LEONARDO. LE OPERE

Docu-film di Phil Grabsky

MARTEDI’ 14 GENNAIO – ORE 16.00 e 21.00

Il nuovo docu-film che indaga le opere pittoriche dell’artista di Vinci per un’inedita visione in ULTRA HD accompagnata dal commento di alcuni dei massimi esperti mondiali di Leonardo.

LE OPERE PITTORICHE DI LEONARDO

di Beatrice Fiorello

Se c’è un artista che non ha bisogno di presentazioni, quello è Leonardo da Vinci.

Genio a tutto tondo, della sua epoca come della nostra, nel corso della sua vita ha esplorato moltissimi campi del sapere: quasi tutti, si potrebbe dire, passando con eguale disinvoltura dall’arte pittorica alla scienza, alla musica, alla geologia… si interessò persino di paleontologia, in un’epoca in cui non era certo comune interessarsi alla materia.

Nato a Vinci nel 1451, figlio bastardo di un notaio, fu presto messo a bottega presso l’artista Andrea del Verrocchio, e da subito cominciò a mostrare i segni inequivocabili di un precoce quanto straordinario talento, arrivando persino ad oscurare la maestria del Verrocchio.

La sua giovane mano si può già riconoscere nel dettaglio del volto di un angelo in un’opera del suo maestro (Il Battesimo di Cristo, 1475) e, non si può negare, oscura l’intero dipinto che pur nella sua splendida fattura è relegato ad essere una mera cornice per quel volto delicato e attraente. E proprio questa delicatezza nel dipingere i tratti umani è, secondo me, una delle caratteristiche più affascinanti di Leonardo, al di là di ovvie constatazioni sulla sua maestria e sulla sua straordinaria intelligenza eclettica: guardando un’opera di Leonardo non si può che restare affascinati da quei volti dolci, di bell’aspetto e quasi asessuati.

 

Nei volti dipinti da Leonardo le emozioni sono sempre le protagoniste: ne sono una prova gli innumerevoli disegni preparatori eseguiti per dipingere il perduto e grandemente rimpianto affresco raffigurante la Battaglia di Anghiari. Volti contratti, deformati dall’ira e dalla furia della battaglia, contorti nel dolore, estremamente diversi l’uno dall’altro e mai banali; tuttavia, ogni viso riporta sempre la consueta morbidezza dei tratti, sia nel soffice gonfiarsi delle guance di un giovinetto, sia nell’aggrumarsi delle rughe di un anziano.

 

Leonardo amava profondamente la realtà ed era in grado di trarre da essa il meglio e il peggio, la quotidianità e lo straordinario, per poi unire il tutto ed elevarlo ad un grado di bellezza e realismo quasi ultraterreno. L’arcinota Vergine delle Rocce ne è un fulgido esempio: un volto di mamma, quello di Maria, bello e immortale nella sua ordinaria bellezza, che è il viso di tutte le mamme. Dolce, un po’ stanco forse, con quell’ombra di preoccupazione che è presagio del destino che Maria sa attendere il suo unico Figlio, e forse una minuscola punta di disapprovazione per il piccolo Giovanni, che portando un bastone a croce ne è memoria visiva.

 

 

 

 

Oppure, i molteplici ritratti, dalla Monna Lisa alla Dama con l’Ermellino, finanche al ritratto di Ginevra de’ Benci e a La Belle Ferronière: ogni donna è diversa dalle altre, lo stile pittorico cambia in maniera innegabile da un ritratto all’altro e la veridicità della resa pittorica è tale che i personaggi all’epoca dovevano essere stati perfettamente riconoscibili e ancora stupisce come la mano delicata di Leonardo abbia saputo dare alla Monna Lisa quell’aura di mistero che la contraddistingue, sfumandola quasi nel paesaggio.  Sembra di riconoscere una donna timida e ritrosa, convinta a stento a farsi ritrarre, ma che vorrebbe essere da tutt’altra parte. Nella Dama con l’Ermellino e nella Belle Ferronière si riconosce un fiero orgoglio, eppure in toni diversi: la Dama è altera, nobile, fissa lo spettatore dall’alto in basso come a voler sottolineare il proprio rango, mentre la Ferronière è una superba bellezza del popolo, una donna che ci si aspetta possa essere l’angelo caduto dal cielo che serve da bere agli assetati e ne allieta la giornata con un sorriso, forse storto ma sicuramente così allegro da far dimenticare per un istante i dolori. Due donne forti, dunque, eppure nessuna delle due è stereotipata o caricaturizzata.

 

Ed è proprio questo suo talento nel cogliere il fluire dei sentimenti che rende doloroso osservare il suo autoritratto eseguito in tarda età: un vecchio dall’aria scorbutica, con le labbra piegate all’ingiù e le sopracciglia cespugliose aggrottate in un cipiglio duro e scostante. Una barba lunga, pochi accenni al resto del corpo: perché questo era, Leonardo, pura mente, e noi non possiamo ardire di immaginare quale peso deve recare al suo portatore una tale capacità di comprendere, teorizzare e mettere in atto. Possiamo solo figurarci un uomo che non smise mai di cercar “virtute e conoscenza”, per dirla con Dante Alighieri, un saggio mai pago della propria cultura, un affamato di novità dall’infanzia a quando l’ultimo respiro lasciò il suo petto, invitandolo ad una nuova scoperta.

Morì il 2 maggio del 1519, in Francia, solo.

 

 

“Chi ha provato il volo camminerà guardando il cielo, perché là è stato e là vuole tornare.”

Leonardo da Vinci

UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK

Regia di Woody Allen – USA, 2019 – 92′
con Timothée Chalamet, Selena Gomez, Jude Law

Gatsby (Timothée Chalamet) e Ashleigh (Elle Fanning), fidanzatini del college, entrambi di estrazione borghese, decidono di trascorrere un romantico weekend a New York, ma i loro piani vengono completamente stravolti non appena mettono piede in città. I due, fin dal loro arrivo a Manhattan, si ritrovano separati e si imbattono in una serie di incontri casuali che, in maniera più o meno significativa, cambieranno le loro vite.
In Un giorno di pioggia a New York il cinema di Allen si dipana in un gioco che rende omaggio alle fini tessiture della miglior commedia romantica hollywoodiana degli anni ’30 e ’40.
Il film è una mappatura del sentimento amoroso, in cui giocano un ruolo centrale il Tempo e il Caso, due variabili in grado di stravolgere qualsiasi disegno precostituito.

Paolo Castelli

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TORNA IL ‘SISTEMA ALLEN’ CON UNA COMMEDIA CAUSTICA, INCISIVA E INEFFABILE, COME LA NASCITA DI UN SENTIMENTO.

Marzia Gandolfi – MyMovies.it

Gatsby e Ashleigh hanno deciso di trascorrere un fine settimana a New York. Lui viene da New York e non vede l’ora di mostrare alla fidanzata la sua città natale e lo charme vintage dei suoi luoghi di predilezione.

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LA BELLE ÉPOQUE

Regia di Nicolas Bedos – Francia, 2019 – 110′
con Daniel Auteuil, Guillaume Canet, Doria Tillier

Victor (Daniel Auteuil) e Marianne (Fanny Ardant) sono sposati da anni e stanno vivendo un momento di crisi. Quando viene proposto a Victor di rivivere su un set ricostruito un giorno qualsiasi della sua vita, lui sceglie il momento dell’incontro con la donna che ha sposato, interpretata da un’attrice.

Nicolas Bedos muove dal rimpianto per delineare la cornice de La belle époque, racconto di una storia d’amore tormentata e non riconciliata. Il regista lavora con due attori di assoluto rilievo del cinema francese: corpi significativi nella costruzione di un film sentimentale, meta-narrativo, contrassegnato dalla grazia, dal sentimento del ricordo e da una malinconia dai contorni fluidi.
Uno sguardo sul passato nel quale la nostalgia si produce attraverso un’efficace mix di realtà e di finzione.

Paolo Castelli

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UNA MESSA IN SCENA GIOIOSA DI UN CINEMA CHE REGALA UN SORRISO PERSISTENTE ALLO SPETTATORE

Marzia Gandolfi – Mymovies

Victor e Marianne sono sposati e ‘inversi’. Lui vorrebbe ritornare al passato, lei andare avanti. Disegnatore disoccupato che rifiuta il presente e il digitale, Victor è costretto a lasciare il tetto coniugale. A cacciarlo è Marianne, psicanalista dispotica che ha bisogno di stimoli e ne trova di erotici in François, il migliore amico di Victor. Vecchio e disilluso, Victor accetta l’invito della Time Traveller, una curiosa agenzia che mette in scena il passato. A dirigerla con scrupolo maniacale è Antoine, che regala ai suoi clienti la possibilità di vivere nell’epoca prediletta grazie a sontuose scenografie e a un gruppo di attori rodati. Tutto è possibile, bere un bicchiere con Hemingway o sparare sull’aristocrazia del XVIII secolo. Victor sceglie di rivivere il suo incontro con Marianne, una sera di maggio del 1974 in un café di Lione (“La belle époque”). Sedotto dal fascino dell’attrice che interpreta la sua consorte a vent’anni, Victor col passato trova il futuro. Con La Belle Époque arriva sullo schermo un bastimento carico di idee e di attori celebri, una commedia nostalgica che risale il tempo e solleva lo spirito. Nicolas Bedos, ossessionato dal passaggio del tempo (Un amore sopra le righe), torna sui soggetti di predilezione: l’usura dei sentimenti e il rimpianto delle occasioni perdute. A sopportare gli oltraggi degli anni questa volta sono Fanny Ardant e Daniel Auteuil che interpretano con smalto una coppia sull’orlo di una crisi di nervi. Un uomo e una donna che da troppo tempo non condividono più niente e conducono vite parallele. Intorno a loro gravitano Guillaume Canet, regista tirannico e nevrotico, comme d’habitude, e Doria Tillier, compagna a intermittenza del personaggio di Canet che innamora il vecchio disegnatore di Auteuil.
Victor (Daniel Auteuil) e Marianne (Fanny Ardant) sono sposati da anni e stanno vivendo un momento di crisi. Quando viene proposto a Victor di rivivere su un set ricostruito un giorno qualsiasi della sua vita, lui sceglie il momento dell’incontro con la donna che ha sposato, interpretata da un’attrice. Nicolas Bedos muove dal rimpianto per delineare la cornice de La belle Epoque, racconto di una storia d’amore tormentata e non riconciliata. Il regista lavora con due attori di assoluto rilievo del cinema francese: corpi significativi nella costruzione di un film sentimentale, metanarrativo, contrassegnato dalla grazia, dal sentimento del ricordo e da una malinconia dai contorni fluidi. Uno sguardo sul passato nel quale la nostalgia si produce attraverso un’efficace mix di realtà e di finzione. Paolo Castelli
Convocate tutte le celebrità del cinema francese maggiore (Pierre Arditi e Denis Podalydès) e tutte le convenzioni della commedia degli equivoci, La Belle Époque è una messa in scena gioiosa del cinema che consente a Daniel Auteuil di ritrovare l’umorismo toccante dei vecchi ruoli e a Fanny Ardant la luccicanza sentimentale dei film di Truffaut, quella che la faceva svenire in un parcheggio dopo un bacio e le lasciava le cicatrici sui polsi perché in definitiva l’amore fa male. Convinti di non poter più stare insieme, le loro mani allacciate nel gran finale non intendono ragione. Perché Victor e Marianne sono fatti per accendersi e le loro mani per afferrarsi. Fatti per bruciare sempre e probabilmente ferirsi ancora. Bedos sceglie l’amore che dura e la riconciliazione di una coppia e di un uomo col suo tempo, regalando un sorriso persistente allo spettatore e tante sorprese. Sorprese che accumula tra andate e ritorni, recriminazioni e rievocazioni, carezze e schiaffi. Irriducibilmente brillante e ruffiano, l’enfant terrible della televisione (e non solo) porta sulla coppia uno sguardo tenero e fiducioso, incalzato da repliche e battute che fanno sognare o ridere di gusto.

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CINEMA CHE SFIDA IL TEMPO E SUPERA IL PRESENTE: DA NICOLAS BEDOS UN’ODE ALL’AMORE ETERNO

Gianluca Pisacane – Cinematografo.it

Tornare, riavvolgere. Cinema che sfida il tempo, che vuole superare il presente e lanciarsi nel passato. La realtà che si mescola con la finzione, il teatro che si fonde con il grande schermo. Come? Miracoli della tecnologia. Un’azienda soddisfa le richieste di clienti facoltosi, li riporta a qualsiasi momento storico che desiderano. Hitler, Hemingway, possono incontrare chiunque vogliano. Al bancone di un bar, in un ricco palazzo, basta qualche migliaio di euro per vivere la propria Midnight in Paris (anche se qui siamo a Lione). Ovviamente è tutto finto, ricostruito in studio, con figuranti pronti a interpretare un importante politico o la bionda dei tuoi sogni. La belle époque è il titolo della nostra “avventura”. Non si riferisce all’epoca a cavallo tra Ottocento e Novecento, ma al periodo migliore di ogni esistenza (nel film è il nome di un locale). Per Victor sono gli anni Settanta, quando per la prima volta ha iniziato a corteggiare la bella Marianne. Oggi il matrimonio è in rovina, i due sono lontani. L’unica soluzione è riabbracciare il 1974, quella notte in un cafè dove è scattata la scintilla. Partenza da commedia francese alla Assayas: dialoghi pungenti, cene complicate, dove i commensali vorrebbero accoltellarsi invece di mangiare insieme. Poi il ritmo cambia, il montaggio si fa più veloce, le scenografie sontuose. Gli anni Settanta prendono vita, in un palcoscenico alla Joe Wright dove tutto è in continuo movimento. Attori, luci, macchine, pareti. Nonostante lo spirito malinconico, La belle époque incarna l’animo frenetico del contemporaneo. Crea una ronde amorosa, in un continuo “scambio” di coppie. Che giocano, imparano a rispettarsi, a riscoprire la bellezza di ogni rapporto. Al centro c’è la nostalgia, elemento vibrante di un cinema che vuole essere ben più di Un amore sopra le righe. Il regista Nicolas Bedos fa un passo avanti, continua a interrogarsi sul senso dei minuti, delle ore. Diventa demiurgo, sceglie di condividere i propri tormenti con i suoi protagonisti. Realizza un’ode all’amore eterno, all’importanza dei legami, riflettendo sulla malinconia, sulla senilità. Analizza l’inizio e la fine della nascita della passione: la rottura tra Victor e Marianne, ma anche il sentimento inquieto che lega l’intransigente regista e la sua affascinante musa. Litigano, si lasciano, si allontanano per poi riavvicinarsi, con lui che le parla negli auricolari mentre lei è in scena. Amanti sull’orlo di una crisi di nervi, sospeso tra il grigiore di ogni giorno, una festa in salsa hippie e una cena in un’altra dimensione. E non a caso a un certo punto il protagonista si mette a sfogliare il capolavoro di Jack London Martin Eden. Perché in fondo La belle époque è una costante ricerca della libertà, dalle imposizioni della natura, dalle regole che spesso imprigionano. Con un ritmo giocoso, imprevedibile, che rallenta per poi ripartire a tutta velocità.

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LA NOSTALGIA PER “La belle époque”: MEGLIO LA FINZIONE DIGITALE O I RICORDI?

Stefano Giani – IlGiornale.it

Gli anni Venti – quelli della Belle Époque, per intenderci – sono lontani un secolo. La malinconia aveva lo stesso sapore di oggi ma non esistevano cellulari e telecamere. Microspie e computer. Decadi in parallelo. Passato e presente che sembrano icone di preistoria e fantascienza, distanti anni luce, più che anni e basta. A Lione “La belle époque” era un locale a metà strada tra ristorante e caffetteria e forse è esistito solo nella fantasia, o perlomeno nella giovinezza di Victor e Marianne, dopo vari decenni di matrimonio ormai ai ferri corti. Psicologa lei e disegnatore di fumetti lui. L’innamorata di social, nuovi media e terzo millennio si specchia senza successo in un uomo che detesta il digitale e ama vivere all’antica. Vorrebbe ricreare quello ieri disperso nella memoria che soltanto i suoi schizzi a carboncino sanno ospitare. Nostalgia con il fiato corto dell’ansia. La belle époque di Nicolas Bedos trova questa coppia al bivio. Victor (Daniel Auteuil apprezzato in In nome di mia figlia e Quasi nemici) e Marianne (Fanny Ardant) sono al punto di non ritorno. E lei lo mette alla porta. Proprio la sera dell’ultimo definitivo screzio, il figlio regala al padre un buono per viaggiare nel tempo. Un suo amico propone di realizzare il sogno di rivivere il giorno più bello della vita di papà. Victor non ha dubbi, è il 16 maggio 1974, quando conobbe la donna del suo cuore.

Detto fatto. Antoine (Guillaume Canet, già protagonista di Mio figlio e Il gioco delle coppie), di professione regista, burbero e severo con la passione delle donne, ricostruisce ciò che il tempo ha distrutto e “La belle époque” torna a brillare di luci e sensazioni. Schitarrate e sentimenti. Bicchieri di vino gettati in faccia al bonario lumacone. Anche lui, d’altri tempi. La nuova Marianne è la fidanzata di Antoine e deve far innamorare Victor, ricostruito anche lui in abbigliamento vintage. Il set è in collegamento con la gelosa regia del compagno. Tutto è pilotato. Finto. Tranne i sentimenti di Victor. Cinema e realtà si mescolano. Si attraggono. Si amalgamano. La malinconia resta. Il cuore batte instancabile e la nuova Marianne è bella come quella di 45 anni prima. Cupido lancia la freccia. È di nuovo amore. Ed è di nuovo beffa. Il trucco, quell’affabile trucco, finisce sulla porta del set. La belle époque è una commedia dolce in cui il tempo si stempera e la malinconia lo resuscita. Settimo decennio del Novecento. Ma anche la finzione creativa, l’alchimia spontanea che adatta tutto. Come se fosse vero. Amore pur sempre, ma stavolta è un gioco. Secondo decennio del terzo millennio. Il viaggiatore fra questi due estremi, il nostalgico Victor, rappresenta sentimento e verità. La vita contro il cinema, che l’esistenza la falsifica. La modifica. La riadatta. E poi, in fondo, è un peccato scoprire che sì… ognuno ha i suoi giorni. Fatti di tutto e di niente. L’attrice che interpreta Marianne, come la vera Marianne. La febbre di Antoine per Margot che deve sedurre Victor e ci riesce. Per sua sfortuna.

Nostalgia riverniciata. Cancellata. Se rinasce “La belle epoque” e i personaggi che vi gravitavano intorno perché mai quella finzione non può trasformarsi in attimi di scintillanti palpiti reali. Anche il posticcio, tutto sommato, fa danni. Regala istanti di felicità e vibrazioni ma toglie la genuinità di battiti accelerati e farfalle nello stomaco. Un telaio complesso di trame e di temi. Analogico contro digitale. Passato contro presente. Fantasia contro realtà. Immaginazione cinematografica contro fatti di vita vera. La Settima Arte all’epoca dei social è anche un interrogarsi sulla gestione di caratteri e il trasognato ritorno alla gioventù fatta di erba e pantaloni a zampa d’elefante odora di naftalina che nemmeno mesi di aria fresca saprebbero sciogliere. Non importa. Le trecce rosse restano quelle degli anni Settanta con la loro poetica armonia di sguardi incantati che sposano gesti aggressivi. Quando a nessuno sarebbe mai venuto in mente di rimproverare il compagno per il suo essere troppo all’antica. Perché in definitiva il futuro nessuno sapeva che cosa fosse.

IL RETROSCENA – Guillaume Canet interpreta il ruolo di un regista intollerante e bizzoso, impetuoso e pretenzioso. Insomma, uno che crea attriti ed è perennemente insoddisfatto dei suoi attori e li critica senza pause. Il personaggio ha contorni autobiografici, plasmati sullo stesso Nicolas Bedos, che ha confessato di essersi comportato con quelle stesse caratteristiche nel suo precedente film – Un amore sopra le righe – in cui i suoi sfoghi lunatici avevano avuto tra le vittime Doria Tillier, presente in entrambi i cast e ne La belle époque veste i panni di Margot. “È stato un modo di chiedere scusa per quelle esagerazioni” ha detto Bedos che, a suo modo, ha affrontato il transfert narcisistico del contrasto tra finzione e realtà che affligge molti registi.

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MGF

STANLIO & OLLIO
Regia di Jon S. Baird – USA, Gran Bretagna, 2018 – 97′
con Steve Coogan, John C. Reilly, Nina Arianda

1953. Ormai lontani dal loro momento di massimo splendore artistico, Stan Laurel (Steve Coogan) e Oliver Hardy (John C. Reilly), il più celebre duo comico di sempre, sognano di tornare alla ribalta, ma la loro popolarità sembra arrivata al capolinea. Ripensando al passato, tra nostalgia e l’amarezza per alcuni rancori mai sopiti, i due intraprendono un tour in Gran Bretagna, sperando di riuscire poi a tornare sul grande schermo.
Jon S. Baird vince la scommessa di restituire sul grande schermo l’umanissima genuinità del duo comico che più di ogni altro ha segnato l’immaginario collettivo. Un ritorno al passato che non vive del semplice ricordo idilliaco dei due protagonisti, ma che trova anzi la sua forza nel continuo disvelamento di ciò che le maschere sui loro volti nascondevano veramente.

Paolo Castelli

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UN BIOPIC CHE DIVERTE E RIEMPIE DI NOSTALGIA. UNO STRAORDINARIO RITORNO DI STANLIO E OLLIO, IN PERFETTO PARALLELISMO COL RACCONTO DEL FILM

Marianna Cappi – Mymovies.it

Nel 1953, Stan Laurel e Oliver “Babe” Hardy partono per una tournée teatrale in Inghilterra. Sono passati sedici anni dal momento d’oro della loro carriera hollywoodiana e, anche se milioni di persone amano ancora Stanlio e Ollio e ridono soltanto a sentirli nominare, la televisione sta minacciando l’abitudine culturale di andare a teatro e molti preferiscono andare al cinema a vedere i loro capolavori del passato oppure i nuovi Gianni e Pinotto, piuttosto che scommettere sulle loro esibizioni in teatrini di second’ordine. Eppure i due vecchi compagni di palcoscenico sanno ancora divertirsi e divertire, e la tournée diventa per loro l’occasione di passare del tempo insieme, fuori dal set, come non avevano mai fatto prima, e di riconoscere per la prima volta il sentimento di amicizia che li lega.

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NUREYEV – THE WHITE CROW

Regia di Ralph Fiennes – Gran Bretagna, 2018 – 122′
con Oleg Ivenko, Adèle Exarchopoulos, Chulpan Khamatova

Agli inizi degli anni Sessanta, Rudolf Nureyev (Oleg Ivenko) è un ballerino decisamente talentuoso che non ha ancora mostrato tutto il suo potenziale. Durante una tournée con il suo corpo di ballo, sarà folgorato dallo splendore di Parigi e dalla linfa culturale della capitale francese, tanto da non voler più far rientro a casa.
L’attore Ralph Fiennes dirige per la BBC la parziale biografia del ballerino più famoso del mondo, concentrandosi sugli anni della sua giovinezza per mettere in luce sia il talento che di lì a poco sarebbe stato manifesto al mondo intero sia il carattere caparbio e mai remissivo del protagonista, prigioniero del gioco storico politico del tempo. Molto riuscite l’idea di alternare i piani temporali del racconto tra infanzia e giovinezza e la suspence del finale.

Paolo Castelli

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UN FILM D’AMORE CON UNA SUA SINGOLARITÀ E UNA QUALITÀ VIRTUOSA DI MOVIMENTO.

Marzia Gandolfi – Mymovies.it

Ballerino intrepido e fuori da ogni schema, Rudolf Nureyev cresce in tecnica e splendore. Avido di conoscenza, la tournée del 1961 a Parigi è la risposta ai suoi desideri e al bisogno di conoscere più da vicino la cultura e il balletto occidentali. Le lezioni di inglese prese in Russia gli permettono di avvicinare i ballerini dell’Opéra, di comunicare con loro e di condividere i rispettivi punti di vista sulla danza e sul mondo. Incontenibile e ribelle, Nureyev sfora gli orari della ‘ricreazione’ e si attira i sospetti del KGB, che lo marca stretto. Le intemperanze hanno conseguenze drammatiche, il ballerino non andrà a Londra con la compagnia e deve essere immediatamente rimpatriato.
L’intervento tempestivo all’aeroporto di Le Bourget di Pierre Lacotte, ballerino e coreografo dell’Opéra, e Clara Saint, fidanzata del figlio di André Malreaux (Ministro della cultura), strappano Nureyev all’oblio. Il ballerino chiede asilo alla Francia, libero finalmente di danzare e di costruire la sua leggenda.

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