Regia di Michael Mann – USA, 2023 – 130′
con Adam Driver, Penélope Cruz, Shailene Woodley
MANN SI MISURA CON IL GENIO, LE OSSESSIONI E LA COMPLESSITÀ DI ENZO FERRARI, IN UN SOLO ANNO DELLA SUA VITA.
C’è sempre, nel cinema di Michael Mann, un momento che rimane impresso, per il modo in cui la sua pregnanza emotiva va di pari passo con una certa irrilevanza narrativa, quasi che il regista ci invitasse a cercare il senso profondo della vicenda in qualcosa che sta ai suoi margini.
In questo film il momento arriva nella prima parte, quando la moglie di Ferrari si reca in cimitero, alla tomba del figlio scomparso prematuramente. Non è una scena fondamentale, potrebbe tranquillamente essere espunta dal tessuto del film, oppure avere la concisione necessaria a segnalare al pubblico che la morte del ragazzo ha lasciato una scia profonda di dolore in entrambi i genitori (subito prima della madre, al cimitero abbiamo visto il padre). E invece Mann si dilunga, attraverso un lunghissimo, ininterrotto primo piano di Penelope Cruz, la cui durata è tale da registrare con puntualità la tempesta emotiva che le attraversa il volto. Prova di talento dell’attrice, che deve fronteggiare la continuità del primo piano e la conseguente necessità di lavorare sulla transizione e la gradualità fra i diversi stati d’animo che segnano la presenza in cimitero del personaggio. Ma anche una spia, la scena, dell’umanesimo che caratterizza in modo profondo il cinema di Mann, al di là, forse persino a dispetto, della griglia di genere entro la quale si collocano abitualmente i suoi film, e delle storie che è “obbligato” a raccontare.
Ferrari, da questo punto di vista, ne è un esempio perfetto. In linea di principio dovrebbe collocarsi all’intersezione di due generi, un sempreverde del cinema americano (il film sportivo) e uno, il biopic, che gode oggi di una straordinaria popolarità. Mann segue invece con ammirevole coerenza la sua traiettoria umanista, noncurante degli effetti di disgregazione che produrrà sui generi di riferimento. In questo modo Ferrari diventa, al contempo, un anti-film sportivo – a fargli difetto sono il dettaglio della performance agonistica del protagonista, che non è un campione e addirittura non pratica alcuno sport, e il motivo dell’affermazione finale, qui macchiata da un evento luttuoso che la spoglia di ogni enfasi – e un anti-biopic, poiché il personaggio del titolo non rappresenta una figura eccezionale, sotto nessun punto di vista. Quello della straordinarietà del personaggio è, nel biopic, la ragione prima del film (perché dovremmo narrarvi questa storia, se non ha al suo centro una figura fuori dal comune?) e il suo punto di approdo (prima o poi vi racconteremo tempi e modi della sua eccezionalità); un diktat al quale nemmeno Nolan in Oppenheimer ha saputo sottrarsi.
Mann invece scolora Ferrari sino a renderlo un uomo ordinario, schiacciato da pressioni familiari (moglie, amante e figlio illegittimo) ed economiche (l’azienda è in perdita), sociali (obbligato ad andare in chiesa per farsi vedere dai suoi operai) e manageriali (motivare i piloti, sovraintendere alla meccanica e alla manutenzione delle auto). Un imprenditore qualunque in un mondo qualunque, la cui unica ragione di eccezionalità sta nel fatto di avere perso un figlio, con tutto il carico di dolore che ne consegue.
Nessuna Formula 1, nessuna vittoria, né Villeneuve né Schumacher: solo un uomo che prova a difendersi dalla disperazione. Per un cineasta umanista come Mann, basta e avanza: sarà per questo che nel film a prendere gradualmente il sopravvento è la vena melodrammatica, la messa in scena del dolore, lo spettacolo di una elaborazione del lutto perennemente differita.
Leonardo Gandini – Cineforum.it
Michael Mann ha lavorato a lungo sulla figura di Ferrari, che nelle sue mani diventa un Saturno capace di divorare i propri figli (i due naturali e le sue stesse creazioni di metallo), padrone di sé e delle proprie ossessioni solamente nella dimensione della velocità estrema.
Riprese in Italia, troupe di eccellenza (fotografia di Erik Messerschmidt, costumi di Massimo Cantini Parrini, hair & make-up Aldo Signoretti, montaggio del due volte premio Oscar Pietro Scalia), non si tratta di un biopic, bensì di una tranche de vie portata su schermo: le corse automobilistiche degli Anni Cinquanta, la leggenda traballante di Ferrari e le sue vicissitudini familiari, l’all-in sulla Mille Miglia, nell’estate modenese e italiana del 1957.
Recensioni
3/5 Cineforum.it
3,1/5 MyMovies
4,8/5 Sentieri selvaggi
LA MILLE MIGLIA
Enzo Ferrari la definì “la corsa più bella del mondo”. La competizione, conosciuta anche come Freccia Rossa e nata come gara di velocità per poi diventare gara di regolarità, dal 1977 si svolge in tarda primavera lungo l’asse Brescia-Roma-Brescia. Il suo nome deriva dalla lunghezza del percorso, che si snoda per 1.600 km (ovvero mille miglia).
La Mille Miglia è nata nel 1927 ed è stata interrotta tra il 1957 e il 1977 per ragioni di sicurezza. La partecipazione è limitata alle vetture, prodotte non oltre il 1957, che avevano partecipato (o risultavano iscritte) alla corsa originale.
La prima edizione della Mille Miglia si tiene nel marzo del 1927 con il nome di Coppa delle 1.000 Miglia e con la partecipazione di 77 equipaggi. A organizzarla i piloti bresciani Aymo Maggi, Renzo Castagneto e Franco Mazzotti insieme al giornalista Giovanni Canestrini.
Inizialmente era costituita da una gara unica, in un percorso a forma di otto. Solo 51 auto raggiungono l’arrivo. Dopo 21 ore, 4 minuti, 48 secondi alla guida su strade non asfaltate, Ferdinando Minoia e Giuseppe Morandi tagliano il traguardo da vincitori a bordo della loro Om 665 Sport Superba. Velocità media: 78 km/h.
La gara del 1930 entra negli annali. A vincerla, con l’Alfa Romeo di Enzo Ferrari, è Tazio Nuvolari. Resta nella storia il sorpasso notturno al rivale Achille Varzi: per fargli credere di essere stato vittima di un guasto, il pilota mantovano spegne i fari della propria auto e prosegue al buio, seguendo le luci di coda dell’avversario, per poi superarlo di sorpresa e andare a vincere la corsa.
La Mille Miglia viene sospesa nel 1939 per un grave incidente avvenuto a Bologna l’anno prima e poi viene interrotta negli anni della Seconda guerra mondiale.
Riprende nel 1947 e dura per dieci anni: l’ultima Mille Miglia di velocità si corre nel 1957. Vince Piero Taruffi che, all’arrivo a Brescia, tenendo fede a una promessa fatta alla moglie Isabella, annuncia il suo ritiro dalle competizioni. Il suo trionfo conquistato con la Ferrari passa però sotto silenzio: a fare notizia sono i nove morti tra gli spettatori che a Guidizzolo, in provincia di Mantova, mentre stanno assistendo al passaggio della carovana di bolidi a lato della strada vengono falciati da un’altra Ferrari, “impazzita” per una gomma scoppiata. Muoiono anche i piloti Alfonso De Portago e il suo compagno, Nelson. Il mondo dello sport si ribella e dice basta. Per quella tragedia Enzo Ferrari viene messo sotto processo dalla magistratura e poi, anni dopo, assolto.
Quell’incidente a Guidizzolo cancella la Mille Miglia di velocità, che però torna a essere organizzata vent’anni dopo, nel 1977, con la formula di gara di regolarità: percorso di trasferimento da Brescia fino a Roma e quindi risalita a Brescia, intervallato da prove cronometrate, alcune con tempo imposto. La prima riedizione viene vinta dall’Alfa Romeo RL SS di Hepp-Bauer: è l’inizio di un successo andato via via aumentando. Nel novembre 2004 l’Automobile Club di Brescia e alcuni appassionati della corsa danno vita a Sant’Eufemia (in provincia di Brescia) al Museo della Mille Miglia. Al suo interno sono presenti le macchine storiche utilizzate dai vari piloti nel corso degli anni. La gara, a cui ogni anno partecipano molte personalità famose della politica, della cultura e dello spettacolo, ha un grandissimo seguito.
MGF