UN AFFARE DI FAMIGLIA – APPROFONDIMENTI
Un affare di famiglia
Regia di Kore’eda Hirokazu – Giappone, 2018 – 121”
con Lily Franky, Sakura Andô, Mayu Matsuoka
Osama (Lily Franky) e il piccolo Shota (Jyo Kairi) compiono alcuni piccoli furti nei supermercati per aiutare il sostentamento famigliare. Sono in cinque in casa, ma a loro si aggiungerà la piccola Yuri, figlia di due genitori che le prestano ben poche attenzioni…
Regista tra i più significativi del cinema giapponese contemporaneo, Hirokazu Kore-Eda torna a trattare uno dei temi del suo cinema: il rapporto biologico tra genitori e figli, rispetto alla ‘connessione’ che si può creare anche tra chi non ha un reale legame di sangue. Un film dal montaggio impeccabile e dai dialoghi scritti con grande cura, che scorre dall’inizio alla fine, senza intoppi e con una pienezza drammaturgica rara. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2018 dove ha vinto il premio più importante: la Palma d’oro.
Paolo Castelli
UN AFFARE DI FAMIGLIA, «QUANTO CONTANO I LEGAMI DI SANGUE?»
“Chi sono i veri genitori? Lo stesso interrogativo il regista l’aveva posto in Father & Son”.
di Vanessa Zarastro
In Shoplifters, titolo internazionale dell’ultimo film di Kore-eda che in italiano vuol dire taccheggiatori, il regista prosegue la sua operazione di scavo nella famiglia contemporanea giapponese. In Un affare di famiglia Kore-eda svuota la famiglia dai rapporti biologici riproponendola come comunità, come gruppo protettivo che vive e affronta assieme la vita.
I saperi vengono tramandati dagli anziani ai giovani così come avviene nelle famiglie biologiche. La poetica figurativa di Shoplifters è composta da gesti, sguardi e suoni; è messo in evidenza il linguaggio del corpo in tutti i suoi movimenti, suoni, umori;
Delicatissmo è l’affresco dipinto da Kore-eda di quest’ultima casa sopravvissuta, una sorta di baracca con il verde attorno, circondata ormai dall’urbano contemporaneo e da nuovi edifici residenziali più attrezzati e muniti di confort. Un Giappone molto diverso da quello scintillante e sofisticato delle riviste patinate.
I membri della famiglia di questo film sono una sorta di “zingari stanziali in versione giapponese”. Sono persone che vivono di espedienti e di piccole illegalità: Nobuko (Sakura Ando) vive con il marito Osamu (Lily Franky), il capofamiglia che lavora come operaio a cottimo in un’impresa edile, ma fa anche il taccheggiatore e si approvvigiona il cibo rubacchiando. Hatsue Shibata (Kirin Kiki), l’anziana nonna, ha una pensione cui assomma un provento più o meno lecito (forse un ricatto?) da un figlio che vive in una casa unifamiliare a due piani, in un’altra parte della città. La giovane Aki (Mayu Matsuoka) è studentessa, ma lavora anche come semi prostituta in un peep-show.
Accolgono a casa loro Juri (Miyu Sasaki), una carina e dolce bambina di cinque anni trovata sola, denutrita e maltrattata dai veri genitori; peraltro avevano già accolto Shota (Jyo Kairi) un ragazzino abbandonato in un’auto nel parcheggio di una zona di giochi e slot-machines. Di fatto ci sarebbero gli estremi di un rapimento, anche se, data la maniera affettuosa di occuparsi dei bambini, non si riesce proprio ad addossare loro alcuna colpa.
Una tematica attuale è se la genitorialità risieda in una questione di sangue o sia da riscontrarsi nell’affetto costante e continuo che cresce col figlio nei suoi primi anni di vita. Chi sono i veri genitori, quelli che procreano o quelli che allevano i figli e li proteggono dal mondo là fuori? Quanto contano i legami di sangue e quelli acquisiti? Cos’è dunque una famiglia?
La seconda parte del film consiste in una resa dei conti, un disvelamento, prima per lo spettatore, poi per i personaggi stessi. Sono mostrati gli interrogatori individuali dei membri della ormai scoperta “famiglia”. Primi piani, quadri fissi o lentissimi movimenti di macchina. Vengono fuori i problemi morali su cui la storia è costruita e Nobuko, incensurata, si addossa tutte le responsabilità.
Il film è stato premiato meritatamente con la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2018.
Il film di Hirokazu Kore-eda Palma d’oro al Festival di Cannes 2018
Federico Gironi – ComingSoon
Il nuovo film di Hirokazu Kore-Eda è come un fiore.
Del fiore ha la bellezza mai banale e del tutto naturale, e la delicatezza. Del fiore ha la capacità di nascere, e di portare questa sua bellezza, anche nei luoghi più grigi. Del fiore, più di ogni altra cosa, ha la capacità di dischiudersi lentamente, di trasformarsi, rivelandosi in tutta la sua complessità, in tutte le sue parti, che non sono solo quelle più evidenti.
Quello che vediamo all’inizio di Shoplifters, infatti, quello che siamo portati a credere per via dell’abitudine e di quei concetti della morale comune che Kore-Eda mette dolcemente in discussione, non è quello che sembra. E il film, e i suoi personaggi, e i loro rapporti, si disveleranno in maniera lenta ma inesorabile davanti ai nostri occhi, assumendo forme diverse, e appunto più complesse, come complesse diventano le questioni tirate in ballo dal regista.
Si tratta però di una complessità paradossalmente semplice, naturale, quasi spontanea. Come quella di un fiore, appunto.
LA CULTURA GIAPPONESE DELLA FAMIGLIA
In paesi come la Corea ed il Giappone, il fatto che un giovane viva con la famiglia fino anche all’età di 30–35 anni non rappresenta un valore negativo né di immaturità, ma un senso di devozione filiale.
Si può trovare una spiegazione a questo fatto nella cultura confuciana, che sostiene l’amore filiale e l’attaccamento alla famiglia ma, innanzitutto, profondo e radicato è il concetto di amae, sostantivo del verbo ameru, che significa “dipendere da”.

È stato soprattutto lo psicoanalista giapponese Takeo Doi (1920– 2009) a descrivere l’idea di amae. Nel suo libro Anatomia della dipendenza, pubblicato per la prima volta nel 1971, egli afferma che questa nozione non è una prerogativa esclusivamente giapponese, ma che i giapponesi sono l’unico popolo a possedere un ampio vocabolario che lo descriva a fondo.
L’amae è espressa dal rapporto tra la madre ed il bambino, che si consolida nei primi mesi di vita del neonato; tale rapporto implica che madre e bambino costituiscano un tutt’uno. È un’emozione che il lattante esperisce quando comincia a differenziare sé stesso dal corpo della madre, ma allo stesso tempo sente la sua vicinanza come indispensabile per la sua sopravvivenza. Questa dipendenza viene alimentata nel corso della crescita; se per l’occidentale è buona norma abituare, ad esempio, il bambino a dormire nella propria cameretta, in Giappone questo è ritenuto quasi crudele: esiste la camera dei bambini, ma fino all’età di circa dieci anni viene usata per lo studio ed i giochi e la notte si dorme tutti assieme nella camera dei genitori.
L’educazione è permissiva, indulgente, tollerante, il comportamento materno è di completa dedizione ed iperprotettivo; il bambino, crescendo, assorbirà la consapevolezza della bontà della madre, del suo sacrificio, maturando un sentimento di obbligo nei suoi confronti, che successivamente verrà trasferito in ogni relazione sociale.
La famiglia giapponese è caratterizzata da una madre psicologicamente e fisicamente presente e vicina, e da un padre assente, sempre al lavoro, con un ruolo piuttosto marginale. Si trovano conferme anche dal punto di vista religioso: al pari di quanto le religioni giudeo-cristiane sono basate molto sulla figura del padre, il buddismo e lo scintoismo lo sono sulla madre.
In Giappone la moglie assolve tutti i compiti: dalla gestione della casa e, naturalmente, dei figli, a quella delle finanze trasferite integralmente dal marito che, quando è presente, diventa spesso un estraneo ingombrante, arrivando anche a paradossi come quello dell’individuazione della RHS, Retired Husband Syndrome, che affliggerebbe le mogli di uomini andati in pensione che non riescono ad accettare la presenza quotidiana del marito in pensione, poiché durante la sua assenza durata per molti anni, hanno sviluppato uno stile di vita che viene completamente scardinato al momento del ritorno della figura maschile.
Questo legame tra genitore e figlio è talmente implicito da diventare criterio di giudizio di tutti gli altri vincoli interni alla società giapponese.
I giapponesi abitano contemporaneamente tre mondi della dipendenza:
* il regno genitore-figlio pervaso dall’amae;
* il luogo di lavoro, in cui la dipendenza è un elemento implicito del contratto sociale;
* il mondo degli estranei, dove la dipendenza reciproca non esiste.
La madre appartiene al mondo dell’uchi, del dentro: la simbiosi, l’empatia, l’intima complicità, l’armonia che va a crearsi tra madre e figlio, dovrà essere trasferita soto, fuori, nelle relazioni esterne, in una forma diversa, che manterrà sempre una salda forma di riserbo, chiamato enryo. È come se ci si attenesse a un doppio registro psichico: uno per l’interno e uno per l’esterno.
L’assenza del padre è fisica, ma la figura patriarcale che egli rappresenta è sempre ben presente, forte, invadente: è attorno ad essa che si creano le aspettative nei confronti del figlio, che dovrà portare sempre il padre come esempio, specialmente se primogenito e maschio, futuro capofamiglia della generazione successiva. Quando i genitori saranno anziani e deboli, a lui spetterà il compito di aiutarli ed assisterli: le due generazioni possono scegliere di vivere separatamente quando sono giovani ed in salute, ma i loro legami emotivi di lealtà, dovere e dipendenza rimarranno fortissimi per tutto il ciclo della vita.
È dagli anni ’60 in poi, quando l’economia giapponese cominciò a crescere e la generazione postbellica andò a vivere nelle nuove città-dormitorio ricostruite dopo i massicci bombardamenti americani, nuclei urbani ad altissima densità di popolazione, che la tradizionale famiglia allargata consanguinea giapponese (sistema dello ie 家, o del lignaggio) si è trasformata, disgregata, ed i padri hanno lasciato le case per dedicarsi completamente al lavoro. Il successo economico è divenuto la priorità assoluta per gli uomini, tanto che la mascolinità, la virilità stessa in Giappone è intesa come la capacità di essere uomini forti, calmi, concentrati sul proprio lavoro, con un controllo costante sui propri sentimenti.
Le famiglie moderne tendono a essere di tipo nucleare, con sempre meno bambini rispetto al passato (il tasso di natalità si è abbassato fino a 1,3 figli per donna).
Giada Farrah Fowler
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