Docufilm diretto da Giovanni Piscaglia.
In occasione delle celebrazioni a 500 anni
dalla morte e della grande mostra della
Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia,
il film evento che celebra (per la prima
volta)uno dei pittori più amati e geniali del suo
tempo e gli restituisce il ruolo che merita
all’interno della storia dell’arte
PERUGINO: IL PERFETTO CONNUBIO TRA NATURA E PROSPETTIVA
Pietro di Cristoforo Vannucci nasce a Città della Pieve intorno al 1448; a contatto con i più grandi artisti dell’epoca, egli è -a ragione- considerato uno dei maggiori esponenti dell’Umanesimo.
Cresciuto ammirando e studiando le opere di Piero della Francesca, nelle opere di Perugino si nota con estrema chiarezza l’influenza degli studi prospettici di costui; ancor più chiaro, ed elevato a livelli che il della Francesca stesso non raggiunse mai, è l’influsso del realismo accentuato dei Fiamminghi, di cui Piero della Francesca fu grandissimo ammiratore.
Grazie alla formazione artistica ricevuta in quel di Perugia, in botteghe locali, Perugino sviluppa un fortissimo senso della prospettiva, che combina le tecniche puramente formali con un sapiente utilizzo della luce, che sottolinea e sublima lo sfondo architettonico.
Più avanti, intorno alla fine degli anni Sessanta del Quattrocento, Perugino si reca a Firenze, dove viene preso a bottega da Andrea del Verrocchio: lo stesso maestro di Leonardo da Vinci. Ed è qui che la sua arte comincia realmente a sbocciare, portando quello che era un freddo razionalismo di linee a diventare una delle più fedeli rappresentazioni della realtà.
Perugino unisce la geometria alla copia dal vero, facendo suoi gli insegnamenti della scuola umbra e incorporandoli magistralmente nel paesaggismo della scuola fiorentina, andando così a creare delle immagini che potrebbero essere tranquillamente prese direttamente dalla realtà.
Con Perugino si perde quella distanza che fino a poco prima si poteva percepire tra sé stessi e l’opera, viene a mancare il senso di lieve irrealtà e di sottile straniamento: le sue opere sono reali, il suo pennello trasforma la tela in carne, stoffa, fogliame e cielo, quasi
una sorta di mistica transustanziazione.
L’arte di Perugino, per quanto egli sia oggi meno famoso degli artisti con cui ebbe occasione di lavorare (dal già citato Leonardo da Vinci fino a Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio, del quale fu maestro), sembra avere qualcosa in più, un tocco magico che la porta dalla semplice rappresentazione di scene religiose a una sorta di metafisico viaggio nell’episodio, trasportando lo spettatore all’interno dell’opera, a fianco del Cristo che consegna le Chiavi a San Pietro, facendolo inginocchiare davanti al Corpo del Signore deposto dalla Croce.
Forse è l’attenzione al paesaggio, che per quanto funga solo da sfondo resta preponderante nella sua resa realistica, “a piani d’aria” come anche Leonardo la strutturerà. Forse è la sua architettura, mai scontata, mai scorretta, sempre immacolata eppure curiosamente realistica nella sua etericità.
Dopo aver lavorato per diversi committenti di notevole importanza, dai Medici finanche al Papa, Perugino si stabilisce a Firenze, prende moglie e apre bottega, istruendo innumerevoli allievi fino a diventare persino più famoso e stimato degli altri artisti che avevano bottega nella stessa città, più apprezzato di Ghirlandaio e Botticelli.
Ora, a Firenze sta per aprirsi un periodo particolare, che colpisce molti artisti in maniera più o meno profonda: la morte di Lorenzo il Magnifico, seguita dall’impetuosa ascesa del Savonarola e dei suoi toni apocalittici.
Ma, se Botticelli viene fortemente influenzato da questa figura, l’arte di Perugino subisce meno di uno scossone: è vero che le sue opere diventano più serie e mature, i toni dei suoi colori più cupi, ma la composizione resta serena, armonica, con chiaroscuri delicati e figure eleganti e quasi angeliche nelle loro pose morbide e mai forzate, e la luce è sempre protagonista: sottile, a volte fioca e altre volte impetuosa, così ben definita che quasi sembra di indovinare la stagione e di sentirne i profumi e udirne il suono, distante ma sempre una costante che fa capolino dalla sua resa di cieli tersi e nuvolosi, dal rifrangersi dei raggi su muri e colonne e sui panneggi dei personaggi ritratti, siano essi
mitologici o biblici.
Tuttavia, ogni meravigliosa avventura deve avere un termine: la fama di Perugino comincia a declinare dal 1503, dopo che Isabella d’Este critica un’opera che ella stessa aveva commissionato. Dopodiché, il pubblico fiorentino prima e infine il Papa criticano lesue opere: forse era diventato ripetitivo, Vasari riferisce che aveva cominciato a riutilizzare gli stessi cartoni in maniera esagerata, o forse semplicemente non era più il tempo adatto al realismo dolce della sua arte.
Si ritira in Umbria, si può dire che torna a casa, e si occupa prevalentemente di piccole commissioni votive fin quando la peste non pone fine alla sua vita, nel 1532.
Un finale in sordina, forse, ma guardandoci alle spalle non possiamo che restare ammaliati di fronte alla vastità del talento di Perugino, in rispettosa adorazione al cospetto di un’arte così ampia e variegata, così pregna di elementi diversi tra loro eppure così armonica e naturale: un vero e proprio miracolo su tela.