numeroso.
Sir Nicholas Winton è onorato nel Giardino dei Giusti di Bergamo.

 

 

Praga ha dato l’ultimo saluto a questo grande uomo il 3 luglio 2009. Nella stazione centrale, intitolata al presidente americano Woodrow Wilson, per i cechi uno dei simboli della Cecoslovacchia libera e indipendente del periodo interbellico, circa 800 persone si sono radunate intorno alla statua di bronzo di Flor Kent che lo ritrae insieme a due bambini sulla piattaforma numero uno da dove partirono gli otto kindertransport, i viaggi in treno attraverso tutta l’Europa. Un’opera, posizionata in un luogo frequentato, che ricorda ai viaggiatori il diritto alla vita e alla libertà di ogni essere umano.

 

 

Fonte: Associazione Gariwo

Vi suggerisco a questo link un approfondimento sulla sorte dei bambini durante l’Olocausto:

https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/children-during-the-holocaust

..e ancora:

https://www.shalom.it/europa/a-85-anni-dal-kindertransport-i-sopravvissuti-si-riuniscono-in-una-cerimonia/

 

MGF

 

 

Docufilm
Regia di Michele Mally.

CON LA PARTECIPAZIONE STRAORDINARIA  DEL PREMIO OSCAR® JEREMY IRONS

 

 

 

 

 

Un film evento alla scoperta dei tesori del museo di antichità egizie più antico al mondo che accoglie oltre 900 mila visitatori all’anno.

L’ANTICO EGITTO: UN AFFASCINANTE MISTERO

L’Antico Egitto non ha ancora smesso, e forse mai smetterà, di affascinare ogni nuova generazione.
Un’epoca lontana, ma quanto? Più di quanto immaginiamo. Basti dire che la data della fondazione di Roma è più vicina a quella della creazione degli smartphone piuttosto che alla data della costruzione delle Piramidi di Giza.

 

Pensando a questo dato, e alle opere immense dell’Antico Egitto, non meraviglia che ancora oggi restiamo attoniti di fronte alle testimonianze di questa splendida civiltà, la più longeva di tutta la storia. E le continue scoperte che non smettono di essere dissotterrate testimoniano quanto poco ancora sappiamo degli Egizi, della loro cultura, della vita di tutti i giorni.

 

 

 

 

Sappiamo dei loro dèi, delle credenze principali, abbiamo un’idea di come fosse la loro struttura sociale e possiamo comprendere almeno una parte del loro metodo di scrittura, ma siamo ben lontani da avere di loro una conoscenza approfondita; e anche se ottenere questa conoscenza è un’impresa veramente pantagruelica, abbiamo la fortuna di avere degli egittologi appassionati e impavidi, che ogni giorno scavano sotto la sabbia per liberare un pezzettino in più di storia.

 

 

A ben pensarci, è quasi schiacciante l’idea di quanto ancora ci manchi da sapere: come venivano costruite le piramidi? Le ipotesi che sono state fatte nel corso dei secoli sono una più assurda dell’altra, e anche le più razionali implicano il coinvolgimento di un tale dispiego di manovalanza da far girare la testa, soprattutto se consideriamo che, contrariamente a quanto siamo spinti a credere, gli schiavi avevano più o meno gli stessi diritti di un comune operaio edile dei giorni d’oggi: di recente è stata ritrovata una tavoletta in cui veniva preso nota delle assenze degli schiavi e del motivo.
Le ragioni andavano dalla malattia al dopo-sbronza, finanche all’impegno nel campo di un familiare, o addirittura le mogli che avevano bisogno di assistenza durante il periodo mestruale: richieste di permesso che oggi meriterebbero almeno un’alzata di sopracciglia da parte del datore di lavoro, mentre allora sembravano essere più che comuni.

 

Non sembrava esserci nemmeno una distinzione così netta come al giorno d’oggi tra uomini e donne: sappiamo di regine e sacerdotesse che sono state amate e stimate allo stesso modo in cui venivano amati e stimati gli uomini nelle stesse posizioni sociali. Le donne nell’antico Egitto erano considerate al pari degli uomini ed erano una parte complementare della società, indispensabili per l’equilibrio del Paese. A dispetto di quello che si può pensare oggi, le donne egiziane dell’antichità avevano infatti un ruolo importante e contribuivano al mantenimento dell’equilibrio sociale, religioso, civile e politico; promuovevano la pace nella popolazione e rappresentavano un baluardo contro il caos.

 

 

E che dire delle tecniche di mummificazione dei corpi? Ancora oggi non sappiamo inventare un sistema più efficace per conservare una salma, e disponiamo di un livello tecnologico avanzatissimo. Per non parlare della devozione dei vivi nei confronti dei defunti: oggi amiamo tenere con noi qualche oggetto come ricordo della persona cara che non c’è più, mentre allora il defunto era la priorità. La maglietta preferita del mio papà non sarebbe nel mio armadio, ma sarebbe con lui, per permettergli di vestirsi come gli piaceva anche nell’aldilà.

 

È questa una dimostrazione di amore che va al di là della normale concezione: è un amore puro, privo di egoismo, e forse è l’unico vero segreto dell’Antico Egitto, quella conoscenza che stiamo cercando di ricostruire un pezzetto alla volta dissotterrando i segreti del passato.
L’amore per i defunti, l’amore per il prossimo, l’amore per tutto ciò che è bello e luminoso: tutto questo è ciò che ha portato a creare opere grandiose come le tombe dei faraoni, i templi, i palazzi. E tutto ciò, sembra di capire, in un’atmosfera molto più sana ed equilibrata di quella a cui siamo abituati al giorno d’oggi, dove ognuno veniva considerato in quanto se stesso, non in quanto donna o uomo, schiavo o faraone: nel proprio ruolo, ognuno era importante.

Come millenni dopo dirà Martin Luther King, non importava se fossero cespugli nella valle o pini sulla vetta delle montagne, ognuno era necessario a mantenere l’equilibrio della società.

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

MGF