PICASSO. UN RIBELLE A PARIGI
Storia di una vita
e di un museo

Regia di Simona Risi su soggetto di Didi Gnocchi e Sabina Fedeli
con la partecipazione straordinaria di Mina Kavan

 

“Dipingere non è un’operazione estetica:
è una forma di magia intesa a compiere un’opera di mediazione fra questo mondo estraneo e ostile e noi”.
Pablo Picasso

 

“CHE BRUTTO, SEMBRA UN PICASSO!”

Quante volte abbiamo sentito, o addirittura pronunciato questa frase?
Perché sì, diciamocelo, ad un primo sguardo abbiamo tutti pensato che Picasso fosse uno che, di disegnare, proprio non era capace.
Ma soffermiamoci per un momento su ciò che sappiamo di lui, della sua vita tormentata, del solitario nella folla che ha lasciato
emergere già dagli albori della sua carriera la malinconia, la solitudine che lo tormentavano mentre si circondava di persone che sapeva non sarebbero rimaste.

Poveri in riva al mare - P.Picasso 1903
Poveri in riva al mare – 1903

Penso al periodo blu, alle sue figure smagrite e tristi, ombre dei sogni svaniti delle persone lì ritratte, così belli e così dolorosi che verrebbe voglia di infrangere il muro tra arte e vita e donare loro un abbraccio, un piccolo pensiero, qualsiasi cosa possa tingere i loro visi con dei sorrisi che sembrano ormai lontani, distanti, persi per sempre.
Picasso è un artista tra i primi che hanno vissuto il turbamento che resta ancora oggi una costante: l’arte ha perso il suo scopo primario, e cioè quello di rappresentare la realtà per come la vediamo.
E dunque, che fare quando ciò che consideri il tuo unico talento è diventato qualcosa di sostanzialmente inutile, buono sì e no a intrattenere gli amici alle feste, come muovere le orecchie o piegare i gomiti all’indietro?

 

 

 

 

Ritratto di Dora Maar – 1937

Semplice, anche se non di immediata comprensione: si cerca un modo di dare all’arte una spinta in più, quella spinta che anni più tardi Fontana ammetteva di non saper trovare, limitandosi a tagliare una tela nella speranza che qualcuno vi infilasse dentro una mano per tirare fuori un nuovo significato per l’arte.
Picasso ha tentato di inserire nell’arte una quarta dimensione: il tempo. Le sue opere sono strane, deformi, non perché Picasso fosse fuori di testa, ma perché sono immagini in movimento, frame sovrapposti della stessa immagine che si muove nel tempo.

 

 

 

Paul en Arlequin – 1924

 

 

Picasso, come sa chiunque abbia dato un’occhiata alle sue prime opere, è perfettamente in grado di dipingere immagini realistiche, ma pensiamo ora ad un corpo in movimento, immaginiamo di sovrapporre nello stesso fotogramma una piccola sequenza di filmato.
Ecco emergere due occhi sullo stesso lato del viso, passando da un profilo a un primo piano, mentre il capo viene voltato verso l’osservatore. Ecco un braccio che si allarga e si deforma, mentre si alza a ravviarsi i capelli.

 

 

 

Ecco una mano che reca una candela, dove fino ad un attimo prima c’era un cavallo che nitriva spaventato dai rumori della guerriglia.

Guernica – 1937

“Mio Dio, è orrendo”, si dice abbia commentato un funzionario di fronte al Guernica. Picasso, si racconta, gli rispose che era orrendo ciò che rappresentava.

 

Les Demoiselles d’ Avignon – 1907

 

 

Strana, difficile da interpretare, assolutamente non immediata, l’arte di Picasso integra la dimensione del tempo, ma non solo quello in cui prende vita l’immagine che dipinge: Picasso si proietta in avanti e prende in prestito un po’ del nostro tempo, quando ci sediamo a interpretare con impazienza malcelata le sue opere, quando cerchiamo di capire cosa esattamente intendeva mostrarci con quelle strane figure sulla tela.

 

 

 

 

Donna Seduta – 1937

 

È il tempo, Picasso è l’unico artista ad essersi sobbarcato il penoso compito di inserire qualcosa di impossibile come il trascorrere del tempo in un’immagine fissa, statica.
E d’altronde, se abbiamo inserito con successo la terza dimensione con l’avvento della prospettiva, perché non tentare quest’altra impresa?
E se il ticchettio dell’orologio non è evidente ad un primo sguardo, forse lo può diventare se pensiamo a quanto la frenesia del trascorrere del tempo pervade le nostre vite: sempre di corsa, sempre di fretta, sempre in ritardo, tanto che riusciamo a percepire con chiarezza solo le cose più vicine a noi, mentre tutto il resto diventa un confuso caos di figure indistinte, che ci sfiorano solamente, cambiano forma e lasciano che passiamo oltre, senza notarle, senza sentire l’urlo cupo della loro disperazione, senza capire che il loro dolore è il nostro.

 

 

Donna accovacciata – 1902

 

Di questo, a mio parere, è fatta l’arte di Picasso: di solitudine e di mancata percezione.
Lui prende anime solitarie, quelle che se ne stanno all’angolo della stanza in silenzio, le persone che hanno perso tutto e ciononostante vanno avanti, a discapito di ogni speranza, le dipinge nel loro breve arco temporale e ce le mette di fronte, ce le butta in faccia e ci costringe a guardare la bruttura della solitudine, del tempo che passa sempre uguale, mai un istante diverso dall’altro nel gorgo della disperazione.
Picasso ruba il tempo dei suoi soggetti, e ruba il nostro, nella speranza di farci comprendere che proprio il tempo, la quarta dimensione che deforma le figure, è il bene più prezioso, la ragione per cui il mondo ha la sua forma e la base della nostra vita; forse, prendendone atto potremo cominciare a goderne, invece di sprecarlo a disperarci per il suo ticchettio incessante.

 

 

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

Anarchico, straniero, rivoluzionario: a 50 anni dalla morte e a pochi giorni dalla data del suo compleanno, uno sguardo del tutto inedito sull’artista più sorprendente del Novecento. All’alba di una mattina del 1901 Picasso arriva a Parigi. Il suo futuro inizia proprio quel giorno, in quella città. Nato in Spagna il 25 ottobre del 1881, Picasso trascorrerà quasi tutta la sua vita a Parigi eppure, nella capitale francese, si sentirà spesso uno straniero, un esule, un ‘vigilato speciale’ della polizia.