Regia di Marco Bellocchio – Italia, 2023 – 134′
con Enea Sala, Leonardo Maltese, Paolo Pierobon
Drammatico – Storico
Il film ricostruisce la figura di Edgardo Mortara, il bambino ebreo il cui
rapimento da parte del Vaticano nel 1858 divenne un caso internazionale.
UN HORROR AMMANTATO DI CARITÀ CRISTIANA CHE MANDA A GAMBE ALL’ARIA OGNI CONVINZIONE PRECOSTITUITA.
Marco Bellocchio sceglie una storia che aveva già attratto l’interesse di Steven Spielberg e la realizza con una comprensione profonda del momento storico in cui si è svolta l’azione e della complessità dei rapporti fra Stato e Chiesa.
La fonte letteraria è “Il caso Mortara” di Daniele Scalise, cui si ispira la sceneggiatura di Bellocchio e Susanna Nicchiarelli, e la perfetta ricostruzione di quel tempo (lo scenografo è Andrea Castorina) è ricca di dettagli che ci calano in quel mondo controllato da un potere temporale ubiquito. E l’antisemitismo della Chiesa si manifesta con virulenza, tanto che il Papa arriverà a minacciare il capo della comunità romana di “costringere gli ebrei a tornare nel loro buco”, risigillando la porta del ghetto.
Ma al di là dell’aderenza storico-politica e dei contrasti religiosi, questa storia è fatta per Bellocchio perché racconta il trauma esistenziale di un’identità negata, e le storture che tale diniego provoca nella vita degli uomini. Ben tre volte il montaggio parallelo di Francesca Calvelli e Stefano Mariotti incatena situazioni opposte: una sessione di preghiere incrociate, l’una che spera, l’altra che inchioda il bambino al suo destino; un verdetto di tribunale e una cerimonia confirmatoria; uno stinato “ora pro nobis” e un’irruzione della Storia laica.
E per tre volte l’identità di Edgardo verrà nascosta sotto un telo -la gonna della madre, la tonaca del Papa, il lenzuolo del letto del “rapito” – che ogni volta cambieranno il senso e il tono della domanda “Dove è finito Edgardo?”.
Numerose e ripetute sono le situazioni in cui un essere umano viene umiliato: lo strisciare del capo della comunità ebraica romana o il bacio del pavimento della chiesa, con tanto di leccate, sono degni di un film carcerario, di quelli in cui la mortificazione dei sottoposti viene esercitata per ribadirne la condizione sottomessa.
Rapito è un film di una violenza non grafica ma efferata, tanto più grottesca e terribile perché perpetrata con quel senso di titolarità moralista che è al centro di ogni oppressione (non a caso il rapimento di Edgardo viene organizzato da un ex inquisitore) e sostenuta da una struttura di potere che nega o minimizza la gravità di ogni sua scelta con un “non è successo niente”.
È violenta la palette cromatica di Rapito, a cominciare dal sigillo rosso sangue con cui viene ratificato il destino di Edgardo, è violento il contrasto caravaggesco fra le poche luci e le molte ombre; e supremamente violento è l’atto di strappare un figlio alla madre. Il padre di Edgardo, pur ben intenzionato, non ha la forza ferina di sua moglie, né la sua lucidità nel rifiutare compromessi. Ronchi e Fausto Russo Alesi sono molto efficaci nei ruoli dei genitori, ma il film appartiene ai due interpreti di Edgardo, il bambino Enea Sala e Leonardo Maltese, straordinario in una scena che mostra il contrasto lacerante fra indottrinamento e ribellione; così come appartiene al sorriso untuoso di Paolo Pierobon nei panni di Pio IX, e a Fabrizio Gifuni, l’ex inquisitore Feletti convinto di essere nel giusto.
L’inflessibilità della Chiesa appare lastricata di buone intenzioni e di cieca obbedienza che portano a liquidare ogni nefandezza con il moto “pace e bene” e l’affermazione di agire “per il bene altrui”, senza riconoscere la differenza fra Bene e Male.
Rapito è un horror ammantato di carità cristiana, un “miserere nobis” che cancella ogni colpa con una formula assolutoria.
La regia muscolare di Bellocchio manda a gambe all’aria ogni convinzione precostituita e autolegittimante, rifiutando radicalmente ogni sistema di potere basato sul senso di colpa in cui il regista stesso è stato immerso, e dal quale non potrà mai prescindere del tutto, come emerge con chiarezza dal suo cinema.
Paola Casella – MyMovies
LA VERA STORIA DI EDGARDO MORTARA
Chi era Edgardo Mortara?
Il fanciullo era figlio del mercante Momolo Mortara e di Marianna Padovani, di tradizione e religione ebraica, abitanti in via Lame a Bologna. Era la sera del 23 giugno 1858 quando la polizia papalina si recò presso la sua abitazione e prelevò di forza uno dei suoi figli, il piccolo Edgardo, appunto. L’inquisitore Pier Gaetano Feletti, rappresentante del Sant’Uffizio a Bologna aveva chiesto che gli fosse consegnato. Il bambino fu portato immediatamente a Roma e le cronache raccontano che per tutto il viaggio pianse disperato. Ma qual era stato il motivo di un così crudele comportamento?
La famiglia Mortara era in buone condizioni economiche e anche se era di religione ebraica, non aveva mai avuto alcun problema di convivenza con nessuno. Quando aveva due anni Edgardo si ammalò gravemente e rimase per qualche tempo in pericolo di vita. Una fantesca cattolica a servizio presso la famiglia Mortara credeva che sarebbe morto e non in grazia di Dio, ovviamente non essendo stato battezzato. Per questo motivo aveva deciso di provvedere lei stessa a somministrargli il sacramento all’insaputa dei genitori. Due anni dopo, durante la confessione, rivelò il tutto ad un padre domenicano che, violando il segreto, avvisò le autorità ecclesiastiche. Queste ultime decisero di provvedere al più presto applicando il sessantesimo canone sancito durante il Concilio di Toledo del 633, secondo il quale gli ebrei battezzati diventavano di fatto cattolici a tutti gli effetti e dovevano dunque essere educati secondo i precetti della Chiesa Romana.
Giunto a Roma, Edgardo fu portato al Collegio dei Catecumeni, dove sicuramente passò i mesi più orribili della sua giovane vita. Solo a ottobre, dopo quattro lunghi mesi, i genitori disperati riuscirono a rivederlo. Nel frattempo, peraltro, il caso aveva varcato i confini italiani ed era diventato internazionale. Le comunità ebraiche piemontesi -che potevano muoversi più liberamente- avevano infatti esercitato pesanti pressioni soprattutto in Francia. Ma anche in Gran Bretagna e in America vi fu un forte movimento di opinione in favore della famiglia Mortara.
Nel frattempo, nonostante anche il medico che all’epoca del battesimo clandestino aveva avuto in cura Edgardo avesse dichiarato che il bambino non era mai stato in pericolo di vita, le autorità pontificie decisero che al piccolo –ormai considerato cristiano sotto tutti i punti di vista- doveva essere garantita un’educazione cattolica. Gli anni passarono e, solo nel 1878, dopo la presa di Roma e l’annessione dello Stato Pontificio al Regno d’Italia, il fratello maggiore Riccardo e la madre Marianna riuscirono a rivedere quello che era un giovane uomo ormai ordinato sacerdote.
L’emozionante incontro avvenne a Parigi, ma ormai era troppo tardi…il diritto naturale aveva dovuto soccombere davanti al diritto canonico. La fotografia scattata nella straordinaria occasione mostra Riccardo in atteggiamento assai freddo e quasi sprezzante verso il fratello minore. Tanto che ai parenti e ai giornali ne fu data copia mutilata, dove comparivano solo Edgardo e la madre. Colui che era diventato don Pio Edgardo
Mortara ebbe una lunga vita: fu missionario apostolico, canonico lateranense, professore di teologia. Cresciuto lontano dai suoi, segregato dal mondo e guardato a vista, aveva preso i voti con piena convinzione e non mise mai in dubbio i lati oscuri della sua vicenda umana. Continuò tuttavia ad avere rapporti anche epistolari con la famiglia di origine. Morì nel 1940 in Belgio.
Il film ha ottenuto 9 candidature e vinto 6 Nastri d’Argento, In Italia al Box Office Rapito ha incassato nelle prime 7 settimane di programmazione 1,7 milioni di euro e 459 mila euro nel primo weekend
RECENSIONI
4/5 Movieplayer
4/5 Coming Soon
4/5 Cineforum.it
MGF