Docufilm diretto da Phil Grabsky

Con l’ausilio di interviste di esperti e letture di diari e grazie a un sorprendente sguardo gettato sul suo quotidiano, HOPPER. UNA STORIA D’AMORE AMERICANA fa rivivere l’artista probabilmente più influente di tutta la storia statunitense

 

 

 

 

EDWARD HOPPER: SOLITUDINE O MERAVIGLIA?

Edward Hopper è stato di recente definito l’artista della pandemia; sì, la nostra, il Covid-19 che ha spezzato la quotidianità a cui eravamo tanto abituati. Non posso che essere d’accordo, ma non per la solitudine, l’ineluttabilità, la tristezza che così tanto sembrano permeare le sue opere: per l’esatto contrario.
Le opere di Hopper dipingono soggetti comuni: persone, luoghi e oggetti che tutti noi ci troviamo davanti agli occhi almeno una volta al giorno, solo uscendo di casa.

 

 

La signora che beve un caffè al bar, l’edificio illuminato dal sole a mezzogiorno, l’uomo di mezza età seduto sul bordo del marciapiede ad aspettare chissà cosa… tutti elementi banali e trascurabili della realtà di ogni giorno, banali e trascurabili in quanto non influiscono in alcun modo sul trascorrere della nostra giornata.
E invece eccolì lì, olio su tela, esposti in un museo.
Essere esposti in un museo significa arte, ancor di più quando lo spettatore si ferma e prova qualcosa, sente emozioni che non sapeva di avere dentro di sé; e allora, questi insignificanti elementi della routine quotidiana sono arte?
Sì, sono arte. Sono piccoli istanti che avremmo gettato via senza farci troppi problemi, forse addirittura senza rendercene conto.

 

È arte la signora che beve un caffè al banco: forse si è fatta bella per qualcuno, forse invece solo per se stessa.
Forse si è alzata dal letto stamattina e ha deciso di meritarsi un caffè preparato da mani che non sono le sue, forse si è vestita sorridendo perché sta finalmente per incontrare un’amica che non vede da tempo, forse si è fatta coraggio per uscire e cercare un respiro che a casa le sfugge.

 

 

 

È arte la banalissima casetta a schiera tutta bianca che a dire il vero infastidisce quando la luce del sole ci si riflette sopra in una certa maniera: è arte perché qualcuno ci abita e la ricolma di amore, è arte perché sta aspettando che qualcuno la faccia sua, è arte perché qualcuno l’ha amata e vissuta e ora essa ne è eterno simulacro.

 

 

 

È arte l’uomo seduto sul bordo del marciapiede, quello che ti aspetti di vedere distrutto nel giro di pochi mesi: è arte il suo tirare avanti, provarci e fallire, “riprovarci e fallire meglio”, per dirla con Beckett.

 

 

 

L’arte è celata in molte cose: nell’acero in giardino che comincia a coprirsi di foglie nonostante non ci siano bambini a guardarle. Nel cielo così azzurro da far venire le vertigini, anche se non ci sono folle di persone nei parchi gioco a distendersi sull’erba e a rimirarne l’immensità. Nel piccolo bocciolo del cactus sul vaso del balcone, che ha deciso di fiorire proprio mentre tutto il resto del mondo è immerso in una stolida immobilità di stupore.

 

 

La vita fiorisce, e la vita è poesia: la solitudine può essere bellezza, ce lo mostrò già Van Gogh con le sue opere. La disperazione è arte nella testardaggine del combattimento contro di essa, una strada nascosta e quasi invisibile che quasi certamente non ci porterà dove pensavamo di andare, ma che forse seguiremo comunque per ritrovarci in un posto inaspettato e meraviglioso.

 

 

Era arte cantare dai balconi alla domenica, applaudire il coraggio di medici e infermieri, era arte anche solo andare sui social network e interagire con perfetti sconosciuti e raccomandare loro di stare al sicuro, di non correre rischi, augurare loro il meglio se si ammalavano o se riferivano della malattia dei loro cari.
Durante il lockdown, ricordo la paura: azioni quotidiane e banali erano diventate all’improvviso fonte di rischio, un nemico invisibile ci aveva assediati nelle nostre stesse case… ma ricordo anche tanto amore e tanta bellezza.


Ricordo un bocciolo di tulipano che sbucava dal terreno nel giardinetto dietro casa, che si spingeva a respirare l’aria insolitamente pura. Ricordo un cielo così azzurro da volerci fare un quadro. Ricordo persone qualsiasi, che spiccavano in un mondo all’apparenza disabitato, uscite per qualche commissione urgente, e ricordo quanto ho amato, per una breve frazione di tempo, quegli sconosciuti.
L’arte ritrae la realtà, e la realtà è ognuno di noi. E Hopper ci insegna ad amare tutto ciò.

 

 

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali


Quella di Hopper è un’America popolare, silenziosa e misteriosa, capace di influenzare pittori come Rothko e Banksy, cineasti come Alfred Hitchcock e David Lynch, ma anche fotografi e musicisti.


Il successo delle sue tele, la personalità enigmatica dietro il pennello, la capacità di indagare la solitudine come nessuno prima di lui era riuscito a fare, tanto da dialogare, a distanza di decenni, anche con chi, in periodo Covid, si è trovato recluso, solo, isolato.


MGF