Regia di Martin Scorsese – USA, 2023 – 206′
con Leonardo DiCaprio, Lily Gladstone, Robert De Niro

 

 

 

 

 

 

 

OMICIDIO, TESTIMONIANZA, COLPA

Ispirato al libro di David Grann Gli assassini della terra rossa, Killers of the Flower Moon è ambientato nell’Oklahoma degli anni ’20. Se nel
romanzo il punto di maggior interesse è la nascita dell’FBI, con il personaggio dell’agente Tom White al centro di tutto, a Scorsese invece non interessa molto la legge. E soprattutto non una crime story come tante. No. Il regista di New York vuole il sangue e il sudore, il marcio, le contraddizioni. Non un uomo integerrimo col distintivo.
Ecco quindi che Scorsese sposta il punto di vista al viscido e mediocre Ernest Burkhart. DiCaprio non è mai stato così sgradevole: proprio come chi, per convenienza e mancanza di talento, segue un capo sempre e comunque, non fermandosi di fronte a crimini terribili e negando la verità fino all’ultimo, anche davanti all’evidenza. Perché in realtà sta mentendo a se stesso. Il capo in questione qui è William Hale (Robert De Niro), che, come prima cosa, dice sia a Ernest che agli spettatori: “puoi chiamarmi zio, o puoi chiamarmi re”, mettendo subito in chiaro come stanno le cose.

In gioco c’è il petrolio degli Osage, diventati i più ricchi cittadini americani e per questo destinati a essere sterminati dall’avidità dell’uomo bianco. In Killers of the Flower Moon Robert De Niro e Leonardo DiCaprio, gli attori simbolo di Scorsese, portano su di sé il peso dell’intera filmografia del regista. E anche del peccato originale degli Stati Uniti: il sogno americano non soltanto è un miraggio, ma è un incubo pagato col sangue dei non bianchi. Ernest viene infatti spinto dallo zio a sposare Mollie (Lily Gladstone), ricca Osage che, come le sue tante sorelle, soffre di diabete. Tutte le donne della sua famiglia, non sanno nemmeno loro bene perché, sono attratte da uomini bianchi, che le hanno sposate per interesse in modo da mettere le mani sulla loro eredità.
Quando incontra Ernest, Mollie ammette che ricorda un coyote: “il coyote vuole i soldi”, gli dice.
E anche Ernest ama Mollie, ma non riesce a sottrarsi alla volontà di Hale, dissociando completamente la sua parte legata alla moglie da quella pronta a sterminare un’intera popolazione semplicemente perché “ha fatto il suo tempo”. È questa la complessità che interessa a Scorsese, è questo il più grande dei misteri: le contraddizioni dell’animo umano.
C’è tutto il cinema di Scorsese in Killers of the Flower Moon: è un gangster movie, un film spirituale, un western, un crime. In 3 ore e 30, che scorrono magnificamente, il regista ripercorre tutta la sua carriera, questa volta assumendosi la responsabilità del mondo che ha sempre raccontato. Lui mostra i criminali, gli uomini affamati di potere, ma mai come questa volta ne è lontano: li rappresenta ottusi, senza nessun fascino. Il centro emotivo e morale sono invece Mollie e le sue sorelle: nella dignità della donna, nella sua capacità di rispondere con empatia
alle persone che la circondano, è lei la vera ricchezza della Nazione Osage, sprecata e calpestata da chi non riesce a capirlo. Lì dove Mollie è la speranza, la vita, Ernest è l’autodistruzione. Come un veleno, il capitalismo ha reso malata la società americana.
Killers of the Flower Moon è grande anche grazie al ricco e magnifico cast. De Niro è alla prova migliore da anni, DiCaprio evoca Brando, quello più logoro e decadente, Lily Gladstone è perfetta e già in lizza per una nomination all’Oscar.
“Le persone se ne fregano” dice un personaggio. Una cosa che invece sarà sempre al centro di tutto sono le storie: come nello splendido finale, in cui Scorsese sembra dire “i fatti sono questi, ma c’è sempre un punto di vista interessante da cui raccontarli“. E il suo è sempre stato quello più difficile e scomodo. Scorsese ha il coraggio di essere se stesso, senza paura. Nel bene e nel male.7

Valentina Ariete – Movieplayer.it

Recensioni
9,5/10 IGN Italia
5/5 Cineforum
9,5/10 Everyeye Cinema

GLI OSAGE

Agli inizi del XX secolo, in un territorio desolato e poco ospitale, la vita dura e stentata di un popolo di nativi americani, gli Osage, sembrò trasformarsi in una favola: la scoperta del petrolio sotto il territorio della loro riserva li fece diventare le persone con maggiore ricchezza pro capite al mondo.
Finché non cominciarono a essere assassinati…Fine della favola e inizio di una storia di violenza, soprusi e insabbiamenti che, anche negli Stati Uniti, pochi ricordano. Eppure, quando i morti ammazzati arrivarono a superare le due dozzine, si occupò del caso un’organizzazione anticrimine appena nata, il Bureau of Investigation, che sarebbe poi diventata l’FBI.

 

Gli Osage, che durante il periodo di colonizzazione francese erano diventati una nazione potente grazie al commercio di pellicce e schiavi, si trovarono a essere cacciati dai loro territori, quando questi entrarono a far parte degli Stati Uniti.
Nei primi anni ’70 del XIX secolo, dopo essere stati sempre più sospinti verso ovest, agli Osage venne assegnato un territorio roccioso e poco coltivabile, in quello che oggi è l’Oklahoma.
A cavallo del nuovo secolo, proprio sotto quella sterile terra apparentemente senza valore, furono scoperti dei giacimenti di petrolio. Per estrarre il prezioso oro nero, i petrolieri dovevano pagare i diritti di sfruttamento a ciascuno dei 2000 membri della tribù, e ai loro successivi eredi legali, anche se non appartenenti alla Nazione Osage.
La tribù divenne improvvisamente “la nazione più ricca, il clan o gruppo sociale di qualsiasi razza sulla terra, compresi i bianchi, uomo per uomo”.

Gli Osage viaggiavano per la contea su automobili con autista (bianco), personalizzate con iniziali in oro. Mandavano i loro figli in prestigiosi college, spendevano mille dollari (di allora) al mese per fare la spesa.
Tutti i membri, indistintamente, godevano di quella ricchezza (nel 1923 complessivamente la tribù ebbe un reddito pari a 400 milioni di dollari odierni), anche le donne, che avevano, e hanno, pari diritti tra gli Osage. Il territorio della riserva era stato infatti diviso fra ciascun appartenente alla tribù, bimbi piccoli compresi.

Ritenendo che gli Osage non fossero in grado di gestire tutta quella ricchezza, per via dei pregiudizi razzisti, il Congresso degli Stati Uniti approvò una legge che prevedeva l’assegnazione di un tutore a ogni persona che aveva «almeno il 50 per cento di sangue Osage». Gli altri potevano gestire le proprie finanze autonomamente, a meno che non fossero minori, a cui veniva assegnato un tutore indipendentemente dalla loro discendenza e anche se i genitori erano ancora vivi. I tutori erano di solito avvocati o uomini d’affari bianchi trasferitisi nella zona, che iniziarono ad approfittarsi della legge per arricchirsi a discapito degli Osage. Alcuni tutori però non si limitarono a questo, e iniziarono a uccidere o a ordinare l’omicidio degli Osage che erano stati affidati loro, in modo da ereditarne le terre. Solo fra il 1921 e il 1923 ci furono 13 morti sospette o palesi omicidi di uomini e donne Osage che avevano un tutore, ma entro il 1925 i morti erano diventati diverse decine. Spesso le persone venivano avvelenate o uccise a colpi di pistola, ma in un caso fu anche fatta esplodere una bomba in una casa. A uccidere le donne erano spesso i loro mariti bianchi. Dato che l’eredità di un Osage, prima di andare al tutore bianco, passava ad altri famigliari, furono anche uccise intere famiglie. I giornali del tempo chiamarono questo periodo il “Regno del Terrore”.

Per accedere allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio si tenevano regolarmente delle aste nella città di Pawhuska, e all’ombra di un grande albero (poi chiamato Million Dollar Elm) petrolieri rampanti come JP Getty e Frank Phillips si contendevano le concessioni a suon di milioni di dollari. Insieme ai soldi arrivò anche “il regno del terrore di Osage”. Nel 1921 una donna della tribù, Anna Brown, fu trovata morta in fondo a un burrone; nel 1925, quando l’FBI iniziò le indagini, 60 ricchi indiani erano stati assassinati, e le loro terre erano state affidate, guarda caso, ad avvocati o a uomini d’affari locali.

 

C’erano molti modi per uccidere gli indiani e prendere i loro soldi: stipulare una polizza assicurativa e poi eliminare il contraente, assoldando qualche piccolo delinquente per la modica cifra di 500 dollari e un’auto usata; si poteva mettere del veleno nel liquore che bevevano al pub, contando sulla benevolenza del medico legale, che avrebbe archiviato le morti come accidentali, per uso di whisky contaminato.
Oppure si poteva contrarre un conveniente matrimonio: per mantenere il controllo del territorio all’interno della tribù, le quote di proprietà non potevano essere vendute dagli Osage ai coloni bianchi, che però potevano ereditarle. Questo spiega perché all’epoca ci furono tanti matrimoni misti.
Mollie Burkhart, per esempio, si era sposata con un colono bianco, Ernest Burkhart. Sua sorella, Anna Brown, scomparve in una notte di maggio del 1921, e il suo corpo fu poi trovato in fondo a un burrone. Due mesi dopo morì la madre di Mollie e Anna, probabilmente avvelenata. C’era poi una terza sorella, Rita, che morì nell’esplosione della sua casa, insieme al marito e alla cameriera.
Se qualcuno cercava di indagare sulle morti sospette, veniva fatto fuori, come accadde all’avvocato WW Vaughan, che fu gettato da un treno in corsa. Il petroliere Barney McBride, che aveva accettato di farsi portavoce degli Osage per richiedere l’intervento dell’FBI, fu ucciso con venti pugnalate.

Alla fine, il direttore del Bureau of Investigation mandò a indagare un ex ranger del Texas, Tom White, che si servì di agenti sotto copertura, tra i quali c’erano anche dei nativi. White scoprì che molte delle vittime erano morte in seguito a un orrendo piano ben orchestrato. Ernest Burkhart, marito di Mollie, era nipote di William K. Hale, il “diavolo” che si era autoproclamato “Re delle colline di Osage”, mente del complotto organizzato per impossessarsi delle ricchezze della tribù attraverso gli omicidi.

 

Alla morte della madre e delle sorelle, oltre che di un altro parente, Mollie ed Ernest ereditarono una fortuna. La donna non sarebbe sopravvissuta a lungo (presentava i primi sintomi da avvelenamento) se White, nel 1926, non avesse arrestato Burkhart e Hale, insieme ad altri complici. Burkhart, Hale e altre due persone furono processate per singoli omicidi, e tutti condannati all’ergastolo, nel 1929. Peccato che poi nessuno di loro finì i suoi giorni in prigione…
Purtroppo, rimasero irrisolti numerosi casi di omicidio, in particolare quelli di donne sposate con uomini bianchi, mentre si suppone che molte morti furono archiviate come naturali o suicidi, quando le vere cause erano altre: avidità, invidia e disprezzo. Uno degli accusati si giustificò dicendo che “i bianchi dell’Oklahoma non ci pensavano a uccidere un indiano più di quanto facessero nel 1724”. Secondo il Ministero della Giustizia, quello di Osage fu “il capitolo più sanguinoso della storia del crimine americano”.

GLI OSAGE OGGI

 

Negli anni ‘30 John Joseph Mathews scrisse il romanzo “Sundown” (1934), che affrontava le sfide culturali che la tribù stava affrontando a causa dell’incursione della modernità nelle loro tradizioni. Durante gli anni ’60 e ‘70, molti Osage si unirono alle marce per i diritti civili e divennero attivi nella difesa dei loro diritti tribali.

 

 

 

Negli anni ’90, gli Osage guadagnarono attenzione a livello nazionale quando decisero di riacquistare parte delle loro terre ancestrali.
Nel 2004, la tribù ottenne il controllo diretto delle proprie risorse finanziarie dopo anni di sforzi e trattative. Questo passo segnò un importante passo verso l’autodeterminazione e la sovranità tribale.
Negli ultimi anni, la tribù Osage ha continuato a investire nelle infrastrutture e nei servizi per la comunità, inclusi programmi di istruzione, assistenza sanitaria e programmi culturali.

 

 

 

 

La loro nazione rimane impegnata nella tutela della lingua Osage, promuovendo corsi di apprendimento e iniziative di conservazione linguistica.
Oggi la Nazione Osage è una tribù federalmente riconosciuta negli Stati Uniti. Attualmente la maggior parte degli Osage vive nella Riserva Osage che corrisponde alla Contea di Osage nello stato dell’Oklahoma.

 

 

 

Fonti varie

MGF

 

COMANDANTE
Regia di Edoardo De Angelis – Italia, 2023 – 120′
con Pierfrancesco Favino, Massimiliano Rossi, Johan Heldenbergh

 

 

 

 

 

IL GIUSTO E LO SBAGLIATO NELL’ABISSO DELLA STORIA

Nell’oggettività storica, che resta fondamentale, il film di Edoardo De Angelis potrebbe essere meno controverso di ciò che mette in scena,
prendendosi la briga di raccontare una storia – o meglio un personaggio – estremamente interessante, appartenuto ad un’altra epoca e ad
un’altra Italia. È meno controverso di ciò che sembra, perché dietro l’altisonante titolo, Comandante, viene messo in scena il confine sfocato
tra il giusto e lo sbagliato (dettato dalle gesta, e non dagli ordini militari), in un contesto storico in cui il male imperversava sul bene.

Epoca di guerre mondiali, di ideologie, di popoli gli uni contro gli altri, in cui le leggi del potere incrinavano le leggi divine.
Avvolto da una coltre cupa, quasi horror, e volutamente claustrofobica, Comandante riporta in superficie nobiltà disobbedienti e lo spirito umano, nel bel mezzo di un conflitto terrificante. Ma ogni guerra è fatta dalle storie degli uomini, pedine di uno scacchiere in cui il potere schiacciava qualsiasi bagliore di luce. La stessa luce che De Angelis risucchia nelle profondità dell’Oceano, solcato da un “pesce d’acciaio” pieno di “uomini che vanno a morire”. Uomini che De Angelis tratteggia come se fossero un sunto dell’Italia, pregi e difetti compresi. C’è l’umanizzazione, quindi, ma c’è anche la presa di coscienza di narrare una storia inerente al contesto storico, ma in qualche modo avulsa per
l’umore e le caratteristiche del suo ingombrante protagonista, sorretto da un fascino cinematografico che catalizza l’attenzione. Fascino dovuto anche alla presenza di Pierfrancesco Favino, che indossa la maschera con l’accento veneto di Salvatore Todaro, comandante del
sommergibile Cappellini della Regia Marina.

Siamo nel 1940, e mentre risale l’Atlantico, passando lo Stretto di Gibilterra, si imbatte in un mercantile battente bandiera belga. Scontro a fuoco, missili che fischiano, l’oceano che ribolle. Esperto marinaio, uomo di mare, Todaro affonda la barca e, seguendo le leggi auree del mare, salva i ventisei superstiti, portandoli poi verso il porto sicuro più vicino. Un frammento di storia dimenticata, la parentesi fugace di una Guerra Mondiale portata all’estremo, in cui il gesto umano di un fascista diventa materiale per un film che sfrutta la messa in scena immersiva per addentrarsi nelle caratteristiche di un uomo ancora prima che di un militare: Todaro era un devoto alle leggi del mare, rispondendo prima alla sua coscienza, e solo dopo agli ordini del potere.

L’intento di Edoardo De Angelis in Comandante, dunque, è un pretesto per parlare di umanità, rintracciata anche dove non dovrebbe esserci. Eppure, la bellezza di un gesto compassionevole (e di rottura), soppesando i libri di storia, dovrebbe sempre essere valutato per il gesto in sé, provando – per quanto possibile – a mettere da parte il giudizio. Ciò che viene fuori allora è la moralità di un personaggio, intransigente verso se stesso e incongruente verso gli aberranti dogmi dell’asse Roma-Berlino. La solida e istantanea regia di De Angelis sfrutta l’ottimo sound
design, l’opprimente scenografia d’acciaio, e se il personaggio è chiaramente il traino, Comandante potrebbe però non approfondirlo il necessario nei suoi aspetti più arcani, nei suoi tormenti, nella sue occulte ossessioni. Ma ciò che resta alla fine di Comandante è l’analisi logica del paradigma biforcato: il giusto e lo sbagliato non hanno bandiere, non hanno colori, non hanno confini. Né ieri, né tantomeno oggi.

Damiano Panattoni – Movieplayer

Un’opera piena di significato, che ridefinisce gli equilibri di una guerra, con una straordinaria interpretazione di Favino

Recensioni
3,4/5 MYmovies
7/10 Everyeye Cinema
3/5 Movieplayer

 

SALVATORE TODARO (1908 – 1942)

Nato a Messina nel 1908 da famiglia di origine agrigentina, Salvatore Todaro cresce a Sottomarina di Chioggia, dove sviluppa la passione per il mare. La vicenda di Salvatore Todaro è straordinaria. Entrato all’Accademia navale di Livorno nel 1923, nominato guardiamarina nel 1927 e tenente di vascello l’anno successivo, dopo un corso specifico venne assegnato a un reparto idrovolanti come osservatore. Il 27 aprile 1933, a La Spezia, il suo aereo (un Savoia-Marchetti S.55) ebbe un incidente, e Todaro subì una grave lesione alla colonna vertebrale: chiese e ottenne di restare in servizio attivo, ma da allora fu costretto a portare un busto in ferro che gli causava sofferenze tali da costringerlo in casi estremi a ricorrere alla morfina. Passato ai sommergibili, nel maggio del 1937 gli venne affidato il battello costiero H.4, e poi – sempre durante la Guerra Civile Spagnola – il Macallè e il Jalea, classificati “da piccola crociera”.

 

Il 1° luglio 1940, meno di un mese dopo l’entrata in guerra del Regno d’Italia contro l’impero britannico e la Francia, Todaro fu promosso capitano di corvetta al comando del Luciano Manara; finalmente, dal 26 settembre, gli venne affidato il nuovo sottomarino oceanico  Cappellini, una delle 11 unità della classe Marcello, che rappresentava allora il meglio di cui disponesse la flotta sommergibili della Regia Marina: 73 metri di lunghezza e 1.060 tonnellate di dislocamento in emersione, armato con due cannoni da 100 mm in coperta, due impianti binati di mitragliatrici antiaeree Breda da 13,2 mm e otto tubi lanciasiluri da 533 mm, con una dotazione di 16 siluri.

 

Il Cappellini salpò da La Spezia il 28 settembre 1940 diretto alla nuova base dei sommergibili italiani a Bordeaux (nome in codice Betasom); Todaro riuscì a forzare lo stretto di Gibilterra – sfuggendo ai cacciatorpediniere britannici e ai campi minati – e iniziò la sua prima crociera atlantica il 3 ottobre. Dodici giorni dopo, alle 23:15 del 15 ottobre, navigando in superficie, il Cappellini avvistò una nave che procedeva a luci spente; Todaro decise di attaccarla, benché non fosse certo della sua nazionalità, visto che alle navi neutrali era vietato procedere in oscuramento totale: “È una nave con un cannone che naviga a luci spente in zona di guerra. Io la affondo”.

Ben presto si trovò preso di mira dal pezzo di coperta del mercantile. Il Cappellini manovrò per offrire il minimo bersaglio al nemico, contemporaneamente portando in batteria entrambi i cannoni da 100 mm, che colpirono più volte la nave, incendiandola. Finalmente Todaro poté distinguerne il nome e la bandiera: era il Kabalo, piroscafo belga di 5.186 tonnellate di dislocamento. Un mercantile di un Paese ancora neutrale.

 

Quando il Kabalo andò a fondo, gli uomini del Cappellini avvistarono prima cinque uomini in acqua, prontamente recuperati, poi una lancia con 21 persone a bordo, tra cui il comandante del mercantile, il capitano Georges Vogels. Todaro prese allora una decisione coraggiosa, che andava contro gli ordini cui dovevano attenersi i sottomarini in zona di guerra: non abbandonare i naufraghi, ma rimorchiare la scialuppa fino al porto sicuro più vicino, nelle Azzorre, distante quasi 400 miglia. Per procedere più rapidamente, Todaro fu costretto dopo un giorno di navigazione ad accogliere a bordo tutti i superstiti del Kabalo, molti sistemati nella falsatorre di coperta: da quel momento il Cappellini procedette in condizioni di sovraffollamento tali da impedire l’immersione, una scelta che esponeva il sommergibile alla distruzione certa qualora avesse incontrato unità di superficie o aerei nemici. Cosa che accadde davvero il mattino del 18 ottobre, quando incrociò la rotta di un convoglio inglese: ma Todaro, dopo essere stato bersagliato da una delle navi di scorta, trasmise un messaggio in chiaro in cui spiegava la situazione – aveva naufraghi belgi a bordo, e stava navigando per portarli in salvo, quindi chiedeva… una tregua. Il commodoro britannico si fidò di lui, diede ordine di cessare il fuoco e lo lasciò passare.

Il Cappellini raggiunse le Azzorre all’alba del 19 ottobre; tutti i superstiti del Kabalo vennero sbarcati sani e salvi e sopravvissero alla guerra.

Per questo venne redarguito dal comandante in capo dei sommergibilisti tedeschi, Karl Dönitz, che lo apostrofa con l’epiteto di “Don Chisciotte dei mari”. La replica di Todaro è secca: “Sono un italiano, ho duemila anni di civiltà sulle spalle, e queste cose continuerò a farle”.

Dopo una seconda crociera in Atlantico, durante la quale affondò prima il mercantile armato Shakespeare (5 gennaio 1941) e poi il piroscafo Eumaeus, adibito al trasporto truppe (14 gennaio 1941), entrambi britannici ed entrambi a cannonate (Todaro era uno strano sommergibilista, visto che si fidava poco dei siluri), chiese e ottenne di essere trasferito alla Xa flottiglia MAS. Nonostante i successi, e i pericoli costanti delle operazioni nell’oceano, Todaro cercava un altro tipo di combattimento: era fatto per guidare uomini e mezzi all’assalto in superficie, e poté farlo durante il duro assedio di Sebastopoli, in Crimea, dove si guadagnò la terza medaglia d’argento al valore militare (giugno 1942).

Rientrato brevemente in patria, nel novembre 1942 venne assegnato al comando del motopeschereccio armato Cefalo che operava dall’isola di La Galite, a nord della costa della Tunisia: qui pianificò un audace attacco contro la base nemica di Bona. Al termine della missione, mentre rientrava in porto, nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1942 il Cefalo venne mitragliato a bassa quota da uno Spitfire britannico. Todaro rimase ucciso da una scheggia. Il comandante, cui venne conferita la Medaglia d’oro al Valor militare alla memoria, è sepolto a Livorno, dove abita la seconda figlia, venuta alla luce dopo la sua morte. Il suo ricordo e il suo esempio sono vivi nella Marina militare grazie al sottomarino S-526 Salvatore Todaro, entrato in servizio nel 2006.

Di personalità poliedrica e anticonformista, Todaro era monarchico convinto e cattolico osservante ma aveva anche approfondito pratiche eterodosse ed esoteriche come lo yoga, l’occultismo e lo spiritismo, delle quali si serviva durante le missioni. È stato soprannominato “Mago Baku” dall’equipaggio sul Cappellini a causa delle intuizioni improvvise grazie alle quali è riuscito più volte a salvare l’imbarcazione.
Sposato nel 1933 con Rina Anichini, ha avuto due figli: Gian Luigi(1939-1992) e Graziella Marina (1943), nata pochi mesi dopo la sua morte.

A lui sono intestate una piazza e una scuola primaria di Chioggia. Nel 2023 la Fondazione Gariwo lo ha inserito nell’Enciclopedia dei Giusti dell’Umanità e un olivo sarà piantato in suo onore nel Giardino dei Giusti di Civitavecchia.

Alla sua morte, tra i suoi effetti personali viene rinvenuta la lettera che gli era stata scritta due anni prima dalla moglie di un marinaio dell’equipaggio di una nave nemica: “Esiste un eroismo barbaro e un altro davanti al quale l’anima si mette in ginocchio: il vostro. Siate benedetto per la Vostra bontà che ha fatto di Voi un eroe non soltanto dell’ Italia ma dell’umanità intera”

Morirò quando il mio spirito sarà lontano da me.
S. Todaro

 

Fonti: FOCUS STORIA – MARINA MILITARE – FONDAZIONE GARIWO

MGF

 

 

C’è ANCORA DOMANI
Regia di Paola Cortellesi – Italia, 2023 – 118′
con Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Emanuela Fanelli

 

 

 

 

 

UN ESORDIO AUTORIALE E DIVULGATIVO CHE È PURA EMANAZIONE DEI CODICI ETICI ED ESTETICI DELLA SUA AUTRICE.

Quando, nel 1977, Ettore Scola si intrufolò all’interno di un caseggiato popolare nei primi minuti de Una giornata particolare, lo fece in maniera lenta, calibrata, mostrandoci i dettagli della casa della protagonista, il risveglio della famiglia, le prime faccende domestiche, la colazione, tutti quei riti che sono trasferibili su un piano sociale più grande, gli usi e costumi di un’epoca lontana. Forse Paola Cortellesi aveva in mente la sua lezione quando ha girato il primo atto di C’è ancora domani, l’opera prima dell’attrice romana che ha tutto l’entusiasmo di un debutto cinematografico.
L’ambientazione è simile: le vicende del film di Scola prendono luogo nella Roma fascista, quelle della Cortellesi nella capitale alla vigilia del referendum costituzionale. Ciò che cambia, però, è l’immediata entrata in scena, con la quale Cortellesi intende mettere subito le cose in chiaro: nonostante il bianco e nero e il contesto di povertà, il suo film non vuole essere una mera imitazione dei maestri neorealisti, ma qualcosa di più. Infatti Delia (interpretata da Paola Cortellesi stessa), al risveglio riceve come prima cosa uno schiaffo immotivato dal marito (Ivano, Valerio Mastandrea), più per routine che per altro. Un inizio d’impatto, dunque, il cui effetto però non è drammatico.
Sarà l’unico schiaffo che vedremo per davvero, perché tutti gli altri episodi di violenza saranno mascherati da dei passi a due su note romantiche degli anni ’40 e ’50. È questo il tema portante del film: la violenza domestica che Delia soffre come moglie, la preoccupazione che sua figlia possa affrontare lo stesso destino. Ma anche il diritto allo studio, le piccole e grandi libertà conquistate dalle donne nel corso della storia. Il tutto raccontato con uno spirito moderno e buffo, che cerca di alleviare la drammaticità del personaggio di Delia ma senza renderlo ridicolo.
Quello di C’è ancora domani è un microcosmo di maschere e caricature, in cui ognuno gioca un ruolo ben definito: la figlia maggiore insofferente, il suocero burbero e volgare, il marito orco, le vicine chiassose, l’amica del mercato e così via. Ad essere caricaturali sono soprattutto gli uomini, in particolare il marito-padrone, e ciò forse non è il risultato di una scrittura pigra, ma una scelta ben precisa: se da un lato emerge che anche lui è “vittima”, in un certo senso, dell’educazione di un uomo ben radicato nella cultura patriarcale, dall’altro è chiaro che l’interesse di Paola Cortellesi non è esplorare le radici di una violenza sistemica, ma i suoi effetti. È porre l’attenzione sulle vittime,
insomma.
E, a ben pensarci, è anche il modo di evitare un approccio che, al netto dello spirito leggero del film, rischierebbe di rendere Ivano una figura quasi simpatica. Questo pericolo è largamente evitato, perché il personaggio di Mastandrea ne esce fuori come un uomo sentimentalmente analfabeta e fuori controllo, come l’ostacolo che l’eroina deve superare verso la sua meta finale.
Ad un certo punto, Delia riceve una misteriosa lettera. Chi è il mittente o di cosa si tratta resterà un mistero fino alla fine del film, quando, dopo averci lasciato intendere, sottilmente, che Delia stava tentando la sua fuga, in realtà la protagonista voleva semplicemente andare a votare. Nella sequenza finale, quando Delia viene scoperta dal marito dopo aver votato, un momento musicale dà piena dignità all’importanza di quel momento, al senso di sorellanza tra tutte le donne presenti, alla voglia di rivalsa che no, non porta definitivamente via
Delia da quella prigione domestica. Ma il senso di vincita c’è comunque, per fortuna.
C’è ancora domani ha tutto l’entusiasmo di un’opera prima, tra ispirazioni artistiche e voglia di giocare con diversi linguaggi cinematografici.
Leggero e commovente, una ricetta di evidente successo.
Il segno, questo, che forse c’è ancora tanto bisogno di commozione e di belle storie al femminile.

Carmen Palma – recensione di SentireAscoltare.com

 

LE DONNE DEL ‘900 SONO STATE LE PROTAGONISTE DI UN GRANDE CAMBIAMENTO SOCIALE E POLITICO

Il Novecento è stato definito il secolo delle donne poiché in quel momento storico la vita delle donne ha subito cambiamenti radicali. Il diritto al voto, l’ingresso in politica, l’abolizione del matrimonio riparatore sono state tra le conquiste più importanti per le donne del Novecento.
Nei primi decenni del Novecento accadde qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la vita delle donne: la Prima Guerra Mondiale.

Con lo scoppio della guerra gli uomini dovettero partire per il fronte e nelle città restarono le loro mogli che giocoforza li sostituirono nella società. Quando i soldati fecero ritorno, le donne non vollero riprendere il posto che occupavano prima. Anzi. Le lotte per l’emancipazione femminile conobbero un nuovo impulso e ottennero i primi riconoscimenti.

Nel 1918 il governo britannico concesse alle donne sposate il diritto di votare alle elezioni nazionali. Dieci anni dopo il diritto fu esteso a tutte le donne. Nel 1919 furono le donne tedesche a ottenere il diritto al voto e nel 1920 le donne americane. In Francia le donne poterono votare a
partire dal 1944. In Italia il diritto al voto per le donne fu riconosciuto dalla Costituzione della neonata Repubblica Italiana promulgata nel 1946. Il passo decisivo si avrà nel 1948 quando la Dichiarazione universale dei diritti umani da parte dell’ONU considererà il voto femminile un diritto inalienabile.

La seconda metà del Novecento, segnata dalle grandi contestazioni del Sessantotto, portò alle donne nuove vittorie: l’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto e l’abolizione del matrimonio riparatore.

Le donne del Novecento che ancora oggi ricordiamo perché hanno fatto la storia sono tante in più campi. Ne citiamo solo alcune:


Emmeline Pankhurst, l’attivista e politica britannica a capo del movimento delle suffragette del Regno Unito.

 

 

 

Amelia Earhart, pilota, fu la donna che volò all’altitudine e alla velocità maggiori allora raggiunte,
attraversò in solitaria l’Atlantico nel 1932; icona femminista, scomparve nel Pacifico nel 1937.

 

 

 

Nilde Iotti, la prima donna a ricoprire la carica di presidente della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana.

 

 

 

Tina Anselmi, la prima donna ad aver ricoperto la carica di ministro della Repubblica.

 

 

 

 

 

Marie Curie, la prima scienziata della storia e la prima donna a vincere il premio Nobel.

 

 

Rita Levi Montalcini, alla quale dobbiamo la scoperta e l’identificazione del fattore di accrescimento della fibra nervosa (NGF), ha vinto il premio Nobel per la medicina.

 

 

Margaret Thatcher, soprannominata la Lady di Ferro, è stata una delle donne importanti del 900. Fu la prima donna a guidare il Regno Unito dal 1979 al 1990. Segnò un’epoca, tanto che gli anni ’80 vennero soprannominati “era thatcheriana”.

 

 

Margherita Hack, la prima donna italiana a dirigere l’Osservatorio Astronomico di Trieste dal 1964 al 1987. Oltre la scienza, Hack è ricordata anche per la sua attività sociale e politica e per le battaglie sui diritti civili.

 

 

Coco Chanel, la stilista francese più rivoluzionaria del ‘900

 

 

 

Sally Kristen Ride, la prima astronauta statunitense a raggiungere il 18 giugno 1983 lo spazio.

 

 

 

Frida Kahlo, pittrice messicana, da molti considerata il simbolo del femminismo contemporaneo.

 

 

 

Nel corso dei secoli sono state tantissime le protagoniste femminili che hanno rivoluzionato il mondo, nel campo della politica, della letteratura, della scienza.

Il nostro passato, così come il presente, è ricco di donne che hanno contribuito a scrivere pagine importanti della storia dell’umanità, in molti casi offrendo il loro genio per il progresso sociale e culturale, lanciandosi in imprese davvero titaniche. Il nostro ringraziamento va a tutte loro e al loro coraggio!

Recensioni di C’è ancora domani
3,5/5 Movieplayer
6/10 FilmTV
3,7/5 MyMovies

Paola Cortellesi fa il suo esordio alla regia con un originale dramedy in bianco e nero ambientato nel Secondo Dopoguerra. Il film è stato
premiato al Roma Film Festival ed è campione di incassi al Box Office in Italia

https://www.radiozeta.it/notizie/articoli/cortellesi-ancora-da-record-c-e-ancora-domani-supera-barbie-al-botteghino-italiano/

 

MGF

 

MISSION: IMPOSSIBLE Dead Reckoning Parte 1
Regia di Christopher McQuarrie – USA, 2023 – 163′
con Rebecca Ferguson, Tom Cruise, Hayley Atwell

 

 

 

 

 

“W A R   H A S   C H A N G E D”

La guerra è cambiata, diventa impalpabile, sottocutanea, priva di bandiere, ma non meno crudele e assoluta. La guerra è cambiata, e la premiata ditta Christopher McQuarrie / Tom Cruise, per continuare (e concludere?) la parabola di Ethan Hunt e della sua squadra all’interno dell’IMF ha scelto di tracciare un percorso preciso, chiudendo il cerchio con un dittico che possa da un lato essere antologico e dall’altro spingere l’acceleratore verso la contemporaneità più assoluta.
E’ un primo atto che mette in chiaro i toni di questa nuova avventura attraverso un villain intangibile, e proprio per questo ancor più pericoloso: un’intelligenza artificiale.

 

Senza nemmeno nascondere troppo una vena critica nei confronti dell’attualità, Dead Reckoning Parte Uno ci mette di fronte ad una delle più grandi paure che l’uomo vive al giorno d’oggi: cosa accadrebbe se un programma informatico fosse in grado di agire come un senziente, e se possedesse gli strumenti e le informazioni necessarie a controllare il mondo?
Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno continua la tradizione spettacolare della serie, ma è sia più comico, sia più drammatico dei capitoli precedenti.

Ethan infatti è afflitto dal ricordo di un lutto e il ritorno di Gabriel (che in realtà non si era mai visto prima nella serie) mieterà nuove vittime. Al tempo stesso però Ethan, che rimane pressoché invincibile, dimostra finalmente dei limiti vagamente umani e lo fa in modo sorprendente ed esilarante, soprattutto nella parte del film ambientata a Roma.

       
Qui ha luogo un inseguimento per le vie e i vicoli della città, che passa per i monumenti più celebri della capitale, dal Colosseo alla scalinata di Trinità dei Monti. Ma Ethan si trova impossibilitato a guidare al proprio meglio e Grace, che lo accompagna suo malgrado, non è un asso del volante. L’inseguimento ha così un tono comico, di un umorismo concreto, basato non sulle battute bensì sui piccoli e grandi incidenti causati dai due e sulle loro reazioni. Il tutto viene poi magnificato quando, avendo sfasciato un’auto, ne dovranno
prendere un’altra e si ritroveranno alla guida di una storica 500 gialla, un po’ come fossero Lupin III e Fujiko.

 

Ci sono poi set-piece ambientati in un aeroporto a Dubai, con le sue architetture moderne e ariose, mentre a Venezia ci si insegue per strettissime calle e si passa da party esclusivi a duelli in suggestive cornici storiche.

 

 

A spiccare è però la situazione dell’ultimo elaborato atto, ambientato su un treno che attraversa le Alpi austriache e corre verso un ponte caricato di esplosivo. Anche qui non manca la comicità, con Ethan posto di fronte a un piano davvero impraticabile persino per lui e costretto a improvvisare per raggiungere il treno. Qui, nel mentre, si consuma il consueto inganno con i personaggi mascherati tipico della serie, per poi arrivare al tropo del duello sui tetti dei vagoni mentre il treno sfreccia verso una galleria.

 

 

Tom Cruise, com’è noto, si cimenta negli stunt in prima persona e questo dà alle scene d’azione una maggior concretezza, aiutata anche da un comparto di effetti speciali che cerca soluzioni analogiche anziché abusare di CGI (Computer Generated Imagery). È notevole in questo senso anche l’impegno delle sue due nemesi, interpretate da Esai Morales e soprattutto da Pom Klementieff, che senza il pesante trucco di Mantis dei Guardiani della Galassia è quasi irriconoscibile e sfoggia una bellezza dai tratti molto particolari, oltre a una notevole ferocia nelle scene di corpo a corpo. Ciò nonostante, dal punto di vista dell’azione il capitolo precedente rimane insuperato ma quel film mancava dei tocchi leggeri che McQuarrie sembra aver finalmente trovato in questo Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno.

 

Per concludere: Mission Impossible 7: Dead Reckoning Parte Uno ha azione e ritmo da vendere, e l’impianto narrativo riesce a tenere fede allo stile più recente della saga, pur scricchiolando di più rispetto al passato. Perché stavolta il nemico è invisibile, più astratto, e per questo non sempre le svolte di trama risultano perfettamente coerenti o credibili. Ma forse per la prima volta, la saga dà segnali di stanchezza. Perché gli stunt di Tom Cruise sono meno brillanti, meno presenti.
Perché il tempo passa, a quanto pare, anche per Ethan Hunt. E il problema è tutto lì. Che gli vuoi bene comunque, eh! A Ethan, al team dell’IMF, a ciò che Mission Impossible rappresenta.

 

Recensioni varie elaborate da MariaGrazia Ferrario

In Italia al Box Office Mission: Impossible Dead Reckoning – Parte 1 ha incassato nelle prime 6 settimane di programmazione 5,2 milioni di euro e 1,7 milioni di euro nel primo weekend.

Recensioni
7/10 Everyeye Cinema
7,5/10 IGN Italia
3,6/5 Coming Soon

 

PICASSO. UN RIBELLE A PARIGI
Storia di una vita
e di un museo

Regia di Simona Risi su soggetto di Didi Gnocchi e Sabina Fedeli
con la partecipazione straordinaria di Mina Kavan

 

“Dipingere non è un’operazione estetica:
è una forma di magia intesa a compiere un’opera di mediazione fra questo mondo estraneo e ostile e noi”.
Pablo Picasso

 

“CHE BRUTTO, SEMBRA UN PICASSO!”

Quante volte abbiamo sentito, o addirittura pronunciato questa frase?
Perché sì, diciamocelo, ad un primo sguardo abbiamo tutti pensato che Picasso fosse uno che, di disegnare, proprio non era capace.
Ma soffermiamoci per un momento su ciò che sappiamo di lui, della sua vita tormentata, del solitario nella folla che ha lasciato
emergere già dagli albori della sua carriera la malinconia, la solitudine che lo tormentavano mentre si circondava di persone che sapeva non sarebbero rimaste.

Poveri in riva al mare - P.Picasso 1903
Poveri in riva al mare – 1903

Penso al periodo blu, alle sue figure smagrite e tristi, ombre dei sogni svaniti delle persone lì ritratte, così belli e così dolorosi che verrebbe voglia di infrangere il muro tra arte e vita e donare loro un abbraccio, un piccolo pensiero, qualsiasi cosa possa tingere i loro visi con dei sorrisi che sembrano ormai lontani, distanti, persi per sempre.
Picasso è un artista tra i primi che hanno vissuto il turbamento che resta ancora oggi una costante: l’arte ha perso il suo scopo primario, e cioè quello di rappresentare la realtà per come la vediamo.
E dunque, che fare quando ciò che consideri il tuo unico talento è diventato qualcosa di sostanzialmente inutile, buono sì e no a intrattenere gli amici alle feste, come muovere le orecchie o piegare i gomiti all’indietro?

 

 

 

 

Ritratto di Dora Maar – 1937

Semplice, anche se non di immediata comprensione: si cerca un modo di dare all’arte una spinta in più, quella spinta che anni più tardi Fontana ammetteva di non saper trovare, limitandosi a tagliare una tela nella speranza che qualcuno vi infilasse dentro una mano per tirare fuori un nuovo significato per l’arte.
Picasso ha tentato di inserire nell’arte una quarta dimensione: il tempo. Le sue opere sono strane, deformi, non perché Picasso fosse fuori di testa, ma perché sono immagini in movimento, frame sovrapposti della stessa immagine che si muove nel tempo.

 

 

 

Paul en Arlequin – 1924

 

 

Picasso, come sa chiunque abbia dato un’occhiata alle sue prime opere, è perfettamente in grado di dipingere immagini realistiche, ma pensiamo ora ad un corpo in movimento, immaginiamo di sovrapporre nello stesso fotogramma una piccola sequenza di filmato.
Ecco emergere due occhi sullo stesso lato del viso, passando da un profilo a un primo piano, mentre il capo viene voltato verso l’osservatore. Ecco un braccio che si allarga e si deforma, mentre si alza a ravviarsi i capelli.

 

 

 

Ecco una mano che reca una candela, dove fino ad un attimo prima c’era un cavallo che nitriva spaventato dai rumori della guerriglia.

Guernica – 1937

“Mio Dio, è orrendo”, si dice abbia commentato un funzionario di fronte al Guernica. Picasso, si racconta, gli rispose che era orrendo ciò che rappresentava.

 

Les Demoiselles d’ Avignon – 1907

 

 

Strana, difficile da interpretare, assolutamente non immediata, l’arte di Picasso integra la dimensione del tempo, ma non solo quello in cui prende vita l’immagine che dipinge: Picasso si proietta in avanti e prende in prestito un po’ del nostro tempo, quando ci sediamo a interpretare con impazienza malcelata le sue opere, quando cerchiamo di capire cosa esattamente intendeva mostrarci con quelle strane figure sulla tela.

 

 

 

 

Donna Seduta – 1937

 

È il tempo, Picasso è l’unico artista ad essersi sobbarcato il penoso compito di inserire qualcosa di impossibile come il trascorrere del tempo in un’immagine fissa, statica.
E d’altronde, se abbiamo inserito con successo la terza dimensione con l’avvento della prospettiva, perché non tentare quest’altra impresa?
E se il ticchettio dell’orologio non è evidente ad un primo sguardo, forse lo può diventare se pensiamo a quanto la frenesia del trascorrere del tempo pervade le nostre vite: sempre di corsa, sempre di fretta, sempre in ritardo, tanto che riusciamo a percepire con chiarezza solo le cose più vicine a noi, mentre tutto il resto diventa un confuso caos di figure indistinte, che ci sfiorano solamente, cambiano forma e lasciano che passiamo oltre, senza notarle, senza sentire l’urlo cupo della loro disperazione, senza capire che il loro dolore è il nostro.

 

 

Donna accovacciata – 1902

 

Di questo, a mio parere, è fatta l’arte di Picasso: di solitudine e di mancata percezione.
Lui prende anime solitarie, quelle che se ne stanno all’angolo della stanza in silenzio, le persone che hanno perso tutto e ciononostante vanno avanti, a discapito di ogni speranza, le dipinge nel loro breve arco temporale e ce le mette di fronte, ce le butta in faccia e ci costringe a guardare la bruttura della solitudine, del tempo che passa sempre uguale, mai un istante diverso dall’altro nel gorgo della disperazione.
Picasso ruba il tempo dei suoi soggetti, e ruba il nostro, nella speranza di farci comprendere che proprio il tempo, la quarta dimensione che deforma le figure, è il bene più prezioso, la ragione per cui il mondo ha la sua forma e la base della nostra vita; forse, prendendone atto potremo cominciare a goderne, invece di sprecarlo a disperarci per il suo ticchettio incessante.

 

 

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

Anarchico, straniero, rivoluzionario: a 50 anni dalla morte e a pochi giorni dalla data del suo compleanno, uno sguardo del tutto inedito sull’artista più sorprendente del Novecento. All’alba di una mattina del 1901 Picasso arriva a Parigi. Il suo futuro inizia proprio quel giorno, in quella città. Nato in Spagna il 25 ottobre del 1881, Picasso trascorrerà quasi tutta la sua vita a Parigi eppure, nella capitale francese, si sentirà spesso uno straniero, un esule, un ‘vigilato speciale’ della polizia.