Regia di Claudio Bisio – Italia, 2023 – 90′
con Alessio Di Domenicantonio, Vincenzo Sebastiani, Carlotta De Leonardis

 

 

 

 

 

 

UN FILM DA RICORDARE. CLAUDIO BISIO ESORDISCE CON L’URGENZA DI CONDIVIDERE RIFLESSIONI ED EMOZIONI.

Vanda, Italo, Cosimo hanno dieci anni e, nonostante la Seconda guerra mondiale, conoscono ancora il piacere del gioco che condividono con l’amico Riccardo che è ebreo. Il giorno in cui scompare decidono che non si può attendere: i tedeschi, che devono averlo portato via con un treno, debbono essere resi consapevoli del fatto che il loro amico non ha alcuna colpa per cui essere punito. Si mettono quindi in marcia seguendo la strada ferrata. A cercare di raggiungerli ci sono Vittorio, fratello di Italo e milite fascista che ha subìto una ferita, e la suora dell’Istituto per gli orfani che ospita Vanda.

L’esordio alla regia di Claudio Bisio appartiene alla categoria di quelli che non si dimenticano.
Quando un attore famoso si cimenta nella regia i motivi possono essere diversi e, in più di un’occasione, anche legati ad un’esigenza personale e professionale che non necessariamente deve coincidere con l’interesse degli spettatori. Non è così per l’esordio di Claudio Bisio dietro la macchina da presa che ha più di un punto di contatto con quelli di coloro che nascevano come registi e sono diventati noti ed apprezzati nel panorama nazionale ed internazionale. Perché nella storia scelta, nel modo in cui è stata trasposta sullo schermo dalle pagine di un libro (di Fabio Bartolomei) e in quello in cui è stata girata, si sente l’urgenza di condividere pensieri, riflessioni (non solo, si badi bene, sul passato) ed emozioni.

Il romanzo inizia con questa frase: “Cosa stia accadendo di preciso lì fuori, Cosimo non lo sa. È nell’età in cui le risposte si cercano nello sguardo dei genitori o, nel suo caso, del nonno“. Bisio, con il suo co-sceneggiatore Fabio Bonifacci, ha fatto propria questa frase costruendo una favola che, come tutte le favole che si rispettino, abbia in sé innumerevoli elementi di verità. Perché i tre protagonisti, come ogni bambino, hanno mutuato la lettura della realtà da chi li ha educati. Se Cosimo ha un padre al confino e un nonno che vuole evitare ulteriori guai e Italo ne ha uno decisamente fascista, Vanda di padri (e di madri) non ne ha o, meglio, ne ha una che non avrebbe il diritto di esserlo: suor Agnese. A lei si aggiunge il fratello di Italo ‘eroe’ ferito in guerra. Le divisioni degli adulti non riescono però a scalfire l’innocenza dei piccoli. L’amicizia va oltre l’ideologia mettendola in secondo piano. Bisio guarda ai suoi giovanissimi e straordinari protagonisti con il desiderio di fare un film che arrivi al pubblico più vasto senza però scegliere soluzioni facili o scorciatoie narrative anche quando modifica, come è necessario fare, elementi anche importanti del romanzo. Si sente in lui la capacità di creare coesione al progetto che solo i bravi attori riescono ad ottenere da coloro che hanno scelto per trasformare la loro visione in gesti, parole, esternazione di sentimenti.

Si comprende anche come abbia alle spalle una profonda conoscenza della commedia italiana degli anni Sessanta (e non solo) di cui coglie, in alcune scene, lo spirito senza per questo né fare falsi omaggi né realizzare copie conformi. Si consente inoltre anche un paio di battute che lo spettatore più accorto saprà decodificare con divertimento in un’Europa che dal febbraio 2022 è tornata a doversi misurare con la
concretezza di una guerra: in questo senso il film si trasforma in un ammonimento. Lo fa però senza prediche e conservando una struttura binaria decisamente efficace. Se da un lato seguiamo alternativamente l’incedere dei bambini e di chi li vorrebbe raggiungere per riportarli indietro, abbiamo anche l’alternanza tra situazioni divertenti che strappano sorrisi e risate ed altre in cui un profondo senso di umanità si trasforma in commozione senza forzature.
Ognuno di noi ha avuto nella vita il suo momento di passaggio in cui ‘non è stato/a bambino/a’. Qualcuno però sa ancora rinvenire dentro di sé l’innocenza, lo sguardo comunque ancora aperto alla meraviglia che è proprio di quell’età, nonostante tutti i possibili condizionamenti. Bisio c’è riuscito e ha trovato anche il modo migliore per comunicarlo.

Giancarlo Zappoli – MyMovies

L’ultima volta che siamo stati bambini è un’elegia all’amicizia in tempo di guerra e a quella difficile, bellissima lotta che è – in qualsiasi epoca – crescere e diventare adulti. Nel primo film di Claudio Bisio regista, tratto dal libro di Fabio Bartolomei, troviamo
una storia che valeva la pena raccontare.

RECENSIONI
3,3/5 MYmovies
3/5 Movieplayer
3/5 Cinefilos.it

 

LA RAZZIA DEGLI EBREI DI ROMA

Alle 5,30 di sabato 16 ottobre 1943 nelle vie dell’ex ghetto e in altri quartieri di Roma ha inizio la Judenaktion, una delle pagine più terribili della guerra e del fascismo in Italia. L’esplicita richiesta di Hitler e Himmler è il rastrellamento e la deportazione dell’intera comunità ebraica di Roma, la più antica d’Europa e, insieme con quella triestina, la più grande d’Italia.
Alle 14 del «sabato nero» l’operazione è terminata: 1259 fra donne, uomini, vecchi e bambini sono ammassati al Collegio militare della Lungara. Vi restano fino alla mattina di lunedì 18, a eccezione di 237 prigionieri che, classificati come «stranieri» nell’orribile schema persecutorio – vale a dire componenti di unioni fra cristiani ed ebrei, figli di genitori non soltanto ebrei e pochi altri casi – vengono liberati.

 

Dopo più di quattro giorni di viaggio i ventotto vagoni bestiame su cui sono stati caricati giungono ad Auschwitz-Birkenau dove, per l’occasione dell’arrivo degli «ebrei del Papa», è presente sulla Judenrampe il comandante del campo Rudolf Höß.
Per la maggior parte dei prigionieri, 820, i tedeschi decretano la morte immediata nelle camere a gas mentre 149 uomini e 47 donne sono avviati ai lavori forzati.
La deportazione degli ebrei italiani, avviata il 16 ottobre e proseguita in tutto il paese nei mesi successivi, rappresenta l’inevitabile punto d’arrivo del tragico percorso intrapreso dallo stato italiano nel 1938 con l’introduzione delle leggi razziali, grazie alle quali si realizza, tra le altre nefandezze, quel censimento degli ebrei che sarà molto utile ai nazisti per compiere i loro rastrellamenti. Treni carichi di ebrei italiani giungeranno ad Auschwitz-Birkenau, centro di sterminio per i deportati dell’Europa meridionale, fino al 28 ottobre 1944.

 

Fino all’estate 1943 questo scenario era sembrato lontano. L’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica Sociale sono i lampi che squarciano definitivamente le illusioni delle comunità ebraiche italiane di vivere in un paese in cui l’antisemitismo è meno radicato e violento rispetto all’Europa orientale, da cui giungono voci cui nessuno vuole credere, e di risiedere in una città che può contare sull’«ombra» protettiva del Papa.
La gioia per la caduta del regime fascista, il 25 luglio, lascia presto il campo alla preoccupazione e, non appena Roma si riempie di truppe tedesche, l’aria si fa pesante. Il 26 settembre il comandante della Gestapo a Roma, Herbert Kappler, convoca i rappresentanti della comunità ebraica, Foà e Almansi, minacciando deportazioni in caso della mancata consegna di 50 chili d’oro entro due giorni.

 

Grazie alla solidarietà della cittadinanza romana l’oro viene consegnato ma nei giorni seguenti il saccheggio continua: dal Tempio Maggiore, dalle biblioteche della Comunità e del Collegio Rabbinico le SS prelevano antichi manoscritti e incunaboli insieme ad altri oggetti di inestimabile valore culturale, nel totale silenzio delle autorità italiane e cattoliche. I numerosi episodi di coraggio e solidarietà dimostrati da singole persone non bastano a lavare l’onta della complicità italiana nei saccheggi e nelle deportazioni: ufficiali di polizia italiana supportano le operazioni prima, durante e dopo il 16 ottobre, nelle settimane successive si moltiplicano le delazioni e le denunce mentre la RSI ordina l’arresto di tutti gli ebrei e l’internamento nei primi campi di concentramento italiani come quello di Fossoli.

Alla fine della guerra su 2091 deportati da Roma fanno ritorno 78 uomini e 28 donne. In un anno nel lager di Auschwitz-Birkenau arrivano più di 6500 cittadini italiani, 5578 per non fare mai ritorno.

Fonte: Museo Nazionale della Resistenza

 

IL LIBRO DIETRO AL FILM

L’ULTIMA VOLTA CHE SIAMO STATI BAMBINI di Fabio Bartolomei

Per ribellarsi alle leggi della guerra bisogna essere folli. O bambini.
Un romanzo emozionante fino all’ultima pagina, personaggi dalla vitalità contagiosa che vivranno a lungo nel cuore dei lettori di tutte le età.

Un bel libro, con dei personaggi che crescono e prendono consapevolezza della loro vita e mettono in dubbio tutte le loro certezze.

Dall’epilogo:
TRA LE 2091 PERSONE DI RELIGIONE EBRAICA DEPORTATE DURANTE L’OCCUPAZIONE DI ROMA C’ERANO ANCHE 281 BAMBINI. NESSUNO DI LORO È TORNATO.

 

Fabio Bartolomei è nato nel 1967 a Roma, dove vive. Scrittore poliedrico, è un affermato pubblicitario e autore di sceneggiature. Nel 2004 ha vinto il Globo d’Oro con il cortometraggio Interno 9. Nel 2011 si è fatto conoscere dal pubblico dei lettori con il suo romanzo Giulia 1300 e altri miracoli da cui è stato tratto il film Noi e la Giulia, diretto da Edoardo Leo. Insegna scrittura creativa. La banda degli invisibili è del 2012.

Altre sue opere sono We Are Family, Lezioni in Paradiso, La grazia del demolitore, L’ultima volta che siamo stati bambini, da cui è stato tratto un film con la regia di Claudio Bisio, e le novelle che compongono la Quadrilogia della famiglia, ovvero Morti ma senza esagerare, Diciotto anni e dieci giorni, Tutto perfetto tranne la madre, Il figlio recidivo e infine nel 2023 pubblica il romanzo I qui presenti.

 

 

MGF