NON GRIDATE PIU’

 

Cessate di uccidere i morti.
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.

 

 

 

Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.

 

 

 

Non gridate più è una lirica di Giuseppe Ungaretti contenuta nella sezione I ricordi della raccolta Il dolore. Composta nel 1945, è stata scritta ispirandosi a un fatto di cronaca, ossia la notizia del bombardamento del cimitero monumentale del Verano a Roma in data 19 luglio 1943.

La tematica centrale è quella della violenza di una guerra che non si ferma nemmeno davanti ai morti.

Il dolore, pubblicata nel 1947, è una raccolta che unisce tutti i componimenti inerenti la Seconda guerra mondiale, allora in corso, e le vicende personali del poeta. I testi che la compongono, scritti tra nel decennio 1937-1946, danno voce tanto al tormento personale di Ungaretti (in lutto per la morte del fratello e del figlio di 9 anni) quanto a quello collettivo. Ad accomunarli è la visione della sofferenza, che lega tutti gli uomini e può essere attenuata, in minima parte, solo grazie alla solidarietà.
Non gridate più è una poesia scritta nell’immediato dopoguerra e quindi non può che rivolgersi  a chi ha vissuto e superato le terribili tragedie dei lunghi anni di conflitto. A tutti coloro che sono riusciti a vederne la fine, Ungaretti rivolge una sorta di preghiera, invitando i vivi a riscoprire il valore della pietà. Gli imperativi che compongono il testo non vanno intesi come ordini violenti, ma come esortazioni pietose.

Alle grida degli uomini, che sono sinonimo di barbarie, si contrappone la presenza muta dei morti: i vivi urlando trasmettono odio, i morti tacendo sussurrano pace.

 

Fonte: SoloLibri.net

MGF

L’ESTATE E’ FINITA

 

Sono più miti le mattine
e più scure diventano le noci
e le bacche hanno un viso più rotondo.
La rosa non è più nella città.

 

 

L’acero indossa una sciarpa più gaia.
La campagna una gonna scarlatta,
Ed anch’io, per non essere antiquata,
mi metterò un gioiello.

 

 

 

Il caldo torrido è ormai un lontano ricordo, le temperature si sono abbassate e il sole tramonta prima di giorno in giorno. L’autunno inizia ad annunciarsi ed Emily Dickinson con la sua poesia riesce perfettamente a dipingere questo momento.
Emily Dickinson analizza la fine della stagione da una prospettiva non solo paesaggistica o descrittiva, ma soprattutto da un punto di vista interno, psicologico.
La natura diventa metafora del cambiamento che gli esseri umani compiono da sempre. Gli indumenti come la vegetazione sono destinati ad essere diversi.
Emily Dickinson nella poesia esprime dolcemente tutta la gioia che la nuova stagione le porterà.
Cerca di offrire positività alla malinconia che inevitabilmente l’estate è destinata a lasciare nelle persone. L’assenza della rosa presuppone una mancanza, incapace di essere riempita se non dalla nostalgia. L’autunno si insinua nelle giornate di fine estate portando aria fresca e giornate man mano più brevi, per esplodere poi con i suoi colori più tipici.
La bellezza descritta in questo componimento può aiutarci ad affrontare la stagione dei colori caldi e dei maglioni, con maggior positività.


EMILY DICKINSON

Emily Elizabeth Dickinson nacque ad Amherst, Massachusetts, il 10 dicembre 1830 e morì sempre ad Amherst il 15 maggio 1886.

La sua vita fu estremamente travagliata: trascorse la maggior parte del tempo in casa, con rare uscite per visite ai parenti ed era ossessionata dalla morte. La sua vocazione poetica si manifestò in giovane età, forse grazie anche ai libri che il padre le regalava (ma con la preghiera di non leggerli). Durante uno dei rari viaggi conobbe un reverendo del quale si innamorò, ma lui era già sposato con figli, quindi l’amore rimase platonico e lei gli dedicò numerose poesie.

Sviluppò alcune patologie, fra le quali l’agorafobia e forse anche l’epilessia.Ciò spiega perché la sua popolarità esplose postuma, con la pubblicazione dei Poems (1890) e di successive raccolte da parte dei parenti.

Si innamorò poi di un vecchio giudice, frequentatore di casa sua, e quando questi rimase vedovo lei manifestò la volontà di sposarlo. Qualche anno più tardi lui morì, e così anche un nipote di Emily, Gilbert.

Per il suo morale fu un duro colpo. Pochi anni dopo, a soli 55 anni, Emily morì in conseguenza di una malattia renale cronica.
Mentre era in vita vennero pubblicate solo 7 dei suoi componimenti e non ebbe alcun riconoscimento ufficiale, forse anche a causa di un linguaggio poco ricercato non particolarmente apprezzato a quell’epoca.

Solo successivamente vennero trovate da parenti vari tutte le circa 1800 poesie che Emily aveva scritto, centinaia delle quali scritte su foglietti poi piegati e cuciti e conservati in un raccoglitore.
Oggi Emily Dickinson è considerata una delle poetesse più sensibili e rappresentative di tutti i tempi.

Fonte: Libreriamo.it

 

MGF

SETTEMBRE

 

Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d’anno:
torneranno?

 

 

 

Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:

 

 

 

vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.

 

 

 

Chiara e limpida come una filastrocca, Settembre di Luigi Pirandello si struttura su un uso sovrabbondante di rime e suona melodiosa e armonica come una musica. Eppure, malgrado l’impianto giocoso e irriverente, la poesia sprigiona un sentimento di nostalgia ineffabile.
Attraverso la metafora della partenza delle rondini, che abbandonano i loro nidi in cerca di un altrove non meglio specificato, Pirandello evidenzia tutto il senso di abbandono che il mese di settembre porta con sé. Dopo la fulgida estate tutto si prepara a sfiorire, a spegnersi lentamente nell’arrivo dell’autunno. Le rondini se ne vanno con l’ultimo sole e con loro sembra partire anche la gioia, lasciando l’autore a confrontarsi con il silenzio dei nidi vuoti.
Luigi Pirandello riesce a comunicarci una nostalgia struggente, senza mai smettere di farci sorridere – con l’esercizio giocoso delle rime e l’uso vivace dei vezzeggiativi che rammentano quasi una poesia infantile. Il potere del Pirandello poeta è quello di farci ridere tra le lacrime: in Settembre ci comunica sin dal primo verso una sensazione drammatica “le speranze se ne vanno”, ma infine ci fa piegare le labbra in un sorriso con l’immagine delle “casucce liete”.


PIRANDELLO E LA POESIA

La poesia settembrina di Luigi Pirandello fu pubblicata il 16 agosto 1910 sulla Nuova antologia, il periodico trimestrale di lettere, scienze e arti fondato nel gennaio 1866 a Firenze, una tra le più longeve riviste letterarie italiane. Su quelle stesse pagine era stato pubblicato a puntate, tra l’aprile e il giugno 1904, il romanzo Il fu Mattia Pascal, stampato sei anni dopo per i Fratelli Treves.
Ecco che, nell’agosto 1910, la voce poetica di Pirandello si affacciava dalle pagine della Nuova Antologia allegra, giocosa e scanzonata come una filastrocca. Se il Pirandello poeta non è studiato a scuola probabilmente è perché si distaccava dal canone poetico del primo Novecento: non era il vate D’Annunzio, né il fanciullino pascoliano. Nonostante l’autore siciliano avesse scritto, a soli vent’anni, diversi quaderni di poesie, oggi non lo ricordiamo per le sue liriche. Alcune sue poesie furono raccolte in Fuori di chiave, edita nel 1912 dall’editore Angelo Fortunato Formiggini, ma nel volume non era contenuta Settembre . Il titolo della raccolta poetica di Pirandello, Fuori chiave, rimandava al linguaggio musicale: una musica dissonante, priva di senso, proprio come il mondo novecentesco che stava vivendo una crisi di ideali, di valori, di significato.
Dissonante e “fuori chiave” era, del resto, lo stesso Pirandello e il suo sentire di poeta: in contrasto con il canone classico e persino con quello a lui contemporaneo, in aperto dialogo con la musica disarmonica e scostante della vita, narrandoci anche in versi le maschere della società, le identità molteplici e stratificate e persino una natura fatta di un ciclo non di rinascita, ma di laceranti abbandoni, come il volo delle rondini nel cielo di settembre.

 

Fonte: Sololibri.net

MGF

ACQUA ALPINA

Gioia di cantare come te, torrente;
gioia di ridere
sentendo nella bocca i denti
bianchi come il tuo greto;
gioia d’essere nata
soltanto in un mattino di sole
tra le viole
di un pascolo;
d’aver scordato la notte
ed il morso dei ghiacci.

 

Breil – Pasturo, 12 agosto 1933

 

 

Antonia Pozzi, seduta su una roccia, approfittando del tiepido sole che illumina le rocce gelate, osserva l’acqua cristallina del torrente. L’acqua pare “cantare”, una luce tenue rende ancora più chiara e limpida; come musica di accompagnamento vi è il dolce suono dell’acqua che scorre lentamente. Le delicate viole, che sembrano incorniciare questo dolcissimo quadretto di montagna, catturano l’attenzione di Antonia. Le parole di questa poesia ci incantano: l’acqua alpina canta, ride…l’acqua che sembra acquisire forma umana. Pare che Antonia stia immaginando l’acqua trasformarsi in una leggiadra fanciulla spensierata. Ecco questa fanciulla felice alla quale Antonia vorrebbe assomigliare, anche lei vorrebbe essere così libera, libera da tutti quei pensieri grigi che attanagliano continuamente la mente. Anche Antonia vorrebbe cantare come l’acqua del torrente, la fanciulla felice, anche lei, vorrebbe unirsi alla sua meravigliosa leggerezza al canto gioioso, capace dimenticare il buio della notte.

 

ANTONIA POZZI E LA PASSIONE PER LA MONTAGNA E LA NATURA

Antonia Pozzi nasce a Milano il 13 febbraio del 1912 da una famiglia alto-borghese. Nelle sue poesie affiora la sua personalità venata di tristezza ma, anche nelle liriche più malinconiche, emerge comunque un inno alla vita: la voglia di vivere non può svanire, è destinata a risuonare per sempre nelle sue parole. A riportare alla luce gli scritti di questa poetessa, ingiustamente rimasta nell’ombra per molti anni, sarà Eugenio Montale, che ne decreterà la fama definitiva.

 

Sin da piccola Antonia ha amato le lunghe passeggiate, dove può esplorare liberamente questi posti rocciosi e innevati, respirare a pieni polmoni l’aria fredda e pulita. La natura ci può parlare, può farci riflettere sui grandi temi della vita, a volte, può persino farci sentire meno soli.

Fonte: In a Bottle Magazine

 

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INVICTUS

 

Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo da un polo all’altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per la mia anima invincibile.
Nella feroce morsa delle circostanze
Non ho arretrato né gridato.

 

 

Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma non chino.
Oltre questo luogo d’ira e lacrime
Incombe il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.

 

 

 

Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

 

 

Il 18 luglio si celebra il Nelson Mandela Day, la giornata indetta dalle Nazioni Unite in onore del primo presidente di colore che liberò il Sudafrica dall’Apartheid. La data non è casuale, il 18 luglio 1918 nel villaggio di Mvezo nasceva Nelson Mandela detto affettuosamente “Madiba”, l’uomo che avrebbe sconfitto per sempre il segregazionismo razziale.
Per l’occasione lo ricordiamo con questa poesia a lui molto cara, scritta nell’Ottocento dal poeta inglese William Ernest Henley, che accompagnò Mandela durante i lunghi anni della prigionia invitandolo a non perdere la speranza.
Nelson Mandela attraverso Invictus di William Ernest Henley scoprì se stesso e una forza che neppure immaginava di avere e invece era racchiusa nel profondo del suo animo e gli avrebbe permesso di fare grandi cose.
Invictus, quella poesia scritta da un uomo lontano secoli, divenne l’inno alla vita di Nelson Mandela che seppe leggervi il simbolo dell’invincibilità umana. In quella cella di Robben Island, in cui sarebbe stato rinchiuso per ventisette anni, Madiba ebbe un compagno di reclusione speciale, William Ernest Henley. Lo avrebbe trovato tra le righe delle pagine e in quelle parole si sarebbe riconosciuto, scoprendo che in fondo sembravano essere state scritte apposta per lui.


WILLIAM ERNEST HENLEY

Il poeta William Ernest Henley nasce a Gloucester (Inghilterra) il giorno 23 agosto 1849, maggiore dei sei figli di William Henley, di professione libraio, e di Mary Morgan, discendente del critico e poeta Joseph Warton.
Il futuro letterato studia presso la Crypt Grammar School negli anni tra il 1861 e il 1867; nel breve periodo – dal 1857 al 1863 – in cui Thomas Edward Brown ricopre il ruolo di preside della scuola, Henley viene profondamente influenzato dalla sua personalità.
Oltre ad instaurare una lunga amicizia, Henley scriverà su New Review (nel dicembre del 1897) un memoriale in cui l’ammirazione per Brown, è palese.
All’età di dodici anni Henley si ammala gravemente di tubercolosi, tanto che diventa necessaria l’amputazione della parte inferiore della gamba sinistra.
Per tutta la vita la malattia non gli dà tregua, tuttavia Henley è persona dotata di una straordinaria forza d’animo: si diploma nel 1867 e si trasferisce a Londra per iniziare la professione di giornalista. Nei successivi otto anni trascorre lunghi periodi ricoverato in ospedale, trovandosi a rischio di amputazione anche per ciò che riguarda il piede destro. Henley si oppone alla seconda operazione e accetta di diventare paziente presso il The Royal Infirmary di Edimburgo, curato da Joseph Lister (1827-1912), uno dei medici pionieri della moderna chirurgia.
Dopo tre anni passati in ospedale – dal 1873 al 1875 – Henley viene dimesso e, sebbene la cura di Lister non sia del tutto riuscita, questa gli permette comunque di vivere in modo autonomo per trent’anni.
Proprio nel 1875, mentre si trova in ospedale, scrive la sua poesia più celebre, “Invictus“, dedicata a Robert Thomas Hamilton Bruce (1846-1899). Le sue opere principali sono “A Book of Verses” (1888), “Views and Reviews” (1890), “The Song of the Sword” (1892), intitolato poi “London Voluntaries” dalla seconda edizione del 1893.
William Ernest Henley muore il giorno 11 luglio del 1903.

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