Regia di Kenneth Branagh – USA, 2023 durata 103′
con Kenneth Branagh, Tina Fey, Kelly Reilly

 

 

 

 

 

“UN BELGA, UN’INGLESE  E UN ITALIANO ENTRANO IN UN PALAZZO INFESTATO…”

Arrivati al terzo film della “trilogia di Poirot”, Kenneth Branagh e Michael Green decidono di maneggiare i codici del cinema horror con esiti decisamente buoni. Per entrare nel merito di Assassinio a Venezia forse converrebbe prima passare dal titolo originale del film, “A Haunting in Venice”: il termine “haunting” evoca un’infestazione, spettri, case stregate e quella roba sovrannaturale lì, il cui conflitto con la ragione rappresenta la principale dicotomia di quest’opera, oltre a sintetizzarne alla perfezione temi e stile. Assassinio a Venezia si svolge durante la festa delle zucche, Halloween, probabilmente aliena alla città almeno fino ai giorni nostri, ma giustificabile con l’internazionalità della medesima, dallo sbocco portuale e, magari, pure dall’anno in cui si svolgono le vicende, il 1947, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale: sai mai che c’erano ancora inglesi e americani nei paraggi… L’atmosfera tirata su da Branagh è perfetta: internazionale il giusto, non eccessivamente turistica e, soprattutto, incredibilmente efficiente nell’assecondare la più strana tra le indagini di Poirot. Venendo alla trama, all’inizio del film troviamo il detective belga (Kenneth Branagh) ormai anziano, ritiratosi dalle scene ed esiliatosi a Venezia, dove conduce un’esistenza abitudinaria con l’unica compagnia della sua guardia del corpo (Riccardo Scamarcio). A dargli una spintarella fuori dalla porta ci penserà la sua vecchia amica giallista Ariadne Oliver (Tina Fey), sventolando l’opportunità di assistere a una seduta spiritica condotta dalla sedicente medium Joyce Reynolds (Michelle Yeoh) e, magari, di smascherarla. Ovviamente le cose finiranno presto col complicarsi, costringendo il nostro baffone a tornare in azione. In termini strutturali il film ripercorre i suoi predecessori, schierando in ordine sparso l’ambientazione esotica, l’immancabile delitto, i sospettati interpretati ancora una volta da un cast all-star, ma soprattutto l’indagine e relativi interrogatori condotti in una bolla impenetrabile.
L’elemento dominante è l’acqua, la cui fluidità sottolinea i movimenti d’animo di un protagonista mai così insicuro, incerto, che parte per smascherare il sovrannaturale con l’inconfessabile desiderio di sbagliarsi, una volta tanto, forse per ritrovare qualche tipo di fede dopo una vita a mollo nella logica. Non è caso se l’investigatore e la medium vengono proposti come due facce della stessa medaglia, entrambi impegnati a parlare per conto dei defunti a prescindere da metodi e intenti.
In ottica di trilogia siamo di fronte a un secondo movimento di antitesi, anziché a una più convenzionale sintesi. Un’antitesi formale e ideologica coerente con i problemi di un personaggio che, dopo due conflitti mondiali e altre grane, non sembra più una divinità onnipotente, apparendo incrinato, incapace di trovare la proverbiale simmetria nelle cose, figlia di un esercizio della giustizia di natura ossessivo compulsiva, certamente, ma anche rassicurante. Qui, invece, ormai tutto quanto poteva andar male ci è andato, e al nostro tocca accettare una coppia di uova sbilenca, per prendere in prestito una metafora dal film.
Un film può arrivare subito, dopo un po’, a visione ultimata e persino non arrivare affatto. Assassinio a Venezia appartiene nettamente alla prima categoria, e questo dipende da tante cose: cast, sottotesti, scelte di regia, ma soprattutto dalla capacità, da parte di Branagh, di gestire alla grande gli spazi veneziani, consegnando un’esperienza piacevolmente sbilenca, a tratti persino horror. Sfoggia delle soluzioni davvero intriganti, spesso catturando lo spettatore più per il “come” che per il “cosa”.
Adorerete questo Poirot attempato e disilluso mentre cerca risposte a delle domande che non avrebbe mai voluto porsi.

Andrea Peduzzi – IGN Italia

Recensioni
8,5/10 IGN Italia
7.3/10 Spietati
3,5/5 Movieplayer

Questa volta anche Poirot dubita della realtà. Tre delitti, una chiromante e una bambina evanescente smontano la lucidità del grande detective di Agatha Christie. E Venezia, città onirica, realtà inafferrabile, lo inghiotte.

Sullo sfondo di una Venezia tanto affascinante quanto spettrale, Kenneth Branagh allestisce il suo adattamento di Poirot e la strage degli innocenti di Agatha Christie, ritraendo l’investigatore sotto una luce diversa dal solito e prendendosi delle libertà stilistiche e narrative che contribuiscono a fare di quest’opera un film da non perdere.


L’ HERCULE POIROT di KENNETH BRANAGH

L’Hercule Poirot di Kenneth Branagh funziona. Il regista britannico ha dato freschezza al personaggio di Agatha Christie, riuscendo a coinvolgere il pubblico contemporaneo con storie tratte da romanzi gialli cult del Novecento.

 

L’esordio della trilogia di Kenneth Branagh su Poirot è avvenuto con Assassinio sull’Orient Express, uno dei titoli di punta della carriera letteraria di Agatha Christie. L’aspetto intrigante di questo adattamento è stato il riuscire a mantenere l’ispirazione classica, ma, allo stesso tempo, il dare nuova linfa al personaggio di Poirot. In Assassinio sull’Orient Express di Kenneth Branagh vediamo lo stesso regista interpretare il personaggio protagonista, utilizzando alcune delle caratteristiche tipiche di Poirot (la sua immancabile arguzia), ma inserendo anche qualcosa di innovativo, come un’animosità ed un vigore praticamente inediti. All’epoca della sua uscita il Poirot di Kenneth Branagh venne descritto come una sorta di supereroe (del resto eravamo nel 2017, in piena ondata cinecomics). Durante il film vediamo Poirot correre, inseguire personaggi, ma anche tirare fuori rabbia ed emotività.

 

 

 

Ed a riprova dell’impatto emotivo che Kenneth Branagh intendeva fin dall’inizio dare al personaggio, troviamo in Assassinio sul Nilo il Poirot più sentimentale di sempre. Il character viene mostrato nelle fasi iniziali in una scena prequel, che racconta anche il segreto dei suoi immancabili baffi. Ma c’è di più in quel momento: c’è la nascita di un sentimento. Si tratta del lungometraggio più emotivo della trilogia, che racconta di triangoli amorosi, e di sentimenti mai sopiti, anche in negativo. In tutto questo Poirot, lavorando al proprio caso, troverà un modo per rievocare ed esorcizzare il suo amore sopito, e, in qualche modo, andare avanti. Con Assassinio sul Nilo possiamo dire che Kenneth Branagh ha tirato fuori in maniera chiara e nitida tutte le carte che intendeva giocare riguardo al personaggio, che si è rivelato nella sua accezione più contemporanea, offrendosi sullo schermo con una fragilità mai vista prima.

 

 

Ma, del resto, stiamo parlando di una figura che ha modernizzato l’ideale del detective alla Sherlock Holmes. Mentre il personaggio creato da Arthur Conan Doyle si caratterizzava per il suo acume e per il suo essere al di fuori dei sentimenti e delle emozioni vissute all’interno dei suoi casi, per quanto riguarda Poirot stiamo parlando di una figura fortemente Novecentesca.
Il 1900 è stato l’anno in cui Sigmund Freud esplose come personalità intellettuale. A fine 1899 lo psicologo pubblicò l’opera L’Interpretazione dei Sogni, iniziando a scavare all’interno dell’inconscio umano. In tutto ciò Hercule Poirot rappresenta una perfetta incarnazione della figura freudiana: un personaggio nevrotico, ossessionato dalla ricerca della verità, al punto tale da arrivare ad un tragico epilogo nel suo ultimo romanzo pubblicato da Agatha Christie, Sipario.

 


Assassinio a Venezia, tratto da La Strage degli Innocenti, mette a confronto Hercule Poirot con il soprannaturale, ovvero la confutazione di tutto ciò a cui il personaggio crede. Si tratta di un film in cui l’emotività e la nevrosi di Poirot potrebbero arrivare al tracollo totale. I personaggi alla base delle storie di Agatha Christie sono delle figure alla ricerca della verità, capaci di restare turbate, ma anche di trovare un nuovo sé in ciò che la deduzione li porta a scoprire. E Kenneth Branagh sembra aver colto in pieno questa lezione. Il suo Poirot è un personaggio in continuo mutamento, una figura di saldi principi, ma, allo stesso tempo, pronta a sconvolgersi una volta entrata dentro le profondità ed i lati oscuri dell’animo umano. I precedenti film della saga di Poirot realizzata da Kenneth Branagh hanno messo a dura prova l’investigatore belga, ma Assassinio a Venezia potrebbe considerarsi il titolo capace di farlo vacillare del tutto.

 

 

La figura di Poirot non sarebbe potuta nascere senza l’acume e la sensibilità di Agatha Christie. Stiamo parlando di un’autrice che ha realizzato opere capaci d’innovare il genere (passando da Assassinio sull’Orient Express, a Dieci Piccoli Indiani, all’Assassinio di Roger Ackroyd). Il seme della capacità di Hercule Poirot di innovarsi e di stare al passo coi tempi sta tutto nella genialità e nello spirito innovativo di Agatha Christie, che già nei primi decenni degli anni Venti del Novecento, riuscì a guardare oltre la propria epoca.

Davide Mirabello – Leganerd.it

 

MGF

 

Regia di Micaela Ramazzotti

Italia, 2023 – 104′

con Max Tortora, Anna Galiena, Micaela Ramazzotti.

 

 

 

 

 

UN TITOLO CHE PARLA DI SENSAZIONI POSITIVE PER NASCONDERE LA REALTA’ DI UNA FAMIGLIA CHE LA STESSA AUTRICE DEFINISCE “STORTA”.

È una Felicità ambita, inseguita, cercata, quasi un miraggio per la famiglia protagonista del film della Ramazzotti, fatta di genitori egoisti e manipolatori che hanno minato le esistenze dei propri figli, Desirè e Claudio. Se la prima però è riuscita a costruirsi una propria vita come acconciatrice in ambito cinematografico, più difficile e tortuosa è l’esistenza del fratello. Un’esistenza che sembra arrivare finalmente a una svolta quando il ragazzo viene spinto dal padre a intraprendere una carriera da NCC (noleggio con conducente), ma che subisce l’ennesima battuta d’arresto, rischiando di trascinare con sé tutta la famiglia.
Micaela Ramazzotti interpreta una figlia che si è salvata in qualche modo, che è riuscita a tirarsi fuori dalle manovre manipolatorie dei genitori, anche grazie al sostegno del compagno interpretato da Sergio Rubini e l’alternativa di vita che le ha mostrato. Una fuga solo parziale, frenata dall’affetto che le impedisce di tagliare i ponti e allontanarsi una volta per tutto. Pur “storta”, come dice la stessa regista, è pur sempre la famiglia di Desiré e lei non riesce a non voler bene ai suoi cari, soprattutto perché sa che il fratello Claudio ha bisogno di lei e del suo supporto.
Sono dinamiche complesse che Felicità mette in scena e c’è forse qualche eccesso nel raccontarle, calcando un po’ troppo la mano su alcune derive manipolatorie e alcune vicende che definiscono i diversi membri della famiglia, ma non tanto da rendere poco credibili o eccessive alcune svolte della storia.
È soprattutto evidente e concreta la situazione in cui si trova il fratello di Desirè, vera vittima di tutto il contesto familiare che ci viene raccontato. È lui infatti il motore del racconto di Felicità, lui con i suoi problemi e un percorso psichiatrico da portare avanti. Micaela Ramazzotti non si tira infatti indietro dal parlare di un tema delicato come quello della depressione, quel nemico invisibile contro il quale così tante persone si trovano a combattere quotidianamente, sottolineando come il contesto sociale in cui ci muoviamo e le derive della nostra realtà si riflettono sulle persone meno attrezzate per sostenerle. E lo fa con la giusta misura e il giusto equilibrio: se ci è parso che calcasse un po’ la mano nel mettere in scena alcune dinamiche familiari, risulta puntuale e accorta quando si concentra su Claudio, la sua condizione e i passi necessari a uscirne.
È un buon esordio alla regia quello di Micaela Ramazzotti, è un film che non si tira indietro nell’affrontare un tema delicato come quello della depressione e nel mettere in scena una famiglia problematica che si trova a fare i conti con le difficoltà e le problematiche che sta vivendo la nostra realtà contemporanea.
Buona anche la prova d’attrice della Ramazzotti, coadiuvata da un cast che accompagna e completa la sua visione autoriale.

Antonio Cuomo – Movieplayer.it


 

Dietro la famiglia Mazzoni, Felicità racconta un’Italia in cui le conseguenze della noncuranza, del calcio alla lattina, dell’ignoranza innalzata a baluardo di libertà iniziano a farsi sentire e hanno effetti disastrosi sulle nuove generazioni, soprattutto sulla percezione del sé e del proprio ruolo sociale. La Ramazzotti è perfettamente nel ruolo e la regia è delicata e al servizio dei personaggi con una scrittura capace di scuotere gli animi senza forzature. Qualche volta sceglie la strada della stilizzazione dei personaggi, scelta consapevole dettata dal fatto che nessuno di loro sarebbe in grado di reggere una reale profondità, perché è proprio la piattezza la cifra del contesto etico in cui è ambientata la vicenda. Siamo un Paese di macchiette incapaci di costruirsi un pensiero consapevole e strutturato, non riusciamo a direzionare le nostre vite perché viviamo di apparenza, di sentito dire e di emulazione. Siamo strutturalmente pigri e superficiali: chi per mancanza di cultura, come la famiglia di Desirè, chi per snobismo, come Bruno e la borghesia intellettuale e classista a cui si accompagna.

Jacopo Conti – Hotcorn.it


 

“Dedicato a tutte le donne che lottano per emanciparsi e a chi deve accettare le proprie peculiarità (non malattie) mentali per farne un punto di forza.”
“L’emancipazione non avviene sempre subito per tutte. C’è chi è fortunato e già a 18-19 anni ha la forza e anche la maturità interiore. Non lo so, da cosa dipende. C’è chi è più aggrappato agli altri, al giudizio degli altri, in continua richiesta di come si è andati. Poi c’è invece chi non riesce a emanciparsi mai. Quindi dedico Felicità a chi sta lottando per trovare un centro, una solidità”.
“La famiglia ideale non esiste, le famiglie perfette non esistono mai…”.
Micaela Ramazzotti


 

“Ho scelto il titolo Felicità perché è una parola che sta sulla bocca di tutti noi, quasi sempre durante la giornata, sia ai bambini che ai grandi, è una parola che mi piaceva, è facile. La felicità per quanto riguarda il mio film viene dal meraviglioso termine greco eudaimonìa che è il percorso che una persona fa per arrivare a quella famosa felicità, salire su quel benedetto treno. Perché la felicità insomma, oggi come oggi, è difficile trovarla, bisogna quasi inventarsela. Invece l’eudaimonìa è una conquista, un percorso che uno fa, uno stile di vita, è un andargli incontro. E una volta che la conosci, tenersela stretta, nutrirla, volerle bene, avere cura anche delle persone che ti rendono felice perché poi la felicità è l’amore, la tenerezza”.

Micaela Ramazzotti


UN FILM AMARO DI GRANDE GENEROSITÀ IN CUI MICAELA RAMAZZOTTI SI PORTA DIETRO LA SPONTANEITÀ DEI SUOI PERSONAGGI PASSATI.

Il film d’esordio alla regia di Micaela Ramazzotti, “Felicità”, è il vincitore del Premio degli spettatori – Armani Beauty al Festival di Venezia. L’attrice al pubblico: “L’infelicità può durare a lungo ma bisogna lottare tanto, lottare sempre per la felicità”.

Recensioni
3/5 MyMovies
2,5/5 Sentieri selvaggi
3/5 Movieplayer

 

MGF

 

Regia di Wes Anderson – USA, 2023 – 104′
con Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks

 

 

 

 

 

UN FILM SUL DESERTO DEL NOSTRO SCONTENTO

Asteroid City, località sperduta nel deserto americano con una sola strada che la attraversa, un diner, una base militare, un complesso di case, un osservatorio astronomico e tutt’attorno una gigantesca distesa di terra da vendere e occupare, è un’immagine funerea – per quanto come al solito coloratissima e vintage – della nazione americana e dello stesso cinema di Wes Anderson.
Una sovrapposizione non casuale. Uno spazio insulare, tagliato fuori dal mondo, che nel corso del film viene ulteriormente chiuso da una quarantena, quando agli sparuti abitanti della cittadina (militari, astronomi, viaggiatori di passaggio, amanti della scienza, una scolaresca, un’attrice con la figlia, un padre vedovo con i figli al seguito e la macchina in panne) appaiono nientemeno che gli alieni. Siamo a metà anni ’50, i funghi dei test nucleari decorano lo sfondo come le mese e i crateri e l’avventura spaziale nasconde desideri di fuga e paura del diverso, con i ragazzi che sognano di fuggire nello spazio e gli adulti che restano inchiodati alle responsabilità da cui sfuggono inutilmente.
Asteroid City, la città, non esiste, così come non è mai esistito il mondo di Wes Anderson, nonostante sia forse la creazione cinematografica più identificabile (e commercializzabile) degli ultimi decenni. Un mondo sempre più pieno di cose – nomi di persone, luoghi e città, oggetti, colori, animali, piante, vestiti, musiche, canzoni, libri, giornali: un gigantesco gioco di società, insomma – nel quale il suo creatore ha finito per chiudere gli spettatori e pure sé stesso.
Asteroid City, il film, è in questo senso il film più cupo di Anderson, quasi un’operazione mortuaria, costruito come una scatola cinese da cui è impossibile uscire. Il film si apre con un narratore (Bryan Cranston) da show televisivo anni ’50 in bianco e nero che introduce la storia di un commediografo di fantasia (Edward Norton) che sul palcoscenico di un teatro scrive la commedia inesistente Asteroid City, in cui in un mondo a colori alcune persone si ritrovano un po’ per volontà e un po’ per caso in una cittadina nel deserto attorno a una base militare… Il film è dunque la creazione inesistente di un autore anch’egli inesistente, diretto in scena da un regista (Adrien Brody) costretto a vivere dietro il palcoscenico, in cui a volte gli interpreti escono dal ruolo e dal set per parlare del loro ruolo, in cui il narratore può entrare per sbaglio nel racconto e le scene possono ripetersi e replicarsi su piani paralleli e sfasati.
In una serie anch’essa ripetitiva e potenzialmente infinita e unica di scene e scenette, nozioni da nerd e invenzioni buffe, luci colorate e soluzioni da cinema classico, Anderson non solo ingolfa il suo cinema oltre la saturazione, ma arriva addirittura a contemplare l’idea di distruggerlo, inserendo in maniera clamorosa la possibilità della quarta parete. Con un controcampo che potrebbe annientare tutto quanto ha fatto fino a ora, rompe egli stesso l’incantesimo frontale del suo mondo di bambole e fa scontrare il colore e il bianco e nero, il set del film e il palcoscenico della finzione, l’attore e lo scrittore.
E se, in fondo, questo film di Anderson fosse inaspettatamente l’unica risposta al mistero dell’universo, ai limiti della scienza, all’insignificanza dell’uomo nell’enormità del tutto?
E se alla fine del cinema non ci fosse, ancora e ancora, nient’altro che cinema?

Roberto Manassero – Cineforum.it

Recensioni
7/10 IGN Italia
3,3/5 Cineblog.it
3,4/5 Mymovies

Wes Anderson firma il suo capolavoro. Il consueto racconto a episodi è contenuto nei barocchismi e organizzato nel montaggio interno, scatole dentro scatole di precisione millimetrica, generose di invenzioni, personaggi pittoreschi e dialoghi da manuale.


 

IL CINEMA DI WES ANDERSON: UNA PALETTE DI COLORI

Quando si parla del cinema di Wes Anderson, le persone tendono ad associare alle sue pellicole colori pastello, inquadrature maniacalmente simmetriche e personaggi stravaganti in contesti vagamente realistici.
I colori e le loro combinazioni svolgono, a livello inconscio, un ruolo fondamentale nella visione di un film. Si spiega, dunque, il grande successo del regista Wes Anderson che unisce a trame particolari delle scene cromatiche forti che influiscono molto sull’atmosfera dei film e quindi sul coinvolgimento del pubblico. È rosso, viola o rosa. Il modo in cui descrive il mondo cinematografico è attraverso i colori.

 

Il regista Wes Anderson utilizza la sua tecnica estetica dell’uso del colore non al solo fine estetico, ma cercando nella forma la vera sostanza. Le sue storie raccontano di personaggi limite, adulti troppo bambini incapaci a stare in un mondo che non li comprende a causa delle loro nevrosi. I personaggi andersoniani tentano di evadere da queste gabbie di conformismo e il regista riporta le loro storie e la loro eccentricità, senza giudicarli negativamente ma anzi invita gli spettatori ad amarli ed imitarli.
Non esistono antagonisti, i buoni e i cattivi non esistono; i buoni non sono mai davvero buoni e i cattivi non sono mai davvero cattivi. Non bisogna però mai farsi ingannare dall’atmosfera leggera, la quale cela le fragilità e le debolezze dei personaggi. Anderson usa minuziosamente le tecniche cinematografiche, come i colori, le inquadrature e le simmetrie con lo scopo di sottolineare gli aspetti interiori e tutti gli aspetti di questa fragilità. Ogni scenario costruito dal regista è in funzione della psicologia facendo in modo che le caratteristiche dei protagonisti si riflettano nell’estetica che li rappresenta.
Alla base di ogni suo film vi è un elenco rigido di regole: le inquadrature sono sempre frontali, fisse da far notare una forte maniacalità della composizione dello scenario filmico. Si trova inoltre la simmetria bilaterale, presente in ogni scena, nulla di fronte alla telecamera è fuori posto, il punto di fuga è sempre al centro per creare una prospettiva centrale, utilizza inoltre lo scorrimento laterale e la panoramica dall’alto. Queste tecniche e soprattutto l’uso del colore creano una narrazione artefatta e una sensazione di surreale. Anderson ci fa vedere il mondo reale ma soprattutto quello interiore dei personaggi, enfatizzando gli umori e emozioni degli stessi.
I film come Grand Budapest Hotel, I Tenenbaum e Moonrise Kingdom fanno emergere al massimo queste caratteristiche: le tonalità di colori presenti in ogni scena si armonizzano come in un dipinto e a ogni momento ripreso viene abbinata una palette cromatica. Un esempio di questa sua intenzione cromatica è la scena, in Grand Budapest Hotel, in cui il consierge Monsieur Gustave H. e il lobby boy Zero Moustafa si trovano in ascensore con la ricca Madame D.: le scelte cromatiche di Anderson si orientano verso un rosso intenso e un viola stridente. Anche ne I Tenenbaum le scene emotivamente più forti si tingono di colori molto accesi. Altra tipologia di scena è quello in cui una cromia emerge in modo più netto sulle altre, scene prettamente monocromatiche. Per esempio, infatti, le scene tra il lobby boy e Agatha sono quasi sempre rosa.

                                                                  
Momenti comici si uniscono a commozione e ironia, creando un gioco perfetto di sfumatura.
Ciò che colpisce del regista è proprio la volontà di trasformare il cinema in una composizione.
Un dipinto di un pittore con colori complementari e allo stesso tempo sfumati.
Il lavoro sui colori, sulla simmetria e sulle inquadrature risultano protagonisti quanto la storia del film. Le scelte cromatiche diventano un modo per far relazionare i personaggi allo spazio che li circonda e un modo per enfatizzare le sensazioni e le emozioni degli stessi.

Giulia Notari – Cimoinfo.com

 

MGF

 

Regia di Justine Triet – Francia, 2023 – 150′
con Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner

 

 

 

 

 

ANATOMIA DI UNA CADUTA: IL LEGAL THRILLER CON UNA VERITA’ IMPOSSIBILE

Anatomia di una caduta” della quarantacinquenne Justine Triet, Palma d’Oro a Cannes, è, se guardiamo ai tralicci dell’edificio narrativo, un legal thriller – coinvolgente e corredato di tutto il necessario, schermaglie tra accusa e difesa e deposizioni inaspettate incluse – che contiene molto di più e lo lascia “traspirare” nell’incedere inesorabile di una drammatica vicenda familiare dove diluvi di parole, silenzi e passato alzano il sipario su una vivisezione di ciò che chiamiamo, con eccessiva sicurezza, Verità. Bersaglio non inedito e sempre aleggiante quando testimoni e imputati si alternano alla sbarra, ma qui il gioco va oltre l’accertamento di una responsabilità penale. E nessuna legge vince, o meglio, tutti hanno una “legge” o un codice (comunicativo) da difendere.

Sandra Voyter (una monumentale Sandra Hüller, attrice tedesca di solida formazione teatrale) è una scrittrice affermata, vive sopra Grenoble col marito francese Samuel Maleski (Samuel Theis), scrittore irrisolto fascinoso e sulle spine. Con loro l’undicenne figlio Daniel (Milo Machado Graner), diventato completamente cieco dopo un incidente di cui il padre porta una parte di responsabilità. È lui, guidato dal cane Snoop, a trovare per il primo il cadavere del padre, un altro trauma: la vita sa calcare brutalmente la mano, e sarà la devota bestiola a dare un cruciale contributo allo scioglimento del caso, che arriverà dopo 150 minuti di buon cinema, per scrittura scenica (Triet col marito Arthur Harari), ottimo cast, tenuta narrativa, sapiente e quasi pudico gioco di emozioni.

Il piccolo Daniel chiederà e otterrà di assistere alle fasi finali del processo, vuole capire di più, molto ha da dire alla corte. Chiede la parola, racconta sparigliando le carte. Solo un bambino riesce ad avvicinarsi, caricandosi un peso doloroso, a una possibile soluzione dell’enigma. Si dirada la nebbia, nella foresta di voci si apre un sentiero di verità vera.

“Anatomia di una caduta” è anche una lezione di metodo per chi scava nella Storia: confronto delle fonti, archivi, testimonianze dirette, dubbio sistematico. Un aggiornamento del classico “Anatomia di un omicidio” di Preminger (1959), smagliante legal thriller proprio imperniato sulla oscillazioni e le torsioni ex post dei fatti, tutti interpretabili, mascherabili, manipolabili. Triet tuffa le mani in un altro magma naturalmente associato alla violenza: la famiglia, i suoi fragili equilibri. In “Anatomia di una caduta” residua pure un’eco forte di tanti suoi lavori, tra nuove povertà, giovani inconciliati, crisi di famiglia tra pubblico e privato. Poi si tratta sempre di calare l’ispirazione in un linguaggio cinematograficamente potente e stavolta la regista c’è pienamente riuscita, con l’apporto significativo di Sandra Hüller, perfetta in ogni registro. Il film in Francia ha messo d’accordo al botteghino il pubblico più votato al cinema “d’autore” e quello appassionato ai drammi sul filo della suspense.

Andrea Aloi – Strisciarossa.it

Il film è stato premiato al Festival di Cannes, ha ottenuto 4 candidature a Golden Globes, ha ottenuto 4 candidature agli European Film Awards, ha vinto un premio ai British Independent, è stato premiato a National Board, ha ottenuto 1 candidatura a Spirit Awards, ha ottenuto 1 candidatura a Goya, Il film è inoltre stato premiato a Cahiers du Cinéma

 

Recensioni
9/10 IGN Italia
3,8/5 MyMovies
4/5 Cineforum


IL LEGAL THRILLER

Come nasce e di cosa tratta il Legal thriller? Alla voce Legal Thriller, il vocabolario Treccani riporta la definizione “Film o narrazione romanzesca che si incentra su un’indagine svolta da un avvocato e si risolve in un dibattimento in tribunale“. Perciò, che lo si chiami Thriller legale, Giallo giudiziario, Thriller giudiziario o che si utilizzi la ben più nota locuzione inglese Legal thriller, il concetto non cambia: parliamo, qui, di un sottogenere del thriller “specializzato” nell’analisi di fatti criminosi dal punto di vista dei processi, tribunali, verdetti e dei personaggi che interagiscono quotidianamente con quest’ambito così peculiare.
Al centro di ogni Legal thriller ci sono, dunque, avvocati, magistrati, pubblici ministeri, che molto spesso fungono da narratori delle vicende criminose, nonché da veri e propri ciceroni nei tortuosi meandri del processo. Non pistole, inseguimenti e piedipiatti, dunque, ma banchi, toghe e togati.
Sono davvero tanti i film che seguono questo filone. Ricordiamo qui i più famosi:

 

Il rapporto Pelican – The Pelican Brief (1993)
Julia Roberts interpreta una giovane studentessa di legge che, durante le sue ricerche, arriva a redigere un rapporto a proposito dei presunti omicidi di due giudici della corte suprema americana. Il rapporto attira l’attenzione del mandante degli omicidi e la giovane è costretta a difendersi da costanti minacce, anche grazie al reporter interpretato da Denzel Washington.

 

 

 

 

 

L’uomo della pioggia – The Rainmaker (1997)
Uno dei capolavori del grande Francis Ford Coppola: la storia è quella di un giovane neo avvocato (Matt Damon) che, con l’aiuto di un vecchio praticante mai laureatosi (Danny DeVito), assume la difesa di un ragazzo malato di leucemia al quale l’assicurazione non vuole erogare il risarcimento.

 

 

 

 

 

 

 

Il momento di uccidere – A Time to Kill (1996)
Nell’America razzista del profondo sud due ragazzi bianchi violentano ed uccidono una ragazza di colore; dopo l’assoluzione dei due, il padre della giovane (Samuel L. Jackson) decide di farsi giustizia da solo e viene difeso da un giovane avvocato interpretato da Matthew McConaughey.

 

 

 

 

 

 

Codice d’onore – A Few Good Men (1992)
Tom Cruise interpreta un rampante avvocato della marina militare statunitense a cui è stato assegnato il caso di due marines accusati dell’omicidio di un loro commilitone. Demi Moore è l’assistente di Cruise e alla sbarra depone nientepopodimeno che Jack Nicholson, cattivissimo alto ufficiale dell’esercito che, davanti alla corte marziale, testimonia su alcune pratiche diffuse nel mondo militare.

 

 

 

 

 

Il cliente – The Client (1994)
Giocando in un bosco, un ragazzino incontra un avvocato in procinto di suicidarsi che gli rivela alcune scomode verità sui suoi loschi traffici. In un attimo il ragazzo si ritrova ad essere un testimone scomodo, minacciato da mafiosi e delinquenti di ogni tipo e difeso dalla brillante avvocatessa Susan Sarandon.

 

 

 

 

 

 

Il caso Thomas Crawford – Fracture (2007)
Un ricco ed anziano ingegnere (Anthony Hopkins) escogita un piano per uccidere la giovane e bella moglie infedele e incolpare l’agente di polizia suo amante. Se non che l’assistente distrettuale Willy Beachum (Ryan Gosling) non è per niente convinto di come sono andate le cose e inizia ad indagare, in cerca della verità.

 

 

 

 

MGF

 

Regia di Matteo Garrone – Italia, Belgio, 2023 – durata 121′

con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo

 

 

 

 

 

Matteo Garrone entra nella corsa per gli Oscar: Io Capitano, candidato ufficiale dell’Italia al miglior film internazionale dell’edizione 2024, è stato scelto per la cinquina finale della notte delle stelle del 10 marzo.

SEYDOU E MOUSSA SONO PINOCCHIO E LUCIGNOLO IN PARTENZA PER IL PAESE DEI BALOCCHI, CIRCONDATI DA GATTI E VOLPI PRONTI A PREDARE SULLA LORO INGENUITÀ

Come Benigni con “La vita è bella”, così Matteo Garrone in “Io Capitano” aveva di fronte a sé un problema di rappresentazione collegato alla difficoltà di mettere in scena una realtà così tanto analizzata, discussa e mostrata da rischiare di rimanere un passo indietro rispetto all’immaginario corrente; oppure di scavalcarlo con il pericolo di risultare inverosimile. Tenendo presente che il dramma dei migranti rispetto all’Olocausto ha un livello di attualità maggiore, nel suo essere un fenomeno in corso di svolgimento con cui in Italia siamo abituati a confrontarci non solo attraverso giornali e televisioni ma anche nella vita di tutti i giorni, nei mari e sulle coste interessate agli sbarchi.

Un carico di concretezza di cui, in “Io capitano”, riscontriamo traccia nelle scelte del regista di contaminare la realtà con una dimensione favolistica senza però venire meno all’aderenza con le immagini che testimoniano le cronache dei nostri giorni e, d’altra parte, aprendosi a un’universalità fuori dal tempo che fa della vicenda di Seydou e Moussa – adolescenti senegalesi decisi a raggiungere l’Europa per diventare star della musica – una storia leggibile anche al di fuori delle questioni politiche ed emergenziali a cui è naturale associarla. Facendo riferimento alla filmografia di Garrone e considerando le caratteristiche appena menzionate, “Io capitano” si presenta come una versione contemporanea del suo precedente lavoro, “Pinocchio”, al quale lo lega non solo il viaggio come struttura del racconto, la giovinezza dei personaggi e il desiderio di cambiare la propria condizione, ma anche la similitudine di alcuni passaggi, primo fra tutti il richiamo emotivo nei confronti della figura genitoriale – in questo caso quella materna – e poi la raffigurazione di certi accadimenti: il ritrovamento di Moussa da parte di Seydou, simile a quello del ricongiungimento tra Pinocchio e Geppetto nel ventre della balena e, ancora, i ragazzi nel carcere libico simili a quelli segregati da Mangiafuoco nel paese dei Balocchi.

Situazioni la cui improbabilità – si pensi alla maniera in cui Seydou si salva dalle grinfie dei suoi carcerieri, aiutato da un compagno di sventura che ricorda la fatina di Collodi – trasfigurano la realtà spingendola verso una contingenza archetipica propria delle favole. Carlo Cerofolini – Ondacinema Lungi dall’essere un film buonista, “Io capitano” non concede alcuno sconto all’orrore dell’esperienza vissuta dai suoi personaggi, presente soprattutto nelle sequenze all’interno del carcere libico. La versatilità di “Io Capitano” e, dunque, la sua capacità di attirare un pubblico eterogeneo consistono anche nel saper essere più cose insieme, di fare dell’eccezionalità presente nella vicenda di Seydou e Moussa non solo materia di riflessione e di denuncia del destino iniquo, ma anche volano di uno spirito d’avventura ormai estinto a causa della sempre maggiore invasività della componente tecnologica. Lo spirito d’avventura è qui capace di mettere in moto una catarsi che si compie anche nella trasformazione dei personaggi, che da vittime diventano eroi per come, a un certo punto, riescono a prendere in mano le loro vite, influenzandone il corso. Detto questo, a vincere in “Io capitano” è l’essenza di una poesia sentimentale che non ha bisogno di forzare la mano, capace com’è di avvicinare lo spettatore all’esperienza dei protagonisti, riducendo le distanze tra l’ordinario delle nostre vite e l’eccezionalità di ciò che vediamo sullo schermo. Senza contare che “Io capitano”, alla pari delle favole che si rispettano, riesce anche a esprimere una sua morale raccontando di come siano gli uomini e non la natura a rendere peggiore il mondo.

Carlo Cerofolini – Ondacinema

Recensioni
3,8/5 MyMovies
6,5/10 IGN Italia
3/5 Cineforum

Una coproduzione internazionale ispirata alle storie vere di alcuni ragazzi che hanno vissuto il viaggio dei due protagonisti. Il film è stato premiato al Festival di Venezia, ha ottenuto 2 candidature agli European Film Awards. Il film è stato premiato a San Sebastian

I MIGLIORI FILM SUL TEMA DEI MIGRANTI

 

L’emigrante di Charlie Chaplin (1917). Capostipite dei film sulle migrazioni, narra l’epopea di Charlot prima su una nave che porta in America centinaia di persone alla ricerca di una nuova vita, e poi a New York, dov’è disoccupato e si innamora di una ragazza.

 

 

Mosca a New York di Paul Mazursky (1984). Racconta le vicende di un sassofonista sovietico interpretato da Robin Williams che, arrivato col Circo di Mosca a New York, decide di chiedere asilo politico. Riuscirà a cambiare la sua vita grazie all’aiuto di un avvocato, di una ragazza messicana e di un giovane di colore.

 

 

 

 

 

 

Lamerica di Gianni Amelio (1994). È la grande emigrazione dall’Albania negli anni ’90, con i barconi in fuga da un Paese povero e dilaniato.

 

 

 

 

L’odio di Mathieu Kassovitz (1995). Uno dei film più apprezzati degli anni Novanta. Narra una giornata nelle banlieue parigine seguendo le vicende di Vinz, ebreo, di Said, di origini maghrebine, di Hubert, nero. La storia si sviluppa attorno al loro amico sedicenne Abdel, picchiato dalla polizia.

 

 

 

 

 

Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana (2005) Rovescia il tema del salvataggio in mare. A essere salvato è il giovane figlio di un industriale bresciano sbalzato in acqua nel corso di una vacanza in barca a vela. Sarà issato a bordo di un barcone che trasporta migranti.

 

 

 

 

 

District 9 di Neil Blomkamp (2009). Prendendo l’ispirazione nel titolo dalle vicende ai tempi dell’apartheid nell’area residenziale che a Città del Capo è denominata District Six, racconta di un mondo fantascientifico dove xenofobia e segregazione razziale sono messe in atto dagli umani contro una minoranza aliena.

 

 

 

 

Terraferma di Emanuele Crialese (2011). Premio speciale della giuria alla 68esima Mostra di Venezia, racconta la storia di un’isola siciliana, abitata dai pescatori e quasi ignorata dal turismo. Investita dagli arrivi dei migranti, l’isola si troverà al centro di una nuova politica di respingimento che ignora le leggi del mare e l’obbligo di soccorso.

 

 

 

 

 

Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismaki (2011). La storia del lustrascarpe Marcel Marx che si adopera per salvare un ragazzino africano incontrato per caso, arrivato in Francia in un container e sfuggito alla polizia.

 

 

 

 

 

La prima neve di Andrea Segre (2013). E’ la storia dell’incontro tra Dani, originario del Togo e arrivato in Italia in fuga dalla guerra in Libia, e Pietro, falegname e apicoltore, sulle montagne del Trentino.

 

 

 

 

 

Samba di E. Toledano e O. Nakache (2014). La storia di Samba Cissé, un senegalese in attesa di un permesso di soggiorno che non arriva mai. Costretto da dieci anni in un centro di accoglienza a Parigi e con la costante paura di essere espulso, si rivolge a un’associazione che si occupa di questioni giuridiche legate all’immigrazione. A occuparsi del suo caso sarà Alice, una giovane donna borghese in congedo lavorativo.

 

 

 

Fuocoammare di G. Rosi (2016). Documentario Orso d’oro per il miglior film al Festival di Berlino, è dedicato all’isola di Lampedusa e ai suoi migranti. Il film testimonia la vita sul confine simbolico più importante d’Europa, raccontando il punto di vista dei lampedusani e quello dei migranti.

 

 

 

 

 

MGF