Regia di Jonathan Nossiter
USA, 2020 – 126′
con Nick Nolte, Charlotte Rampling, Alba Rohrwacher
Drammatico

 

 

 

 

 

LAST WORDS È UNA FAVOLA POST APOCALITTICA MA ANCHE UN’ODE AL POTERE DEL CINEMA DI RENDERCI IMMORTALI.

Che film strano, Last Words. A tratti risulta addirittura indecifrabile, nella sua disarmante purezza d’intenti. Intenti che si sovrappongono, che si sostituiscono, che si affiancano. Al centro, un’idea ben precisa. L’arte. L’arte come salvezza, come obiettivo, come speranza. E, soprattutto, l’arte cinematografica come profonda testimonianza, in quanto “se vieni filmato, esisterai per sempre”.
Per questo, Last Words, diretto da Jonathan Nossiter, è da intendere come una sorta di lascito, affidando al cinema stesso i frammenti di una memoria interrotta. Una memoria spezzata che il regista – come può e come crede – prova a ricostruire per mezzo dello stesso cinema, a cui dedica quello che potrebbe essere definito un post-apocalittico umano, lontano dalla realtà fantascientifica ma vicinissimo alla realtà di un futuro non così lontano.
Jonathan Nossiter, il cui film sarebbe dovuto essere presente all’edizione di Cannes 2020, mozzata dal Covid, attraverso la sua – a tratti – bizzarra opera dichiara profondo amore verso la terra (tant’è che ora fa l’agricoltore) e verso la Settima Arte, elevandola quasi ad atto salvifico, a gesto miracoloso. Ma una salvezza – e quindi un miracolo – può essere possibile solo se prima c’è l’abisso più profondo. E oggi, secondo la sceneggiatura di Nossiter, firmata insieme a Santiago Amigorena (autore del libro da cui è tratto il film), l’abisso più pericoloso è anticipato dall’attuale e tutt’ora sottovalutata crisi climatica. Un mostro che incombe, inesorabile e gigantesco. È lì, sullo sfondo, un brusio fastidioso, una pioggia più intensa, un grado in più sotto il sole. Eppure, il cambiamento drammatico è in atto.

Non c’è più tempo.
Siamo nel 2086, l’anno che potrebbe segnare definitivamente la fine dell’umanità. Siccità e grandi alluvioni hanno resto la Terra un posto inospitale. Kal, interpretato dal non-attore Kalipha Touray (rifugiato gambiano, che ha “già vissuto la fine del mondo”, secondo il regista), sta vivendo “l’orrore di essere l’ultimo uomo rimasto“. Intorno a lui non c’è più nulla, né cultura, né bellezza, né natura. Tuttavia, dopo un lungo cammino, si ritrova in quella che una volta era Bologna. Nello specifico, nel luogo che una volta era la Cineteca di Bologna (intravediamo un cartello…). Qui, incontra un vecchio regista che si fa chiamare Shakespeare (si vola basso…), con il volto stropicciato di Nick Nolte. L’uomo spiega al ragazzo che l’unica strada che porta alla salvezza è quella che spinge a credere in qualcosa. Quel qualcosa è il cinema stesso.
Sarà proprio l’immaginazione, sotto forma di cinema, a salvare l’uomo, e in un certo qual modo, a salvare lo stesso film di Nossiter. Profondamente legato all’Italia, il regista statunitense sceglie numerose clip di film italiani (c’è pure Totò!) per delineare il suo concetto salvifico, facendo sì che il cinema, mezzo d’altri tempi, diventi l’innovazione in un mondo che ha perso la sua anima. Perdere e ritrovare, uno spunto notevole, dal forte carattere narrativo.

Non c’è dubbio che Last Words, per Nossiter, sia stato un film dal forte valore personale: una causa sposata in pieno, la sua carezza verso la cinematografia, un atto di speranza che possa allontanare la parola fine.
Come? Mantenendo viva la memoria, e quindi proiettandola su un telo bianco, in cui le emozioni tornano a splendere.

Damiano Panattoni – Movieplayer

 

APOCALITTICO O POSTAPOCALITTICO?

La fantascienza apocalittica e la fantascienza postapocalittica sono due sottogeneri della fantascienza aventi in comune il tema dell’apocalisse intesa come evento distruttivo e catastrofico su scala planetaria.
Si differenziano tra loro perché la fantascienza apocalittica è incentrata sull’imminenza del verificarsi di un evento apocalittico, mentre la fantascienza postapocalittica è incentrata su un mondo devastato da un evento apocalittico già verificatosi, nella sua successiva immediatezza o molto tempo dopo dall’essere avvenuto
L’ambientazione temporale del postapocalittico può essere immediatamente successiva alla catastrofe, focalizzandosi sui viaggi o sulla psicologia dei sopravvissuti, o considerevolmente posteriore, comprendendo spesso il tema della perdita della memoria storica, per cui ci si è dimenticati dell’esistenza di una civiltà precatastrofe o la sua storia è divenuta leggenda o mito. La civiltà perduta possedeva in genere un elevato sviluppo scientifico-tecnologico e poteva anche essere una civiltà basata sullo spazio.
L’uso di un contesto postapocalittico nei film e l’immaginario tipico che vi si riferisce, come i deserti sconfinati o le vedute aeree di città demolite, i vestiti fatti di cuoio e di pelli di animali, le bande di razziatori, è ormai comune.
Non sono pochi i film ambientati dopo un’apocalisse, tutt’altro.
Il cinema post-apocalittico, rispetto al cinema dell’Apocalisse, ha la fortuna di costare molto di meno, come ha dimostrato George A. Romero con la sua tetralogia degli zombie iniziata nel 1968 con La notte dei morti viventi.
Non c’è bisogno di mostrare grandi esplosioni, palazzi che crollano, alieni che invadono le strade. Il cinema post- apocalittico generalmente è piuttosto minimalista, e trova nella famiglia il suo fulcro drammatico. Basta una catastrofe qualsiasi, e un gruppo di sopravvissuti che si fa strada fra le macerie del vecchio mondo.
Alcuni racconti apocalittici e/o postapocalittici sono stati criticati perché ritenuti non verosimili o forieri di propaganda allarmista. Le opere sul tema – assieme alla saggistica – hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo del movimento moderno del survivalismo.

Tra i migliori film postapocalittici del ventunesimo secolo ricordiamo:
THE DAY AFTER TOMORROW – L’ALBA DEL GIORNO DOPO (Ronald Emmerich – 2004)
LA GUERRA DEI MONDI (Steven Spielberg – 2005)
I FIGLI DEGLI UOMINI (Alfonso Cuaron – 2006)
IO SONO LEGGENDA ( Francis Lawrence – 2007)
THE ROAD (John Hillcoat – 2009)
SNOWPIERCER (Bong Joon-ho – 2013)
OBLIVION (Joseph Kosinski – 2013)
EXTINCTION – SOPRAVVISSUTI (Miguel Ángel Vivas – 2015)
A QUIET PLACE-UN POSTO TRANQUILLO (John Krasinski – 2018)

Una bella carrellata di film che, se siete appassionati, non potrete mai dimenticare!

 

MGF

 

 

Regia di Frances O’Connor
Gran Bretagna, 2022 – 130′
con Emma Mackey, Oliver Jackson-Cohen, Fionn Whitehead
Biografico – Drammatico

 

 

 

 

L’OPERA PRIMA DELLA REGISTA INGLESE È UN SALTO NELL’IMMAGINARIO DI UNA GRANDE VOCE FEMMINILE.

In fondo, non si può fare che autobiografia. Non importa se reale o immaginaria. Contano le collisioni tra questi emisferi, e il modo soggettivo di sintetizzarle e travasarle in letteratura.
Frances O’ Connor, dopo decenni di recitazione (A.I. Intelligenza Artificiale), si piazza per la prima volta dietro la macchina da presa, per cesellare vita, tormenti, incubi e immaginazioni di Emily Brontë. Un’esistenza che si definisce in un corpo a corpo con la scrittura: una vocazione scacciata, rinnegata, poi finalmente accolta e sublimata in un romanzo epocale.
O’ Connor parte dal senso strisciante di morte che segna le tre sorelle Brontë. La scomparsa della madre ha sconquassato il maniero dello Yorkshire. Il padre padrone, reverendo Patrick le tiranneggia, prescrivendo loro una tediosa vita da insegnanti a Bruxelles. Altra mina vagante è il bizzoso Brandwel, unico figlio maschio. I due sono in simbiosi, si cimentano e si tormentano con la scrittura, urlano alle valli, scorribandano di notte in casa d’altri.
Il tappo dell’equilibrio puritano salta in aria quando vi piomba William Wieghtman. Il tenebroso, aitante pastore fa sospirare le
sorelline, dà lezioni di francese a Emily, la concupisce e l’abbandona, per senso di colpa, in balia di una passione divorante..
Tra il senso del dovere paterno e l’amore clandestino con il curato, Emily, allora, scolpisce la propria inafferrabile interiorità che O’ Connor ci restituisce in uno sventolio di primi piani intimisti per scuotere una narrazione che spesso va al piccolo trotto.
La recitazione camaleontica e nevrile di Emma Mackey si staglia, tra campi lunghi da cartolina, come uno strabordante saggio di recitazione.
Mackey l’espressionista sa riproporre tutto il tremolio emotivo della scrittrice, intestandosi con smorfiosa, sfrontata grazia, il saliscendi sentimentale della parabola. Piazzando la camera negli occhi di Emily, O’ Connor può rimbeccare di sguincio l’Ottocento anglosassone, imbalsamato in cuffiette, carrozze, brughiere, chiese e colpe da espiare. Eppure l’attrice-regista ne mantiene, fedelmente, tutte le direttrici morali, con una sensibilità rabbiosa, postmoderna, orgogliosamente femminista.
Riplasmando l’Ottocento con il Duemila e la letteratura con la biografia, lavora con l’accetta, scartando, riducendo, essenzializzando
la cronologia, asservendola allo stream of consciousness della protagonista, fatto, cinematicamente, d’un turbinio d’occhi e corse nelle
praterie e pianti e rabbia e capelli al vento. Il risultato è un film intimista, rarefatto e luttuoso, che scopre subito le carte in tavola e poi volteggia, leggiadro, tra i generi senza lasciarsi ghermire da nessuno di loro.
O’ Connor impregna ogni scena di tutta la gravità morale e sentimentale del romanzo, ma imprime alla trama un naturalismo atemporale, sgravato dalla Storia, eppure rigoroso nel denuciarne perbenismo e discriminazioni.

Davide Maria Zazzini – Cinematografo.it

 

EMILY BRONTË

Emily Brontë, nata Emily Jane Brontë, è stata una scrittrice inglese nota per il suo romanzo Cime Tempestose, in inglese Wuthering Heights. Emily è nata a Thornton ed è la quinta di sei figli. Non è l’unica scrittrice nota della famiglia Brontë: insieme a lei ricordiamo anche Charlotte, scrittrice di Jane Eyre, e Anne Brontë, autrice di Agnes, di Grey e La signora di Wildfell. Le tre scrittrici, insieme, sono conosciute con il nome di sorelle Brontë.

 

 

 

La famiglia Brontë si trasferisce a Haworth due anni dopo la nascita di Emily: saranno proprio le brughiere, tipiche del West Yorkshire, vicine a Haworth la perfetta ambientazione per la storia d’amore tra i protagonisti di Cime tempestose, Heathcliff e Catherine. La madre morì presto e il padre, un curato perpetuo che doveva occuparsi di sei figli, chiese aiuto alla governante Tabitha Aykroyd, una figura severa e intransigente che segnò l’infanzia dei fratelli.

 

Emily Brontë frequentò la Clergy’s Daughters School di Cowan Bridge, dove venne da subito notato il suo talento letterario. Ormai grande, Emily cominciò a lavorare come insegnante a Law Hill, nel West Yorkshire, ma tornò presto a casa. Insieme con Charlotte poi partì per Bruxelles, per approfondire la conoscenza delle lingue.

Una volta tornate a casa, fu Charlotte a scoprire le poesie e gli appunti di Emily. Le sorelle vivevano la loro produzione poetica come un segreto ma, dopo questa scoperta, Charlotte convinse sia Emily che Anne a pubblicare i loro lavori sotto pseudonimi – creati a partire dalle iniziali.

In seguito l’editore Newby pubblicò i tre romanzi delle sorelle e nel 1947 fu la volta di Cime tempestose di Emily Brontë che, all’inizio, non ebbe il favore della critica. Diventato oggi uno dei classici della lettetaruta mondiale, Wuthering Heights di Emily Bronte è considerato uno dei massimi esempi della letteratura vittoriana.

 

 

 

 

CIME TEMPESTOSE: L’AMORE TORMENTATO CHE RIVIVE SUL GRANDE SCHERMO

La voce nella tempesta (1939)

Di William Wyler. Protagonisti sono Laurence Olivier, nei panni del tormentato Heathcliff, e Merle Oberon in quelli di Cathy. Il regista scelse di rappresentare solamente 16 capitoli (meno della metà) trascurando completamente la storia delle nuove generazioni, della piccola Catherine e di Linton, figlio di Heathcliff e di Isabel. Una scelta probabilmente intelligente, fatta in modo da potersi concentrare unicamente sull’amore tormentato dei due protagonisti. Ottenne ben otto nomination agli Oscar, ma vinse soltanto quello per la miglior fotografia.

 

 

 

Abismos de pasión (1954)

Di Luis Buñuel. Il regista si ispirò liberamente al romanzo e scelse di cambiare un po’ la storia. I protagonisti, Alejandro (Heathcliff) e Catalina (Cathy) non sono personaggi romantici. L’ambientazione si sposta dallo Yorkshire al Messico. I passaggi più importanti e fondamentali del romanzo furono lasciati immutati. I due protagonisti si avvicinano maggiormente a quelli del romanzo; Heathcliff è rancoroso, tormentato, animalesco e non un uomo sempre composto e affascinante. Cathy non è amabile e gentile, ma viziata e capricciosa, esattamente come ci viene descritta dalla Brontë.

 

 

 

Cime tempestose (1992)

Il regista è Peter Kosminsky, gli attori Ralph Fiennes e Juliette Binoche. Tra tutti è forse il film che più si attiene al romanzo. I personaggi sembrano uscire direttamente dalle pagine del libro, li amiamo e li odiamo. Non manca niente: non mancano i giochi capricciosi di Cathy, non mancano scene bellissime tra i due amanti, seduti lontani da tutti, insieme, in mezzo alla brughiera. Non manca la rabbia cieca di lui, né i dubbi e i rimorsi di lei.

 

 

 

 

Wuthering Heights (2009)

Adattamento televisivo, diviso in due parti, del 2009. Alla regia Peter Bowker, Charlotte Riley e Tom Hardy nei panni di Cathy e di Heathcliff. In più di tre ore il regista riesce a mettere in scena tutti i 34 capitoli, mostrandoci l’infanzia e la fase adulta dei due protagonisti e la nuova generazione.

 

 

Cime tempestose (2011)

L’ultimo adattamento cinematografico dell’opera di Emily Brontë risale al 2011 e vede alla regia Andrea Arnold e come protagonisti Kaya Scodelario e James Howson. La regista affida il ruolo dell’indomabile Heathcliff a un attore nero: “Nel romazo la Bronte lo descrive come uno zingaro dalla pelle scura, negli abiti e nelle maniere un geltiluomo” . Con questa scelta la Arnold vuole affidare un ulteriore significato al Cime tempestose classico, sottolineando come l’amore tra Cathy e Heathcliff sia osteggiato principalmente per un motivo: il colore della pelle.

 

 

 

 

MGF

Regia di François Ozon – Francia, 2023 – 102′
con Nadia Tereszkiewicz, Rebecca Marder, Isabelle Huppert
Drammatico

 

 

 

 

 

UNO SMAGLIANTE MANIFESTO FEMMINISTA, PIÙ SOVVERSIVO DI QUANTO LE SUE ‘BUONE MANIERE’ LASCINO INTENDERE

Per ammissione del suo stesso autore, Mon Crime – La colpevole sono io, nuovo film di François Ozon, costituisce l’ultimo capitolo di una trilogia iniziata con “8 donne e un mistero” e proseguita con “Potiche – la bella statuina“. Questi titoli sono infatti l’adattamento di un testo teatrale d’annata, di cui viene mantenuta l’epoca di ambientazione ma che viene riletto in chiave revisionista, ovvero evidenziando gli elementi che più parlano della contemporaneità. In questo caso si tratta dell’opera omonima scritta da Georges Berr e Louis Verneuil nel 1934.
In Mon Crime, l’obiettivo del regista è riproporre atmosfere da commedia americana anni ‘30, da Lubitsch a Billy Wilder, a partire dalla
patina luccicante d’altri tempi. Nel corso del film, alcune scene sono rappresentate in bianco e nero con cartelli da cinema muto, lasciando però emergere i segni della contemporaneità. Mon Crime mette in scena una dinamica assolutamente attuale, ma rende più complessa la questione, perché le due protagoniste non sono due vittime innocenti date in pasto ai media, ma due truffatrici, che calcano l’onda
dell’omicidio per aumentare la propria fama.
Ozon dunque parte da una posizione scomoda per compiere un discorso acutissimo: assumendo il punto di vista delle due protagoniste, parteggiando per loro, porta avanti una riflessione legittima con personaggi non esemplari. Con il loro atteggiamento, Pauline e Madelaine scoperchiano tutte le ipocrisie e le falsità che stanno dietro al femminismo di facciata, a chi si fregia dell’hashtag #Metoo ma poi si comporta diversamente.
Così, l’orizzonte di Ozon è dunque sinceramente femminista, non abbellisce niente né propone soluzioni edificanti, ma anzi rende più evidenti le problematiche del contesto che rappresenta. La violenza subita dalla ragazza è un fatto reale e non viene cancellato dalla sentenza del tribunale, così come lo è il sistema oppressivo presente nell’industria cinematografica: la bugia è l’unico modo per la protagonista di fare carriera.
Così come il matrimonio è per lei l’unico di sopravvivere. La confezione da commedia brillante si scontra con la durezza della realtà.

Ma Mon Crime si può leggere anche alla luce dell’intera filmografia di Ozon, che è solito ritrarre giovani figure femminili complesse e destabilizzanti. Basti pensare al celebre Giovane e bella, dove, come nel suo ultimo lavoro, non c’era alcun giudizio morale sul prostituirsi della protagonista Isabelle, quanto invece un farsi beffe dello sguardo di chi era intorno a lei e non riusciva a comprenderla.
“Perché Ozon sembra così deliziarsi nei ritratti di crudeltà, perversione e distruzione femminile? Come lui stesso dice, è un regista che semplicemente ama le donne” , chiosava Andrew Asibong nella sua monografia dedicata al regista.
Il film a cui fa riferimento lo studioso è più precisamente il suo secondo, Amanti Criminali, che rivisto oggi trova un interessante parallelismo con Mon Crime. Protagonista è la giovane Alice, che persuade il suo passivo fidanzato a uccidere Said, un compagno campione di virilità che lei falsamente accusa di aver orchestrato uno stupro di gruppo nei suoi confronti. Ad accomunare i personaggi di quest’opera e la più recente c’è il far leva sulla visione stereotipata da parte della società. Come Madelaine e Pauline sfruttano l’immagine di attrici vittime di un produttore violento, in Amanti Criminali “la bugia dell’abuso compiuto dai suoi amici arabi della banlieue rinchiude Said nell’immaginario sessuale di fantasia dei giovani di origine araba diffuso dai principali media francesi e dalla pornografia, che si basano su cliché razziali e stereotipi dei giovani del ghetto e le loro attività depravate”.

Luca Sottimano – Ondacinema

 

IL REGISTA

FRANÇOIS OZON (PARIGI, 15 NOVEMBRE 1967)

REGISTA E SCENEGGIATORE FRANCESE

 

 

 

I film di Ozon sono caratterizzati da bellezza estetica, tagliente umorismo satirico e una visione schietta della sessualità umana. I temi ricorrenti nei suoi film sono l’identità sessuale, l’amicizia, le diverse percezioni della realtà, l’impermanenza e la morte.
Nato e cresciuto a Parigi, figlio di René Ozon, professore di biologia, e Anne-Marie Ozon, insegnante, ha un fratello, Guillaume, e una sorella di nome Julie. Da giovane inizia a lavorare come modello, ma ben presto si appassiona alla settima arte, si laurea in storia del cinema nel 1993 alla scuola di cinema La Fémis, in quegli anni inizia a realizzare un elevato numero di cortometraggi, fino al 1998, quando debutta con il suo primo lungometraggio. Sitcom, film da toni grotteschi, lo pone all’attenzione come uno dei più interessanti tra i nuovi autori del cinema francese.
La sua fama si consolida grazie a pellicole come Amanti criminali e Gocce d’acqua su pietre roventi.
Nel 2000 dirige Sotto la sabbia, primo film della cosiddetta Trilogia del Lutto, che continua nel 2005 con la pellicola Il tempo che resta e si conclude nel 2009 con Il rifugio.
Ma il successo internazionale arriva nel 2002 con 8 donne e un mistero, dove raduna diverse generazioni di attrici francesi, tra cui
Catherine Deneuve, Fanny Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Béart, Virginie Ledoyen, e grazie ad una miscela di diversi generi, che vanno dalla commedia, passando al giallo e al musical, fino al melodramma, Ozon confeziona uno dei suoi film più noti al grande pubblico.
Nel 2007 dirige Angel – La vita, il romanzo, prima produzione girata in lingua inglese, pellicola dalle ambientazione ottocentesche in cui affida il ruolo da protagonista all’attrice britannica Romola Garai. Nel 2009, invece, dirige la fiaba Ricky – Una storia d’amore e libertà, presentato alla 59ª edizione del Festival di Berlino. Nel 2010 torna a dirigere Catherine Deneuve in Potiche – La bella statuina con Gérard Depardieu e Fabrice Luchini: il film, candidato al Premio Magritte per il miglior film straniero in coproduzione, viene
presentato alla 67ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Ozon è dichiaratamente gay.

 

LA PROTAGONISTA

NADIA TERESZKIEWICZ (VERSAILLES, 24 MAGGIO 1996)
ATTRICE FRANCESE

 

 

 

Nadia Tereszkiewicz è franco-finlandese, con origini polacche.
Parla fluentemente il finlandese. Dopo aver studiato danza alla scuole Rosella Hightower e letteratura al liceo Molière di Parigi,
si dedica allo studio del teatro presso il conservatorio del XVIII° arrondissement di Parigi, prima di unirsi alla “classe libera” della
scuola di François Florent.
Debutta nel 2016 come attrice cinematografica in Io danzerò, in un ruolo secondario. Ottiene il ruolo di protagonista nel film Sauvages di Dennis Berry. Recita in Persona non grata di Roschdy Zem e in Only the Animals – Storie di spiriti amanti di Dominik Moll. Per questo ruolo riceve il premio di migliore attrice a Tokyo e fa parte delle rivelazioni al Premio César del 2020.
Nello stesso anno recita a fianco di Reda Kateb nella serie Possessions.

A proposito del suo ruolo in Possessions, dichiara: «È stata la prima volta che un regista mi ha affidato un ruolo così importante, con una vera traiettoria. È un personaggio molto fragile, che si arma di coraggio e di determinazione per tentare di liberarsi ad ogni costo. Vuole capire cosa è successo, perché l’accusano di un omicidio che lei non pensa di avere commesso. È stato necessario che trovassi una sua interiorità, un certo tipo di sensazione fisica per poterla interpretare. Ho un percorso di ballerina, il linguaggio del corpo mi interessava nella sua storia. Natalie parla poco, agisce, prende delle decisioni. Il suo corpo parla per lei».
Nel 2022 Valeria Bruni Tedeschi le affida il ruolo di protagonista nel suo film Forever Young – Les Amandiers, presentato in concorso al festival di Cannes. Interpreta l’alter-ego della regista ai tempi in cui faceva parte della scuola di teatro Les Amandiers, diretta da Patrice Chéreau e Pierre Romans. La sua interpretazione le vale il premio di migliore promessa femminile al Premio César 2023.

 

Recensioni
3,5/5 MyMovies
3/5 Movieplayer
4/5 Ciak Magazine

 

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MGF

Mercoledì 22 novembre la sala polifunzionale del nostro teatro ospiterà Sabrina Schillaci, per presentare il libro Volevo essere un supereroe – ma il costume di wonder Woman era finito, edito dalla Casa Editrice TraccePeLaMeta
Ma chi è Sabrina Schillaci?

Nata a Giussano il 9 novembre del 1968 e laureata al Politecnico di Milano in Design e Architettura d’Interni, Sabrina si sposa nel 1994 con Davide, con il quale divide l’attività professionale.
Nel 2000 aprono un negozio di mobili che diventa un punto di riferimento in Brianza.
Nel 2007 questa vita, che sembrava procedere alla perfezione, si interrompe bruscamente: un tremendo incidente al marito stravolge completamente la vita di entrambi. Un semplice tuffo in un lago, ma Davide ne riemerge tetraplegico. Inizia il pellegrinaggio fra ospedali e istituti ma la paralisi sembra essere definitiva.

 

 

 

 

Seguono anni difficili e di grande disagio anche psicologico fino al 2012 quando, grazie ad un incontro fortuito con l’Ironman di Nizza, Sabrina si rialza dalla depressione e diventa una triathleta, trovando proprio nello sport lo slancio per uscire dalla sofferenza. Diventa campionessa di Triathlon e di imprese ciclistiche legate alla beneficenza, tra cui la pedalata fino a Santiago de Compostela per supportare raccolte fondi a favore di bimbi disabili.
Nel 2017 inizia gli studi per diventare mental coach per poter aiutare gli altri ad affrontare cambiamenti importanti senza lasciarsi sopraffare dagli eventi, e nel 2018 arriva a fondare Race Across Limits.

Nel 2022 organizza i primi corsi di “Perché io me lo merito“: percorsi di crescita personale e consapevolezza dedicati alle persone in difficoltà e nel 2023 Race Across Limits diventa un’organizzazione di volontariato al servizio dei caregiver, con l’intento di far riconoscere il ruolo determinante ma anche vulnerabile di chi si prende cura di un proprio familiare non più autosufficiente.

         

A luglio 2023 diventa anche unità cinofila di soccorso nautico SICS. Con il suo fedele compagno Argon, un Labrador di 2 anni, desidera riportare a nuotare suo marito Davide e tutti i disabili come lui che, non potendo più nuotare in autonomia, necessitano di aiuto.

 

Il suo primo libro, Una sfida attraverso i limiti, sempre edito da TraccePerLaMeta, è proprio il diario del suo primo viaggio, in bici da corsa, da Besana in Brianza a Santiago de Compostela. Un pellegrinaggio di 2200km, su strade sconosciute e con perfetti estranei come compagni di avventura.
21 giorni dove ha potuto ammirare panorami fantastici, dove ha dovuto affrontare fatiche fisiche e mentali mai provate, sconfiggere paure, delusioni, problemi, ma che le hanno anche dato la possibilità di crescere, di acquisire nuove consapevolezze e condividere momenti di vera amicizia.

 

 

In questa serata ci presenterà la sua seconda fatica letteraria: Volevo essere un supereroe ma il costume di Wonder Woman era finito: scritto sotto forma di diario, in queste pagine Sabrina ci racconta dei benefici dello sport e dei poteri da supereroe che si acquisiscono praticandolo, permettendoci di sconfiggere delusioni problemi e traumi.
Una serata più che interessante, condotta dalla presidente di TraccePerLaMeta Edizioni, la Prof. Anna Maria Folchini Stabile,  a cui raccomandiamo di non mancare, per raccogliere il forte messaggio di Sabrina: anche quando tutto ci sembra destinato a finire, c’è sempre una possibilità per venirne fuori, per crescere e diventare persone più forti, consapevoli che la vita merita di essere vissuta e che noi abbiamo le capacità e gli strumenti per affrontarla al meglio e per poterci rialzare.

Per sapere tutto di Sabrina, vi lasciamo il link del suo sito:

https://sabrinaschillaci.it/

 

MGF

EDGARDO MORTARA – LA STORIA

 

 

Edgardo Mortara era un bambino ebreo, nato a Bologna il 27 agosto 1851 da Salomone (Momolo) Mortara e Marianna Padovani. La sera del 23 giugno 1858 la polizia dello Stato pontificio si presentò presso l’abitazione in Via delle Lame dove viveva con i genitori e i fratelli per prelevarlo, su ordine dell’inquisitore di Bologna, affermando che Edgardo era stato battezzato all’insaputa dei genitori.

 

 

L’inquisitore di Bologna, il domenicano Pier Gaetano Feletti (1797-1881), era venuto a conoscenza che alcuni anni prima Anna (Nina) Morisi, la giovane domestica cattolica dei Mortara, vedendo il piccolo Edgardo ammalato e credendolo in fin di vita, lo avrebbe battezzato. La ragazza aveva agito di sua completa iniziativa e, dopo la guarigione di Edgardo, che allora aveva un anno, non raccontò a nessuno il fatto. La vicenda rimase quindi senza conseguenze fino a quando, nel 1858, non riemerse fortuitamente arrivando alle orecchie dello zelante inquisitore di Bologna che decise di andare a fondo alla questione.
Secondo le leggi ecclesiastiche, che nello Stato pontificio erano anche alla base della società civile, il bambino in virtù di quel battesimo, per quanto anomalo, era da considerarsi ormai cristiano e, in quanto tale, avrebbe dovuto ricevere un’educazione cattolica. Ma questa sarebbe stata possibile solo sottraendolo alla sua famiglia d’origine per scongiurare il rischio dell’apostasia. E di questo si sarebbe occupata la Santa Inquisizione, ancora attiva nello Stato pontificio.

 

Colta alla sprovvista dall’irruzione dei gendarmi pontifici la famiglia cercò di opporsi, ma l’ingranaggio del diritto canonico era stato avviato e non si sarebbe fermato. Il 24 giugno 1858 Edgardo Mortara fu fatto salire su una carrozza che partì immediatamente alla volta di Roma. Abbiamo due versioni del viaggio di Edgardo, del tutto contrastanti: la versione della famiglia ci descrive un bambino smarrito, che piange domandando di essere ricondotto dai genitori, e chiedendo che gli venisse restituita la mezuzah, un oggetto rituale ebraico da cui normalmente non si separava. La versione cattolica ci racconta di un bambino tranquillo che manifesta fin da subito interesse per la religione cristiana, chiede di entrare nelle chiese incontrate durante il percorso e che legge con piacere La Filotetea di San Francesco di Sales, donatogli da due pie donne incontrate durante il viaggio.

A Roma fu collocato presso la Casa dei catecumeni, l’istituzione concepita per ospitare ed educare coloro che, forzatamente o per scelta, si convertivano al cristianesimo.
La famiglia si attivò immediatamente, con il sostegno della comunità ebraica bolognese e romana, per riavere indietro Edgardo. I genitori si recarono ripetutamente a Roma riuscendo solo a fargli brevi visite sempre sotto la supervisione degli ecclesiastici che avevano assunto con molto zelo il compito di educare il piccolo Edgardo ai principi del cristianesimo. A Roma Edgardo godette di una particolare attenzione da parte di Pio IX che ne fece il suo “figlio adottivo”.

 

A trattare per la Chiesa fu il discusso ministro di Pio IX, il cardinale Giacomo Antonelli (1806-1876).
La famiglia Mortara non lasciò nulla di intentato per riavere il bambino: inviò al Papa suppliche, petizioni e soprattutto cercò di affrontare la questione sul terreno del diritto canonico impegnandosi per dimostrare che il battesimo non era mai avvenuto o, in ogni caso, non aveva i requisiti per essere valido. Per dimostrarlo si puntò sia sull’indegnità morale di Anna Morisi sia sulla sua estrema ignoranza, condizioni che non le avrebbero permesso di comprendere la portata del suo gesto e di compierlo in maniera corretta. Attraverso la testimonianza del medico, contestarono che Edgardo fosse in pericolo di vita, condizione necessaria per ammettere il battesimo di emergenza, in articulo mortis. La Chiesa, e Pio IX in particolare, fu irremovibile nell’affermare la correttezza dell’avvenuto battesimo e le necessarie conseguenze.

Il rapimento di Edgardo fu uno degli ultimi atti del governo pontificio a Bologna dove crollò meno di un anno dopo, il 12 giugno 1859. Fra i primi atti del nuovo regime vi fu l’abolizione dell’Inquisizione e l’arresto, all’inizio del 1860, dell’inquisitore. Padre Pier Gaetano Feletti venne processato e assolto poiché il suo operato venne riconosciuto conforme alle leggi in vigore e alle istruzioni dei suoi superiori, tuttavia il suo processo fu una palese rappresentazione dell’avvenuto cambio di regime.
Il Regno di Sardegna che aveva da tempo emancipato gli ebrei ed era uno degli stati italiani più avanzati in materia seppe sfruttare abilmente il caso a fini politici dimostrando l’anacronismo del potere temporale del papa.
La vicenda assunse ben presto un rilievo internazionale coinvolgendo eminenti personalità della politica e della cultura internazionali, le opinioni pubbliche di vari paesi si mobilitarono e per le comunità ebraiche internazionali fu l’occasione di organizzarsi: in questo clima nacque l’Alliance israélite universelle, che divenne una delle più importanti organizzazioni per la difesa dei diritti degli ebrei. L’Alliance è ancora attiva, con sede a Parigi.

Mentre Bologna cambiava di regime e le opinioni pubbliche liberali di mezzo mondo protestavano per il “caso Mortara”, l’educazione cattolica di Edgardo continuava indisturbata a Roma ancora sottoposta al dominio pontificio.

Nel 1870 la presa di Roma sembrò rimuovere anche questo ultimo ostacolo, ma Edgardo non volle ricongiungersi alla sua famiglia.
A sollecitarne il ritorno dai genitori si era presentato il fratello Riccardo che aveva partecipato alla presa di Porta Pia, ma Edgardo, che nel 1867 era entrato come novizio nei Canonici Regolari Lateranensi, rifiutò categoricamente di ricongiungersi alla famiglia. Non solo, per evitare ogni ulteriore pressione abbandonò segretamente Roma per trasferirsi in Tirolo, in territorio austriaco, e successivamente in Francia dove venne ordinato sacerdote adottando il nome di Pio in onore del papa che considerava suo “padre adottivo”.
Per il resto della sua lunga vita Edgardo si dedicò alla predicazione cercando in particolare, con ben poco successo, di convertire gli ebrei. Si schierò sempre in difesa dell’operato della Chiesa nei suoi confronti e di Pio IX in particolare, verso il quale mostrò sempre una totale devozione.
Nel 1907 Edgardo tornò sul tema del suo “rapimento” scrivendo alcuni articoli sui giornali in risposta a Raffaele De Cesare (1845-1928), che aveva dedicato un capitolo al “caso Mortara” in un suo libro: ne scaturì una polemica che riaccese i riflettori sul “caso Mortara”.

Ebbe con la famiglia d’origine contatti abbastanza sporadici e morì a Liegi nel 1940 poco prima dell’invasione nazista.
Se il “caso Mortara” aveva avuto pesanti ripercussioni politiche e soprattutto aveva recato un danno immenso all’immagine della Chiesa cattolica nell’opinione pubblica internazionale, dal punto di vista dell’obiettivo dichiarato, l’educazione cristiana di Edgardo, il successo di Pio IX fu completo. Oggetto di molte cure e attenzioni da parte dello stesso papa, Edgardo adottò nella sua vicenda la visione di chi lo aveva allevato e, pagando forse anche un elevato prezzo di sofferenza psicologica, giustificò sempre con il raggiungimento del suo superiore bene le azioni di coloro che lo avevano sottratto alla famiglia.

 

 

 

 

Fonte (e per saperne di più):

http://bimu.comune.bologna.it/biblioweb/mostra-caso-mortara/

MGF