Regia di Ali Ray.

Docufilm Gran Bretagna, 2023, Durata 90 minuti.
La storia, la sensualità, i materiali abbaglianti e i misteri di uno dei dipinti più suggestivi, conosciuti e riprodotti del mondo.

 

 

 

 

 

Uno studio ravvicinato del dipinto ci condurrà tra le strade della straordinaria Vienna di fine secolo, quando un nuovo mondo si scontrava con il vecchio e la modernità vedeva, per la prima volta, la luce. Prodotto da Phil Grabsky con Exhibition on Screen.

 

KLIMT: IL BALUARDO BOHEMIEN NELLA CASTITA’ VITTORIANA

Gustav Klimt è un artista austriaco forse un po’ difficile da inquadrare, con le sue opere che mescolano così aggressivamente elementi realistici e strane geometrie.
Per contestualizzarlo, pensiamo all’epoca in cui nasce e cresce, come persona e come artista: l’Austria del XIX Secolo è un luogo di contraddizioni, dove il rigore che dall’Inghilterra Vittoriana si espande a tutta l’Europa stenta a reprimere i primi ansiti di quella che sarà la cultura bohémien.
Un puritanesimo diffuso e radicato, a cui Klimt inizialmente aderisce, ma che sfocia inevitabilmente nel risultato immancabile della repressione troppo strenua degli istinti: la ribellione, la perversione, l’erotismo.

 

Klimt – Il bacio (1907)

 

Siamo in un’epoca in cui cominciano ad emergere le teorie di Jung e Freud, con le ben note ipotesi riguardanti gli effetti sulla psiche della sfera sessuale: Klimt prende queste teorie, le fa sue.
Non può tuttavia discostarsi, e Freud approverebbe, dalla sua storia personale: figlio di un incastonatore, studia anch’egli la materia e pur dandosi poi all’arte pittorica, qualcosa di questa formazione gli resterà sempre.
Pensiamo ad esempio alla sua opera più celebre, Il Bacio: volti realistici, umani, riconoscibili, travolti da un’innegabile passione… e corpi celati dietro a strane vesti surreali, il cui decoro ricorda molto il mosaico, o appunto un decoro di pietre incastonate.

 

 

 

Klimt – La vergine (1913)

Sotto questo punto di vista, Klimt è la perfetta, sebbene inusuale, incarnazione del motto rinascimentale: “nani sulle spalle dei giganti”.
In Klimt rivive l’antica passione tardoromanica per il mosaico, per le gemme, per la gioielleria raffinata, e prende un nuovo slancio con la sua spinta, quasi un’esigenza, verso l’erotismo e la sensualità.

Le opere di Klimt sono uno schiaffo alle ondate di puritanesimo che quasi imponevano di non provare alcun tipo di desiderio impuro, spezzano e ricostruiscono la morale fino ad alzarla a uno stato di quasi divinità: impossibile non notare quanto gli sfondi dorati di cui egli faceva spesso uso rimandino alle opere medievali, in cui spesso il paradiso era rappresentato da un costosissimo sfondo oro monocromatico. Manca tuttavia l’ostentazione: in queste ultime opere, la foglia d’oro utilizzata per rappresentare il paradiso non era altro, in fondo, che uno status symbol, dal momento che solo i più ricchi potevano permettersela.

Klimt – Giuditta I (1901)

Klimt solleva quindi quella patina di falsità in cui è così facile cadere, riportando il paradiso ad una dimensione accessibile a chiunque; non solo i più ricchi e abbienti, ma anche gli ultimi del mondo possono ora alzare lo sguardo e rimirare la bellezza. Una bellezza terrena, comprensibile, un sensuale corpo di donna e una massa di capelli scompigliati, un bacio inevitabile, un sorriso malizioso. E tutto ciò strizzando l’occhio al pacchiano, alla decorazione di sfondo che quasi prende il sopravvento sull’opera nella sua interezza: un vero e proprio caos bohemién.
Le parole d’ordine che segnano la ribellione al puritanesimo sono quattro: libertà, bellezza, verità e amore. E Klimt le incarna tutte nelle sue opere.
Le donne da lui dipinte sono libere, belle, reali e innamorate. Klimt viene spesso accusato di misoginia e oggettivizzazione della donna, ma guardando bene si può capire che in realtà fa l’esatto contrario: prende la femminilità e la libera dalle convenzioni, dalle catene dei limiti sociali da non oltrepassare, rappresenta donne che sono donne in quanto tali, creature che non sono legate ad un ruolo di semi schiavitù, sempre un po’ in disparte, sempre beneducate e sorridenti, donne che abitano il mondo perché questo è ciò che vogliono fare, quasi fossero spiriti silvani che illuminano di fuochi fatui le foreste buie.

 

Gustav Klimt e Emilie Flöge – 1908

 

Basta con la concezione della donna solo e soltanto nel suo ruolo di madre e costola dell’uomo, basta con l’idea che le donne siano creature angeliche e caste, prive di qualsivoglia pulsione sessuale o violenta, basta con le donne intimamente schiave del proprio fato; ed è questa una concezione aliena al puritanesimo dilagante, allora come ora.
E forse, proprio per questo motivo, questa stessa idea è sempre più importante: la felicità vera non è attenersi a una serie di regole imposte, ma essere liberi da restrizioni troppo limitanti, vivi e pulsanti nella propria unicità, innamorati della vita e dell’arte, non costretti da sterili convenzioni sociali.

 

 

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

MGF

 

 

 

Fu un programma di ricerca degli Stati Uniti per la realizzazione delle prime armi nucleari. Nato dal timore dei progressi della ricerca tedesca in materia atomica, il Manhattan è diventato in breve tempo un progetto totalizzante, che ha determinato per anni lo sforzo di un intero paese per il raggiungimento di un obiettivo militare tanto ambizioso quanto estremo.

Parteciparono al progetto alcuni dei più noti fisici del Novecento, come il premio Nobel italiano Enrico Fermi, l’inventore del ciclotrone Ernest Lawrence e Robert Oppenheimer.

Tutto cominciò nel 1938 con la scoperta della fissione nucleare da parte degli scienziati tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann. Da qui nacque il timore statunitense che i nazisti potessero in breve tempo realizzare un’arma di distruzione di massa dalla potenza mai conosciuta prima: la bomba atomica.

Fu lo stesso Albert Einstein, insieme a un gruppo di noti scienziati del tempo, a scrivere al presidente Franklin Delano Roosvelt, mettendolo in guardia riguardo ai presunti intenti dei nazisti. Per questo motivo, in breve tempo iniziarono anche negli Stati Uniti i primi studi nel campo della fisica nucleare, principalmente all’università della California, a Berkley, e alla Columbia University, a New York. I primi progressi nell’ambito della ricerca pura richiesero poi ulteriori risorse, e uno sforzo ancora più deciso, per svolgere quello che oggi chiameremmo il trasferimento tecnologico e giungere quindi rapidamente all’obiettivo finale.

 

Così nel 1942, nel pieno della Seconda guerra mondiale, il governo statunitense si impegnò per creare prima dei nazisti dei laboratori capaci di produrre un ordigno atomico. Il progetto Manhattan fu ufficialmente istituito il 13 agosto 1942 e coinvolse in pochissimo tempo esperti provenienti da ogni parte del mondo e di svariati settori: oltre a chimici, fisici, ingegneri e specialisti di esplosivi, collaborarono ingegneri, militari e medici. La supervisione scientifica fu affidata a Robert Oppenheimer, motivo per cui gli venne convenzionalmente attribuito l’appellativo di inventore della bomba atomica. All’interno del progetto Manhattan, alcune persone furono anche inviate in territorio nemico per indagare il programma nucleare militare tedesco, con l’obiettivo di raccogliere segretamente materiale e documenti utili per favorire la ricerca.

Una delle sfide più complesse che dovette affrontare il governo nordamericano riguardò la scelta del luogo dove realizzare i centri di ricerca nucleare. Bisognava trovare un luogo ampio, isolato, distante dalla costa e lontano dai grandi centri abitati. Era impossibile riunire tutti i laboratori in un unico sito e per questo ne furono scelti tre, lontani tra loro: Oak Ridge (nel Tennessee), Los Alamos (nel Nuovo Messico) e Hanford (Washington). Insomma, nonostante si chiamasse Manhattan, conosciuto come il distretto più famoso e importante di New York, i centri di ricerca furono dislocati in vari luoghi del territorio statunitense.

 

Il tutto venne costruito silenziosamente e, oltre a sfrattare tutti i residenti e a proibire loro di parlare dell’argomento, i centri non furono mai inseriti nelle mappe ufficiali. Insomma, una missione super segreta dai tratti patriottici. All’inizio si viveva in tenda o in altri rifugi di fortuna, poi con il tempo all’interno di queste aree top secret non mancò più nulla: gli scienziati vivevano insieme alle famiglie e potevano disporre di rifornimenti, laboratori, fabbriche, scuole e ospedali. Complessivamente furono spesi 2 miliardi di dollari dell’epoca, che corrispondono a circa 30 o 50 miliardi di dollari attuali. Per comprendere la vastità del progetto basta riflettere sul fatto che i tre agglomerati ospitarono 125mila scienziati, tutti impegnati in una missione nel rispetto del più rigoroso segreto militare.

 

Nel giro di qualche anno, l’immenso lavoro di ricerca stava iniziando a dare frutti e, mentre i nazisti erano ancora alle fasi preliminari, furono realizzate per la prima volta la bomba all’uranio e quella al plutonio. Nella mattina del 16 luglio del 1945 nel deserto della Jornada del Muerto, nel Nuovo Messico, gli scienziati del progetto Manhattan testarono Gadget, la prima bomba atomica della storia.

 

 

Era la premessa degli storici attacchi nucleari su Hiroshima e Nagasaki, che sarebbero arrivati poco dopo.

La morte di decina di migliaia di persone e le conseguenze derivanti dalle radiazioni hanno sollevato, al di là dell’impatto sulle sorti del conflitto, numerose questioni etiche e morali, che ancora oggi non possono certo ritenersi risolte.

Fonte: Wired Italia

MGF

Regia di Christopher Nolan – USA, 2023 – 180′
con Cillian Murphy, Emily Blunt, Robert Downey Jr.

 

 

 

 

 

 

CHRISTOPHER NOLAN CONFEZIONA UN’OPERA TOTALE CHE E’ LA SINTESI DEL SUO CINEMA

Oppenheimer è un film troppo importante. Di quelli che ti svuotano di tutto: parole, fiato, persino emozioni. Perché ti sventra completamente, e quel che ti lascia è un’esplosione nucleare nello stomaco. È estasi pura, visiva, sensoriale, emotiva. È una lettera d’amore che Christopher Nolan scrive al cinema (il suo e degli altri), ma anche un urlo d’odio che lancia al mondo.
È il film che ti fa pensare quant’è bello il cinema. Anzi, è ciò che il cinema dovrebbe essere.
È un racconto di tre ore lungo, denso, stratificato, scandito attraverso tre atti sacrosanti che percorrono tre tappe cruciali di una storia che ha sconvolto l’umanità: la creazione, lo scoppio, le conseguenze sul mondo.
Tre ore di dialoghi, sguardi e decisioni che hanno plasmato lo svolgersi di una guerra, ma anche di una civiltà. 180 minuti che non si fermano mai, che guardano avanti e indietro nel tempo. Il tempo, la bussola con cui Nolan orienta da sempre il suo sguardo cinematografico: una narrazione non lineare, divisa a sua volta in tre momenti che il regista guarda con filtri diversi. Un passato in cui i cromatismi sono caldi, tenui, un tempo di mezzo che è il purgatorio freddo e grigio subito dopo la tempesta (anzi, l’inferno), un presente in cui i cromatismi si spengono perché a partire da quello scoppio il mondo ha perso colore. In cui tutto è morto. Quando Oppenheimer, da Prometeo che dona il fuoco agli uomini, diventa Morte, il distruttore di mondi. O meglio, del mondo. Un intreccio quanto mai perfetto, il cui unico limite è il ritmo compassato con cui la prima parte della trama si fa strada prima dell’esplosione; ma quando tutto deflagra, corre, non si ferma più, e ti scaraventa addosso tutto il dolore, tutto il marcio, tutta la cenere di un fuoco che non può più ardere, perché non c’è più nulla da bruciare. Una storia fatta di contraddizioni e di opposti, di scontri politici e lotte interiori. Tutto, o quasi, vissuto dagli occhi blu di Cillian Murphy, che risplendono per riflettere il vuoto. L’interpretazione migliore della sua carriera, quella di un uomo diviso tra due mondi, due ideologie, due Paesi, due cuori, due donne. Un racconto che, nella definizione del suo protagonista, ti lascia interdetto, a metà tra l’orrore per un mostro e la compassione per chi si è pentito troppo tardi. Un intreccio figlio di un cinema squisitamente nolaniano, non lineare e pensato ad incastro, ma spiazzante a sufficienza per mettere insieme il puzzle e riflettere sul valore assoluto di un’opera totalizzante. E quindi, in generale, un film che è la sintesi del suo autore, la ‘summa’ del suo demiurgo in termini di forma e sostanza: il testamento che Nolan lascia a se stesso e al cinema, al punto che se questo fosse il suo ultimo lavoro sarebbe il sipario perfetto.

Gabriele Laurino – Everyeye.it

Recensioni
4/5 · Cineforum
4,5/5 Movieplayer
4,5/5 MyMovies

 

Il primo film biografico di Christopher Nolan gioca, come tipico del regista, con la struttura temporale della storia e riesce a offrire un ritratto magnetico e sfaccettato del suo geniale soggetto.

 

I PROTAGONISTI DELLA STORIA

J. ROBERT OPPENHEIMER (1904 – 1967)

Tra i fisici più influenti nella storia del Novecento, è considerato “il padre dell’atomica”. Nato in una famiglia di origini ebraiche, come molti altri che lavorarono al Progetto Manhattan, coordinò buona parte del lavoro dei gruppi di ricerca a Los Alamos, dove furono sviluppati i primi modelli di bomba atomica alla fine della Seconda guerra mondiale. Oppenheimer aveva 38 anni quando fu scelto per l’incarico e aveva accumulato una specchiata carriera accademica, occupandosi di astronomia teorica, fisica nucleare, meccanica quantistica e di relatività, argomento molto dibattuto all’epoca nella comunità scientifica. Dopo i bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki in Giappone, Oppenheimer divenne un convinto sostenitore della necessità di evitare la proliferazione di ordigni nucleari, ma rimase inascoltato. Per le sue vicinanze agli ambienti comunisti statunitensi in gioventù finì sotto inchiesta, rimanendo emarginato dalle istituzioni governative che si occupavano di nucleare. Diversi anni dopo di Hiroshima disse: «Penso che Hiroshima abbia causato più morti e sofferenze disumane di quanto sarebbe stato necessario per diventare un motivo efficace per mettere fine alla guerra». Nel film è interpretato da Cillian Murphy

 

LESLIE GROVES (1896 – 1970)

Generale dell’esercito, nel 1942 assunse il comando del Manhattan Project, l’ambizioso programma di ricerca per la costruzione di armi atomiche. Fu Groves a scegliere Oppenheimer, sorprendendo diversi colleghi e osservatori, convinto che fosse la persona giusta per dirigere i gruppi di ricerca a Los Alamos. Groves si occupò direttamente degli aspetti logistici e organizzativi di buona parte del progetto, partecipò ai gruppi di lavoro che studiavano i progressi della Germania nazista nella costruzione di una bomba atomica e collaborò alla scelta delle città giapponesi da bombardare. Nel film è interpretato da Matt Damon.

 

 

 

LEWIS STRAUSS (1896 – 1974)

Fu tra i principali esponenti della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti, costituita alla fine della Seconda guerra mondiale per trasferire parte del controllo dell’energia atomica dall’esercito ai civili. Molto influente, sostenne la necessità di costruire una bomba a idrogeno e di mantenere la massima segretezza sui piani atomici statunitensi, soprattutto nei confronti dell’Unione Sovietica. Strauss fu tra i principali critici di Oppenheimer ai tempi delle audizioni per la sua vicinanza agli ambienti comunisti statunitensi in gioventù; fu inoltre a favore della rimozione delle autorizzazioni di sicurezza per Oppenheimer, che di fatto lo estromisero da qualsiasi decisione e confronto a livello governativo sul nucleare. Nel film è interpretato da Robert Downey Jr.

 

 

JEAN TATLOCK (1914 – 1944)

Psichiatra e attivista comunista, fu fidanzata e poi amante di Oppenheimer, tanto da essere storicamente considerata il suo vero grande amore. Il loro rapporto fu centrale nelle audizioni del 1954 sulle presunte frequentazioni comuniste di Oppenheimer. La relazione amorosa durò circa tre anni, il rapporto sarebbe stato in seguito descritto come tumultuoso, ma non si sa di preciso cosa portò Tatlock a interrompere la relazione. La sua morte venne considerata un suicidio, anche se negli anni diverse persone, tra cui suo fratello, continuarono a sostenere che si fosse trattato di un omicidio politico particolarmente ben congegnato. Nel film è interpretata da Florence Pugh.

 

KATHERINE OPPENHEIMER (1910 – 1972)

Katherine Puening sposò Oppenheimer nel 1940, dopo che Tatlock aveva interrotto la relazione con lui. Puening aveva fatto parte del partito comunista statunitense, aveva un dottorato in botanica e due matrimoni alle spalle. Il primo figlio, concepito con Oppenheimer quando Puening era ancora in una precedente relazione, nacque nel maggio del 1941, mentre la loro seconda figlia nacque tre anni dopo a Los Alamos, dove la famiglia si era trasferita per seguire lo sviluppo della bomba atomica. Ebbero un matrimonio complicato con alcune storie extraconiugali, ma rimasero insieme fino alla morte di Oppenheimer nel 1967. Nel film è interpretata da Emily Blunt.

 

MGF

 

 

 

 

 

 

Regia di Claudio Bisio – Italia, 2023 – 90′
con Alessio Di Domenicantonio, Vincenzo Sebastiani, Carlotta De Leonardis

 

 

 

 

 

 

UN FILM DA RICORDARE. CLAUDIO BISIO ESORDISCE CON L’URGENZA DI CONDIVIDERE RIFLESSIONI ED EMOZIONI.

Vanda, Italo, Cosimo hanno dieci anni e, nonostante la Seconda guerra mondiale, conoscono ancora il piacere del gioco che condividono con l’amico Riccardo che è ebreo. Il giorno in cui scompare decidono che non si può attendere: i tedeschi, che devono averlo portato via con un treno, debbono essere resi consapevoli del fatto che il loro amico non ha alcuna colpa per cui essere punito. Si mettono quindi in marcia seguendo la strada ferrata. A cercare di raggiungerli ci sono Vittorio, fratello di Italo e milite fascista che ha subìto una ferita, e la suora dell’Istituto per gli orfani che ospita Vanda.

L’esordio alla regia di Claudio Bisio appartiene alla categoria di quelli che non si dimenticano.
Quando un attore famoso si cimenta nella regia i motivi possono essere diversi e, in più di un’occasione, anche legati ad un’esigenza personale e professionale che non necessariamente deve coincidere con l’interesse degli spettatori. Non è così per l’esordio di Claudio Bisio dietro la macchina da presa che ha più di un punto di contatto con quelli di coloro che nascevano come registi e sono diventati noti ed apprezzati nel panorama nazionale ed internazionale. Perché nella storia scelta, nel modo in cui è stata trasposta sullo schermo dalle pagine di un libro (di Fabio Bartolomei) e in quello in cui è stata girata, si sente l’urgenza di condividere pensieri, riflessioni (non solo, si badi bene, sul passato) ed emozioni.

Il romanzo inizia con questa frase: “Cosa stia accadendo di preciso lì fuori, Cosimo non lo sa. È nell’età in cui le risposte si cercano nello sguardo dei genitori o, nel suo caso, del nonno“. Bisio, con il suo co-sceneggiatore Fabio Bonifacci, ha fatto propria questa frase costruendo una favola che, come tutte le favole che si rispettino, abbia in sé innumerevoli elementi di verità. Perché i tre protagonisti, come ogni bambino, hanno mutuato la lettura della realtà da chi li ha educati. Se Cosimo ha un padre al confino e un nonno che vuole evitare ulteriori guai e Italo ne ha uno decisamente fascista, Vanda di padri (e di madri) non ne ha o, meglio, ne ha una che non avrebbe il diritto di esserlo: suor Agnese. A lei si aggiunge il fratello di Italo ‘eroe’ ferito in guerra. Le divisioni degli adulti non riescono però a scalfire l’innocenza dei piccoli. L’amicizia va oltre l’ideologia mettendola in secondo piano. Bisio guarda ai suoi giovanissimi e straordinari protagonisti con il desiderio di fare un film che arrivi al pubblico più vasto senza però scegliere soluzioni facili o scorciatoie narrative anche quando modifica, come è necessario fare, elementi anche importanti del romanzo. Si sente in lui la capacità di creare coesione al progetto che solo i bravi attori riescono ad ottenere da coloro che hanno scelto per trasformare la loro visione in gesti, parole, esternazione di sentimenti.

Si comprende anche come abbia alle spalle una profonda conoscenza della commedia italiana degli anni Sessanta (e non solo) di cui coglie, in alcune scene, lo spirito senza per questo né fare falsi omaggi né realizzare copie conformi. Si consente inoltre anche un paio di battute che lo spettatore più accorto saprà decodificare con divertimento in un’Europa che dal febbraio 2022 è tornata a doversi misurare con la
concretezza di una guerra: in questo senso il film si trasforma in un ammonimento. Lo fa però senza prediche e conservando una struttura binaria decisamente efficace. Se da un lato seguiamo alternativamente l’incedere dei bambini e di chi li vorrebbe raggiungere per riportarli indietro, abbiamo anche l’alternanza tra situazioni divertenti che strappano sorrisi e risate ed altre in cui un profondo senso di umanità si trasforma in commozione senza forzature.
Ognuno di noi ha avuto nella vita il suo momento di passaggio in cui ‘non è stato/a bambino/a’. Qualcuno però sa ancora rinvenire dentro di sé l’innocenza, lo sguardo comunque ancora aperto alla meraviglia che è proprio di quell’età, nonostante tutti i possibili condizionamenti. Bisio c’è riuscito e ha trovato anche il modo migliore per comunicarlo.

Giancarlo Zappoli – MyMovies

L’ultima volta che siamo stati bambini è un’elegia all’amicizia in tempo di guerra e a quella difficile, bellissima lotta che è – in qualsiasi epoca – crescere e diventare adulti. Nel primo film di Claudio Bisio regista, tratto dal libro di Fabio Bartolomei, troviamo
una storia che valeva la pena raccontare.

RECENSIONI
3,3/5 MYmovies
3/5 Movieplayer
3/5 Cinefilos.it

 

LA RAZZIA DEGLI EBREI DI ROMA

Alle 5,30 di sabato 16 ottobre 1943 nelle vie dell’ex ghetto e in altri quartieri di Roma ha inizio la Judenaktion, una delle pagine più terribili della guerra e del fascismo in Italia. L’esplicita richiesta di Hitler e Himmler è il rastrellamento e la deportazione dell’intera comunità ebraica di Roma, la più antica d’Europa e, insieme con quella triestina, la più grande d’Italia.
Alle 14 del «sabato nero» l’operazione è terminata: 1259 fra donne, uomini, vecchi e bambini sono ammassati al Collegio militare della Lungara. Vi restano fino alla mattina di lunedì 18, a eccezione di 237 prigionieri che, classificati come «stranieri» nell’orribile schema persecutorio – vale a dire componenti di unioni fra cristiani ed ebrei, figli di genitori non soltanto ebrei e pochi altri casi – vengono liberati.

 

Dopo più di quattro giorni di viaggio i ventotto vagoni bestiame su cui sono stati caricati giungono ad Auschwitz-Birkenau dove, per l’occasione dell’arrivo degli «ebrei del Papa», è presente sulla Judenrampe il comandante del campo Rudolf Höß.
Per la maggior parte dei prigionieri, 820, i tedeschi decretano la morte immediata nelle camere a gas mentre 149 uomini e 47 donne sono avviati ai lavori forzati.
La deportazione degli ebrei italiani, avviata il 16 ottobre e proseguita in tutto il paese nei mesi successivi, rappresenta l’inevitabile punto d’arrivo del tragico percorso intrapreso dallo stato italiano nel 1938 con l’introduzione delle leggi razziali, grazie alle quali si realizza, tra le altre nefandezze, quel censimento degli ebrei che sarà molto utile ai nazisti per compiere i loro rastrellamenti. Treni carichi di ebrei italiani giungeranno ad Auschwitz-Birkenau, centro di sterminio per i deportati dell’Europa meridionale, fino al 28 ottobre 1944.

 

Fino all’estate 1943 questo scenario era sembrato lontano. L’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica Sociale sono i lampi che squarciano definitivamente le illusioni delle comunità ebraiche italiane di vivere in un paese in cui l’antisemitismo è meno radicato e violento rispetto all’Europa orientale, da cui giungono voci cui nessuno vuole credere, e di risiedere in una città che può contare sull’«ombra» protettiva del Papa.
La gioia per la caduta del regime fascista, il 25 luglio, lascia presto il campo alla preoccupazione e, non appena Roma si riempie di truppe tedesche, l’aria si fa pesante. Il 26 settembre il comandante della Gestapo a Roma, Herbert Kappler, convoca i rappresentanti della comunità ebraica, Foà e Almansi, minacciando deportazioni in caso della mancata consegna di 50 chili d’oro entro due giorni.

 

Grazie alla solidarietà della cittadinanza romana l’oro viene consegnato ma nei giorni seguenti il saccheggio continua: dal Tempio Maggiore, dalle biblioteche della Comunità e del Collegio Rabbinico le SS prelevano antichi manoscritti e incunaboli insieme ad altri oggetti di inestimabile valore culturale, nel totale silenzio delle autorità italiane e cattoliche. I numerosi episodi di coraggio e solidarietà dimostrati da singole persone non bastano a lavare l’onta della complicità italiana nei saccheggi e nelle deportazioni: ufficiali di polizia italiana supportano le operazioni prima, durante e dopo il 16 ottobre, nelle settimane successive si moltiplicano le delazioni e le denunce mentre la RSI ordina l’arresto di tutti gli ebrei e l’internamento nei primi campi di concentramento italiani come quello di Fossoli.

Alla fine della guerra su 2091 deportati da Roma fanno ritorno 78 uomini e 28 donne. In un anno nel lager di Auschwitz-Birkenau arrivano più di 6500 cittadini italiani, 5578 per non fare mai ritorno.

Fonte: Museo Nazionale della Resistenza

 

IL LIBRO DIETRO AL FILM

L’ULTIMA VOLTA CHE SIAMO STATI BAMBINI di Fabio Bartolomei

Per ribellarsi alle leggi della guerra bisogna essere folli. O bambini.
Un romanzo emozionante fino all’ultima pagina, personaggi dalla vitalità contagiosa che vivranno a lungo nel cuore dei lettori di tutte le età.

Un bel libro, con dei personaggi che crescono e prendono consapevolezza della loro vita e mettono in dubbio tutte le loro certezze.

Dall’epilogo:
TRA LE 2091 PERSONE DI RELIGIONE EBRAICA DEPORTATE DURANTE L’OCCUPAZIONE DI ROMA C’ERANO ANCHE 281 BAMBINI. NESSUNO DI LORO È TORNATO.

 

Fabio Bartolomei è nato nel 1967 a Roma, dove vive. Scrittore poliedrico, è un affermato pubblicitario e autore di sceneggiature. Nel 2004 ha vinto il Globo d’Oro con il cortometraggio Interno 9. Nel 2011 si è fatto conoscere dal pubblico dei lettori con il suo romanzo Giulia 1300 e altri miracoli da cui è stato tratto il film Noi e la Giulia, diretto da Edoardo Leo. Insegna scrittura creativa. La banda degli invisibili è del 2012.

Altre sue opere sono We Are Family, Lezioni in Paradiso, La grazia del demolitore, L’ultima volta che siamo stati bambini, da cui è stato tratto un film con la regia di Claudio Bisio, e le novelle che compongono la Quadrilogia della famiglia, ovvero Morti ma senza esagerare, Diciotto anni e dieci giorni, Tutto perfetto tranne la madre, Il figlio recidivo e infine nel 2023 pubblica il romanzo I qui presenti.

 

 

MGF

GLI ASSASSINI DELLA TERRA ROSSA

 

Negli anni Venti la popolazione più ricca d’America erano gli indiani Osage dell’Oklahoma: nel momento in cui gli idrocarburi stavano per diventare la risorsa più importante del pianeta, sotto il loro suolo furono trovati enormi giacimenti. Giravano in auto di lusso, vivevano in case faraoniche, mandavano i figli a studiare nelle migliori scuole d’Europa.
Poi, a uno a uno, iniziarono a morire ammazzati, avvelenati, vittime di agguati e imboscate, sempre in circostanze misteriose. E in questo strascico di ‘vecchio west’  chiunque osasse investigare finiva anch’egli sottoterra.
Quando le morti superarono le due dozzine il caso fu preso in mano dall’FBI, appena nato, diretto da un giovane e ancora inesperto J. Edgar Hoover. Fu messa insieme una squadra di investigatori di origine indiana: si infiltrarono, alcuni finirono male, comunque adottarono tutti i mezzi più o meno leciti a loro disposizione per portare alla luce una cospirazione agghiacciante.
David Grann, dopo anni di ricerche, ci consegna questa vicenda che è riuscito a trasformare in un libro mozzafiato, da leggere come un thriller, una spy story. Un brillante scorcio di una maledetta storia americana.

«Gli assassini della terra rossa è splendido, una storia di avidità, omicidi e razzismo che porta alla luce un episodio rimosso di storia americana. David Grann è uno scrittore eccezionale e questo è il miglior libro che abbia mai scritto.» – Jon Krakauer

«David Grann porta alla luce una serie impressionante di omicidi avvenuti quasi un secolo fa nel racconto potente di un capitolo tragico e dimenticato della storia del west.» – Jon Grisham

«Se Gli assassini della terra rossa fosse un romanzo si resterebbe stupefatti dalla capacità di David Grann di creare una trama così intrigante e ricca di colpi di scena. Ma è una storia vera, scritta dopo anni di meticolose ricerche, ed è proprio questo che lo rende un mystery affascinante e un’indagine nel cuore nero dell’uomo. » – Kate Atkinson

«Un ‘thriller’ sconvolgente. Da grande narratore, David Grann sa come far rivivere epoche e delitti del passato e rivela una vera e propria cospirazione ai danni di una nazione indiana.» – USA TODAY

DAVID GRANN

 

David Grann è una firma della prestigiosa rivista New Yorker e scrive per il New York Times Magazine, The Atlantic, il Washington Post e il Wall Street Journal. Il suo primo libro, Civiltà perduta, è diventato un bestseller da oltre mezzo milione di copie e un film, ed è stato pubblicato in Italia da Corbaccio, che ha pubblicato anche Il demone di Sherlock Holmes, Il vecchio e la pistola (da cui è stato tratto un film con Robert Redford) e Gli assassini della Terra Rossa, che è diventato Killers of the Flower Moon diretto da Martin Scorsese con Leonardo DiCaprio, e L’oscurità bianca.

 

 

 

SUNDOWN

Challenge Windzer, il sangue misto protagonista di questo avvincente romanzo autobiografico, è nato all’inizio del XX secolo “quando il dio dei grandi Osage dominava ancora sulle praterie selvagge e sulle colline del blackjack” del territorio nordorientale dell’Oklahoma. Definito da suo padre come “una sfida ai diseredatori del suo popolo”, Windzer trova difficile realizzare il suo destino, nonostante i soldi del petrolio, l’istruzione universitaria e le opportunità offerte dalla Grande Guerra e dai ruggenti anni Venti. I critici hanno elogiato generosamente Sundown , sia come opera letteraria che come scordio sul passato dei nativi americani.

JOHN JOSEPH MATHEWS

John Joseph Mathews (1894–1979) è uno degli autori del XX secolo più venerati dell’Oklahoma. Un indiano Osage, fu anche uno dei primi autori indigeni a ottenere fama nazionale. Eppure la fama non arrivò facilmente a Mathews e la sua personalità era piena di contraddizioni.

Conosciuto come “Jo” da tutti i suoi amici, Mathews aveva un’identità sfaccettata. Romanziere, naturalista, biografo, storico e ambientalista tribale, era un vero “uomo di lettere”.

Nato nella città di Pawhuska nel territorio indiano, Mathews ha frequentato l’Università dell’Oklahoma prima di avventurarsi all’estero e conseguire una seconda laurea a Oxford. Prestò servizio come istruttore di volo durante la prima guerra mondiale, viaggiò attraverso l’Europa e l’Africa settentrionale e comprò e vendette terreni in California. Orgoglioso Osage che si dedicò a preservare la cultura Osage, Mathews fu anche consigliere tribale e storico culturale per la nazione Osage.

Come molti artisti di talento, Mathews non era privo di difetti. E forse agli occhi di alcuni critici occupa uno spazio nebuloso nella storia della letteratura. La storia raccontata nel suo romanzo semiautobiografico Sundown è anche la storia della nazione Osage, dello stato dell’Oklahoma e dei nativi americani nel ventesimo secolo.

MGF