DOWNTON ABBEY

Regia di Michael Engler – Gran Bretagna, 2019 – 122′

con Hugh Bonneville, Jim Carter, Elizabeth McGovern, Maggie Smith

 

1927. Un grande evento sconvolge la quiete della splendida tenuta Downton Abbey: il conte di Grantham, Robert Crawley (Hugh Bonneville), riceve una lettera direttamente da Buckingham Palace, nella quale viene comunicato che il Re e la Regina d’Inghilterra faranno visita alla dimora.
Dopo 52 episodi divisi in 6 stagioni televisive, la fortunata serie di Downton Abbey approda sul grande schermo. Si torna nella celebre residenza, in una sorta di sequel pensato appositamente per il cinema e dotato delle caratteristiche e dinamiche che componevano il format british: attori in formissima all’interno di un cast che continua a fare dell’armonia il principale punto di forza, humour, sorrisi, sguardi e punti di vista sul mondo dei serviti e dei servitori nella Gran Bretagna sotto il regno di Re Giorgio V.

Paolo Castelli

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UN INGRANAGGIO BEN OLIATO E ASSEMBLATO A REGOLA D’ARTE. TUTTO MOLTO FAMILIARE, TUTTO IRRESISTIBILMENTE PIACEVOLE

Paola Caselli – Mymovies.it

1927. Downton Abbey è l’aristocratica dimora nello Yorkshire di proprietà della famiglia Crawley, al cui comando ora sono la primogenita Mary e il cognato Tom Branson, subentrarti al conte Robert e alla sua moglie americana Cora. La grande notizia è che re George V e sua moglie Mary (i nonni dell’attuale regina Elisabetta, per intenderci) verranno in visita e soggiorneranno presso i Crawley per una cena e una nottata. Tutta Downton Abbey si mobilita per accogliere degnamente i coniugi reali, e l’austera Mary cerca di neutralizzare le due mine vaganti: Tom l’irlandese, le cui idee indipendentiste potrebbero apparire indigeste ai reali, e il maggiordomo Thomas Barrow, subentrato all’affidabile Charles Carson. Per ovviare al secondo rischio Mary richiama Carson dalla pensione, e naturalmente Barrow risente dello schiaffo morale. Ma nessun affronto è peggiore dell’imposizione, da parte dei sovrani in visita, di sostituire all’intero gruppo di domestici di Downton Abbey lo staff della Casa reale. Dopo 52 episodi e sei stagioni televisive, Downton Abbey fa il salto verso il grande schermo, soddisfacendo il desiderio dei milioni di fan orfani della loro serie preferita. E la versione cinematografica della saga si rivela perfettamente aderente alle aspettative, un ingranaggio ben oliato e assemblato a regola d’arte: i personaggi restano fedeli alle rispettive caratterizzazioni ed entrano in dinamiche interrelazionali riconoscibili (anzi, anticipabili) dal pubblico degli aficionados, e anche se la trama non è particolarmente avvincente, ogni svolta della storia è seminata a dovere e raccolta al momento giusto, e l’atmosfera a base di tazze di tè, completi di tweed e “Dio salvi la regina” ha l’effetto rassicurante di un comfort food. In questo senso Downton Abbey è il perfetto antidoto ai tempi disordinati e anarcoidi in cui viviamo: una sorta di anti Joker adatto a ricollocarci in un’epoca in cui il divario sociale si
1927. Un grande evento sconvolge la quiete della splendida tenuta Downton Abbey: il conte di Grantham, Robert Crawley (Hugh Bonneville), riceve una lettera direttamente da Buckingham Palace, nella quale viene comunicato che il Re e la Regina d’Inghilterra faranno visita alla dimora. Dopo 52 episodi divisi in 6 stagioni televisive, la fortunata serie di Downton Abbey approda sul grande schermo. Si torna nella celebre residenza, in una sorta di sequel pensato appositamente per il cinema e dotato delle caratteristiche e dinamiche che componevano il format british: attori in formissima all段nterno di un cast che continua a fare dell誕rmonia il principale punto di forza, humour, sorrisi, sguardi e punti di vista sul mondo dei serviti e dei servitori nella Gran Bretagna sotto il regno di Re Giorgio V. Paolo Castelli
esprimeva in modo, per così dire, meno conflittuale. Certo, il film lascia chiaramente intendere che l’aristocrazia si sta avviando sul viale del tramonto e che certe caste e certi privilegi saranno (almeno in parte) sovvertiti: ma per il momento gli happy few vivono ancora di rendita, drappeggiati in meravigliosi costumi d’epoca e alloggiati in stanze sapientemente decorate e illuminate.[…] Lo sceneggiatore Julian Fellowes tiene la politica a distanza e si concentra sui rapporti fra i personaggi, spesso colorati da attrazione e sentimento. Tutto molto familiare, tutto irresistibilmente piacevole. Le rare scintille sono lasciate all’impareggiabile Maggie Smith nel ruolo della contessa Violet che battibecca con Isobel Merton e lancia frecciate a Lady Bagshaw, cugina e dama di compagnia della regina, interpretate rispettivamente da Penelope Wilton e Imelda Staunton. Al punto che viene spontaneo chiedersi se il prossimo episodio non possa essere uno spin off con le tre leonesse come protagoniste assolute.

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IL RITORNO DOPO ALCUNI ANNI DEI NOBILI E DELLA LORO SERVITÙ NON DELUDERÀ GLI AMANTI DELLA SERIE E NON SOLO.

Mauro Donzelli – Comingsoon.it

[…]Dopo quasi tre anni dalla conclusione della sesta e ultima stagione, oltre a vari tentativi poi abortiti, è giunto il momento del film di Downton Abbey. Un’occasione per soddisfare gli amanti della serie in crisi d’astinenza, ma soprattutto per avere la conferma che il creatore e sceneggiatore, Julian Fellowes, ha saggiamente atteso qualche tempo prima di avere l’idea giusta. Il formato è simile a quello degli speciali di Natale che sono stati proposti in passato, con un plot concentrato intorno a un evento importante per la casa. Quale più di una visita reale per ricompattare gli abitanti, anche quelli che l’avevano da poco lasciata, come Mr Carson, che si conferma uno dei personaggi più interessanti e amati della saga, insieme a una straordinaria Maggie Smith, ancora una volta, nei panni di Lady Violet. È lei a prendere le redini della parte conclusiva del film, quando la visita reale si sta concludendo ed è il momento di riprendere il filo della vita e del futuro della gente di Downton. I suoi dialoghi pungenti e i battibecchi sul filo di un’esilarante ironia sono, al solito, memorabili. Questa volta duetterà perlopiù con un nuovo personaggio che le tiene testa, la cugina e dama di compagnia della regina, Lady Bagshaw (Imelda Staunton). Diciamolo subito, l’operazione convince in pieno e non dà la sensazione di una minestra riscaldata. In un periodo in cui i confini fra cinema e televisione sono sempre più sfumati non ci sembra inopportuno vedere un prodotto del genere sul grande schermo. Una visione che riconcilia con la scrittura arguta e complessa, con delle recitazioni sempre impeccabili, per ogni singolo ruolo, e non sono pochi. Fellowes si conferma grande antropologo capace di analizzare l’evoluzione dei vizi e delle virtù della società britannica, eccellendo nelle sottottrame, nella cura con cui vengono rappresentati gli anni che passano, con le variazioni sociali e nei costumi, attraverso piccole sottolineature, fugaci momenti.

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I TEMPI E GLI SCHERMI CAMBIANO, DOWNTON ABBEY NO

Max Borg – Movieplayer.it

[…]Michael Engler aveva già diretto l’episodio di commiato di Downton Abbey, il che assicura una coerenza visiva che con il grande schermo non affievolisce, avendo il mantenuto un’estetica elegante ed ambiziosa degna dei migliori film in costume. Torna anche il creatore Julian Fellowes, con un copione che rispolvera il sistema delle classi sociali britanniche con la solita sagacia, senza dimenticare i dialoghi calibrati al millimetro, da ascoltare rigorosamente in originale per apprezzare il sarcasmo tipicamente british di personaggi come Violet, un’autentica miniera d’oro per quanto riguarda le frasi più memorabili del film (“Io non litigo. Spiego.“).

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DOWNTON ABBEY: I DIECI PERSONAGGI MIGLIORI DELLA SERIE TV

Max Borg – Movieplayer.it

10) ANNA BATES

La servitrice personale di Lady Mary, introdotta come un figura relativamente minore nei primi episodi della serie, col passare del tempo Anna Bates si è ritagliata uno spazio sempre più importante con il suo mix di eterna gentilezza e determinazione, unita a un delizioso accento, quello naturale dell’attrice Joanne Froggatt, che incarna alla perfezione lo spirito del Yorkshire dove è ambientato lo show (mentre i Crawley, essendo di rango più nobile, si esprimo con la cosiddetta received pronunciation, vale a dire l’accento inglese “neutro” associato alle classi più benestanti). È anche protagonista di quella che, a nostro avviso, è la storia d’amore più bella di tutta la serie, al fianco dell’altrettanto amabile John Bates.

 

9) CORA CRAWLEY

Lady Grantham, la moglie di Robert Crawley, è tra le figure più affascinanti dell’universo di Downton Abbey in quanto outsider per eccellenza, essendo americana (in uno degli episodi natalizi incontriamo la madre e il fratello, interpretati rispettivamente da Shirley MacLaine e Paul Giamatti). Questo dà a Cora Crawley un punto di vista abbastanza unico all’interno delle mura di Downton, e il modo in cui Elizabeth McGovern interagisce con i colleghi inglesi, dandosi una parlata vagamente nobile ma comunque “sporcata” dalle sue origini oltreoceano, regala a molte delle sue scene un’aria da classica commedia sofisticata.

 

 

8) THOMAS BARROW

Quella di Thomas è forse l’evoluzione più interessante di tutto lo show: inizialmente era un vero e proprio antagonista, con l’intenzione di farlo sparire al termine della prima stagione dopo il fallimento del suo piano nefasto, ma la performance di Rob James-Collier convinse i produttori a farlo rimanere. Saggia decisione, perché col passare degli anni, pur rimanendo in parte tendente ai complotti e poco affidabile, Thomas Barrow si è gradualmente trasformato in una sorta di figura tragica, condannato all’infelicità perché nonostante i suoi successi professionali non potrà mai essere completamente se stesso, dato che è segretamente gay e nel periodo in cui è ambientato lo show l’omosessualità era ancora illegale nel Regno Unito.

 

 

7) JOHN BATES

Servitore personale di Lord Grantham, anche John Bates, come la sua futura moglie Anna, da personaggio minore si è mutato in uno dei personaggi migliori di Downton Abbey oltre che uno dei più importanti, grazie soprattutto a una delle storyline più drammatiche dello show: l’accusa dell’omicidio della sua ex-moglie, che lo porta ad essere arrestato nel finale della seconda stagione e scontare una pena carceraria che durerà fino al terzultimo episodio della terza, una volta appurata la sua innocenza. È un personaggio affascinante anche perché, a differenza della maggior parte degli abitanti di Downton, non esita a far uscire il proprio lato oscuro se necessario, anche se nel complesso, soprattutto se al fianco della moglie, è l’emblema della felicità per quanto riguarda i piani inferiori della dimora.

 

 

6) MATTHEW CRAWLEY

Il ruolo che ha trasformato Dan Stevens in una star e spezzato il cuore ai fan quando il personaggio è stato ucciso alla fine della terza stagione, nello speciale natalizio, vittima di un incidente automobilistico mentre torna dall’ospedale dopo la nascita del figlio (una scelta obbligata poiché Stevens voleva lasciare la serie e Julian Fellowes lo venne a sapere all’ultimo, e qualunque altra opzione avrebbe danneggiato la storyline). Un’uscita di scena che lasciò l’amaro in bocca anche perché Matthew Crawley, arrivato a Downton Abbey nel primo episodio praticamente da esterno, era sostanzialmente la nostra guida, ed era tramite lui che ci eravamo affezionati a quel mondo, grazie al suo misto di sangue nobile e prospettiva da persona che conosce anche il mondo esterno, concetto che poi è stato applicato in parte anche a un altro personaggio fondamentale.

 

 

5) TOM BRANSON

Introdotto nella prima stagione come autista, Tom Branson è poi entrato a far parte della famiglia tramite il matrimonio con Sybil Crawley, pur restando, almeno ideologicamente, un outsider a causa della sua origine umile e della nazionalità irlandese, il che lo rende a volte una presenza ingombrante a Downton quando si parla di politica. Anche lui, per certi versi, è l’altero ego dello spettatore, e il suo carisma “terra terra”, unito a una grande onestà intellettuale (pur disprezzando l’aristocrazia, vuole bene alla famiglia Crawley perché trattano tutti con il dovuto rispetto), l’ha trasformato in una delle figure più sottilmente complesse dello show, ponendo anche le basi per una delle sottotrame più interessanti (e a tratti una delle più appaganti) del film.

 

 

4) MRS. HUGHES

Tra i pochi personaggi a non avere un nome di battesimo (o meglio, non l’abbiamo quasi mai udito, salvo rare eccezioni come l’episodio finale della serie), Mrs. Hughes è l’anima dei piani inferiori di Downton, compassionevole nei confronti dello staff (esemplare il suo rapporto di amicizia con i coniugi Bates) ma anche guidata da un senso del dovere che si traduce in una mentalità severa e contraria al nonsense, ulteriormente arricchita dal suo essere spudoratamente, deliziosamente scozzese. Irresistibili i suoi occasionali battibecchi con Mr. Carson, che sposerà al termine dello show.

 

 

 

3) LADY MARY CRAWLEY

Altro caso di notevole evoluzione nel corso dello show, nella prima stagione Mary Crawley era la classica figlia viziata e in parte decisamente insopportabile a causa della sua mentalità puramente pragmatica nei confronti dei nuovi arrivati. Poi, complice l’amore per Matthew, si è addolcita, fino a diventare uno dei nuclei emotivi della serie, con una trasformazione tale che, nelle annate finali e anche nel film, è diventata praticamente la migliore amica di Branson, cosa assolutamente impensabile nel 2010 quando la conoscemmo per la prima volta.

Uno dei migliori esempi della scrittura a lungo termine di Fellowes, coadiuvato dalla performance di Michelle Dockery (la quale, per sua ammissione, nella vita è decisamente poco aristocratica, essendo originaria dell’Essex e quindi teoricamente più adatta a interpretare una serva).

 

 

2) MR. CARSON

Il maggiordomo di Downton, interpretato con granitica dignità da Jim Carter, Mr. Carson è una figura affascinante per il suo attaccamento al dovere, dietro il quale si cela però un affetto genuino per tutta la famiglia, in particolare per le tre figlie di Lord Grantham e soprattutto per Lady Mary, che difende dalle critiche di Mrs. Hughes nella prima stagione. Per certi versi è lui la vera anima della dimora, e il suo pensionamento nel finale di serie per motivi di salute è uno degli apici dello show a livello di pathos, così come lo è la sequenza del film in cui lui, in occasione della visita dei reali, torna a casa, per così dire, per servire ancora una volta i Crawley.

 

 

1) LADY VIOLET CRAWLEY

Potevamo non mettere lei al primo posto tra i migliori personaggi di Downton Abbey? Certo, Maggie Smith con la serie ha un rapporto che si può definire conflittuale (ha candidamente ammesso, dopo ripetute pressioni da parte di un conduttore televisivo, di non aver mai visto un episodio), ma la sua presenza nei panni dell’acida, perennemente sarcastica Lady Violet è una fonte di gioia come poche altre, grazie a un attaccamento alle tradizioni che fa del personaggio una riserva inesauribile di freddure nei confronti di tutto e tutti, parenti inclusi. La più bella, però, è stata tenuta da parte per il film, dove lei ancora una volta ruba la scena: “Io non litigo. Spiego.”

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MGF

Sabato 25 gennaio ritornano i dinosauri al Fratello Sole, con due spettacoli pomeridiani: 15.30 e 18.00

Ecco cosa dicono di loro:

Quattro risate nella preistoria tra comicità e dinosauri giganti

E se i dinosauri tornassero tra noi? E se ricomparisse anche l’uomo di Neanderthal? A teatro questo è possibile: ma non nell’illusione che si crea sul palcoscenico, ma proprio in carne e ossa.Una storia esilarante ambientata in un museo dove i giganti preistorici prenderanno vita grazie all’enigma della “tavola del tempo” risolto dal paleontologo tedesco Alfred. C’è poi la direttrice del museo, uno scienziato un po’ pazzo, due ladri maldestri e l’uomo di Neanderthal, che danno vita a una serie di gag e trovate che rendono lo spettacolo gradevole sia per gli adulti sia per i bambini.I dinosauri in scena sono 5 (un tyrannosaurusrex, un velociraptor e un triceratopo e 2 cuccioli di t.rex): 5 macchine straordinarie a grandezza naturale, costruite in gommapiuma e stoffa su uno scheletro d’acciaio, pesanti circa 40 chili e guidate all’interno da un operatore con telecamera, monitor e joystick per guidarne i movimenti. Un vero prodigio della tecnologia “animatronic” – ossia quella multi-disciplina che unisce anatomia, robotica, meccanica e teatro di figura per creare pupazzi con caratteristiche del tutto realistiche. .I nostri dinosauri sono stati scelti dalle seguenti  trasmissione televisive:  TU SI QUE VALES  – GRANDE FRATELLO VIP- I SOLITI IGNOTI.

Per info o prenotazioni :  366 9590150 dal lunedì al venerdì dalle 9.30 -12.30 e 17.00-19.30

Prezzo : Bambini € 10.00 – adulti € 13.00

Durata: 1 ora

Età consigliata: da 2 anni in poi

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Vi aspettiamo numerosi!

LEONARDO. LE OPERE

Docu-film di Phil Grabsky

MARTEDI’ 14 GENNAIO – ORE 16.00 e 21.00

Il nuovo docu-film che indaga le opere pittoriche dell’artista di Vinci per un’inedita visione in ULTRA HD accompagnata dal commento di alcuni dei massimi esperti mondiali di Leonardo.

LE OPERE PITTORICHE DI LEONARDO

di Beatrice Fiorello

Se c’è un artista che non ha bisogno di presentazioni, quello è Leonardo da Vinci.

Genio a tutto tondo, della sua epoca come della nostra, nel corso della sua vita ha esplorato moltissimi campi del sapere: quasi tutti, si potrebbe dire, passando con eguale disinvoltura dall’arte pittorica alla scienza, alla musica, alla geologia… si interessò persino di paleontologia, in un’epoca in cui non era certo comune interessarsi alla materia.

Nato a Vinci nel 1451, figlio bastardo di un notaio, fu presto messo a bottega presso l’artista Andrea del Verrocchio, e da subito cominciò a mostrare i segni inequivocabili di un precoce quanto straordinario talento, arrivando persino ad oscurare la maestria del Verrocchio.

La sua giovane mano si può già riconoscere nel dettaglio del volto di un angelo in un’opera del suo maestro (Il Battesimo di Cristo, 1475) e, non si può negare, oscura l’intero dipinto che pur nella sua splendida fattura è relegato ad essere una mera cornice per quel volto delicato e attraente. E proprio questa delicatezza nel dipingere i tratti umani è, secondo me, una delle caratteristiche più affascinanti di Leonardo, al di là di ovvie constatazioni sulla sua maestria e sulla sua straordinaria intelligenza eclettica: guardando un’opera di Leonardo non si può che restare affascinati da quei volti dolci, di bell’aspetto e quasi asessuati.

 

Nei volti dipinti da Leonardo le emozioni sono sempre le protagoniste: ne sono una prova gli innumerevoli disegni preparatori eseguiti per dipingere il perduto e grandemente rimpianto affresco raffigurante la Battaglia di Anghiari. Volti contratti, deformati dall’ira e dalla furia della battaglia, contorti nel dolore, estremamente diversi l’uno dall’altro e mai banali; tuttavia, ogni viso riporta sempre la consueta morbidezza dei tratti, sia nel soffice gonfiarsi delle guance di un giovinetto, sia nell’aggrumarsi delle rughe di un anziano.

 

Leonardo amava profondamente la realtà ed era in grado di trarre da essa il meglio e il peggio, la quotidianità e lo straordinario, per poi unire il tutto ed elevarlo ad un grado di bellezza e realismo quasi ultraterreno. L’arcinota Vergine delle Rocce ne è un fulgido esempio: un volto di mamma, quello di Maria, bello e immortale nella sua ordinaria bellezza, che è il viso di tutte le mamme. Dolce, un po’ stanco forse, con quell’ombra di preoccupazione che è presagio del destino che Maria sa attendere il suo unico Figlio, e forse una minuscola punta di disapprovazione per il piccolo Giovanni, che portando un bastone a croce ne è memoria visiva.

 

 

 

 

Oppure, i molteplici ritratti, dalla Monna Lisa alla Dama con l’Ermellino, finanche al ritratto di Ginevra de’ Benci e a La Belle Ferronière: ogni donna è diversa dalle altre, lo stile pittorico cambia in maniera innegabile da un ritratto all’altro e la veridicità della resa pittorica è tale che i personaggi all’epoca dovevano essere stati perfettamente riconoscibili e ancora stupisce come la mano delicata di Leonardo abbia saputo dare alla Monna Lisa quell’aura di mistero che la contraddistingue, sfumandola quasi nel paesaggio.  Sembra di riconoscere una donna timida e ritrosa, convinta a stento a farsi ritrarre, ma che vorrebbe essere da tutt’altra parte. Nella Dama con l’Ermellino e nella Belle Ferronière si riconosce un fiero orgoglio, eppure in toni diversi: la Dama è altera, nobile, fissa lo spettatore dall’alto in basso come a voler sottolineare il proprio rango, mentre la Ferronière è una superba bellezza del popolo, una donna che ci si aspetta possa essere l’angelo caduto dal cielo che serve da bere agli assetati e ne allieta la giornata con un sorriso, forse storto ma sicuramente così allegro da far dimenticare per un istante i dolori. Due donne forti, dunque, eppure nessuna delle due è stereotipata o caricaturizzata.

 

Ed è proprio questo suo talento nel cogliere il fluire dei sentimenti che rende doloroso osservare il suo autoritratto eseguito in tarda età: un vecchio dall’aria scorbutica, con le labbra piegate all’ingiù e le sopracciglia cespugliose aggrottate in un cipiglio duro e scostante. Una barba lunga, pochi accenni al resto del corpo: perché questo era, Leonardo, pura mente, e noi non possiamo ardire di immaginare quale peso deve recare al suo portatore una tale capacità di comprendere, teorizzare e mettere in atto. Possiamo solo figurarci un uomo che non smise mai di cercar “virtute e conoscenza”, per dirla con Dante Alighieri, un saggio mai pago della propria cultura, un affamato di novità dall’infanzia a quando l’ultimo respiro lasciò il suo petto, invitandolo ad una nuova scoperta.

Morì il 2 maggio del 1519, in Francia, solo.

 

 

“Chi ha provato il volo camminerà guardando il cielo, perché là è stato e là vuole tornare.”

Leonardo da Vinci

UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK

Regia di Woody Allen – USA, 2019 – 92′
con Timothée Chalamet, Selena Gomez, Jude Law

Gatsby (Timothée Chalamet) e Ashleigh (Elle Fanning), fidanzatini del college, entrambi di estrazione borghese, decidono di trascorrere un romantico weekend a New York, ma i loro piani vengono completamente stravolti non appena mettono piede in città. I due, fin dal loro arrivo a Manhattan, si ritrovano separati e si imbattono in una serie di incontri casuali che, in maniera più o meno significativa, cambieranno le loro vite.
In Un giorno di pioggia a New York il cinema di Allen si dipana in un gioco che rende omaggio alle fini tessiture della miglior commedia romantica hollywoodiana degli anni ’30 e ’40.
Il film è una mappatura del sentimento amoroso, in cui giocano un ruolo centrale il Tempo e il Caso, due variabili in grado di stravolgere qualsiasi disegno precostituito.

Paolo Castelli

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TORNA IL ‘SISTEMA ALLEN’ CON UNA COMMEDIA CAUSTICA, INCISIVA E INEFFABILE, COME LA NASCITA DI UN SENTIMENTO.

Marzia Gandolfi – MyMovies.it

Gatsby e Ashleigh hanno deciso di trascorrere un fine settimana a New York. Lui viene da New York e non vede l’ora di mostrare alla fidanzata la sua città natale e lo charme vintage dei suoi luoghi di predilezione.

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LA BELLE ÉPOQUE

Regia di Nicolas Bedos – Francia, 2019 – 110′
con Daniel Auteuil, Guillaume Canet, Doria Tillier

Victor (Daniel Auteuil) e Marianne (Fanny Ardant) sono sposati da anni e stanno vivendo un momento di crisi. Quando viene proposto a Victor di rivivere su un set ricostruito un giorno qualsiasi della sua vita, lui sceglie il momento dell’incontro con la donna che ha sposato, interpretata da un’attrice.

Nicolas Bedos muove dal rimpianto per delineare la cornice de La belle époque, racconto di una storia d’amore tormentata e non riconciliata. Il regista lavora con due attori di assoluto rilievo del cinema francese: corpi significativi nella costruzione di un film sentimentale, meta-narrativo, contrassegnato dalla grazia, dal sentimento del ricordo e da una malinconia dai contorni fluidi.
Uno sguardo sul passato nel quale la nostalgia si produce attraverso un’efficace mix di realtà e di finzione.

Paolo Castelli

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UNA MESSA IN SCENA GIOIOSA DI UN CINEMA CHE REGALA UN SORRISO PERSISTENTE ALLO SPETTATORE

Marzia Gandolfi – Mymovies

Victor e Marianne sono sposati e ‘inversi’. Lui vorrebbe ritornare al passato, lei andare avanti. Disegnatore disoccupato che rifiuta il presente e il digitale, Victor è costretto a lasciare il tetto coniugale. A cacciarlo è Marianne, psicanalista dispotica che ha bisogno di stimoli e ne trova di erotici in François, il migliore amico di Victor. Vecchio e disilluso, Victor accetta l’invito della Time Traveller, una curiosa agenzia che mette in scena il passato. A dirigerla con scrupolo maniacale è Antoine, che regala ai suoi clienti la possibilità di vivere nell’epoca prediletta grazie a sontuose scenografie e a un gruppo di attori rodati. Tutto è possibile, bere un bicchiere con Hemingway o sparare sull’aristocrazia del XVIII secolo. Victor sceglie di rivivere il suo incontro con Marianne, una sera di maggio del 1974 in un café di Lione (“La belle époque”). Sedotto dal fascino dell’attrice che interpreta la sua consorte a vent’anni, Victor col passato trova il futuro. Con La Belle Époque arriva sullo schermo un bastimento carico di idee e di attori celebri, una commedia nostalgica che risale il tempo e solleva lo spirito. Nicolas Bedos, ossessionato dal passaggio del tempo (Un amore sopra le righe), torna sui soggetti di predilezione: l’usura dei sentimenti e il rimpianto delle occasioni perdute. A sopportare gli oltraggi degli anni questa volta sono Fanny Ardant e Daniel Auteuil che interpretano con smalto una coppia sull’orlo di una crisi di nervi. Un uomo e una donna che da troppo tempo non condividono più niente e conducono vite parallele. Intorno a loro gravitano Guillaume Canet, regista tirannico e nevrotico, comme d’habitude, e Doria Tillier, compagna a intermittenza del personaggio di Canet che innamora il vecchio disegnatore di Auteuil.
Victor (Daniel Auteuil) e Marianne (Fanny Ardant) sono sposati da anni e stanno vivendo un momento di crisi. Quando viene proposto a Victor di rivivere su un set ricostruito un giorno qualsiasi della sua vita, lui sceglie il momento dell’incontro con la donna che ha sposato, interpretata da un’attrice. Nicolas Bedos muove dal rimpianto per delineare la cornice de La belle Epoque, racconto di una storia d’amore tormentata e non riconciliata. Il regista lavora con due attori di assoluto rilievo del cinema francese: corpi significativi nella costruzione di un film sentimentale, metanarrativo, contrassegnato dalla grazia, dal sentimento del ricordo e da una malinconia dai contorni fluidi. Uno sguardo sul passato nel quale la nostalgia si produce attraverso un’efficace mix di realtà e di finzione. Paolo Castelli
Convocate tutte le celebrità del cinema francese maggiore (Pierre Arditi e Denis Podalydès) e tutte le convenzioni della commedia degli equivoci, La Belle Époque è una messa in scena gioiosa del cinema che consente a Daniel Auteuil di ritrovare l’umorismo toccante dei vecchi ruoli e a Fanny Ardant la luccicanza sentimentale dei film di Truffaut, quella che la faceva svenire in un parcheggio dopo un bacio e le lasciava le cicatrici sui polsi perché in definitiva l’amore fa male. Convinti di non poter più stare insieme, le loro mani allacciate nel gran finale non intendono ragione. Perché Victor e Marianne sono fatti per accendersi e le loro mani per afferrarsi. Fatti per bruciare sempre e probabilmente ferirsi ancora. Bedos sceglie l’amore che dura e la riconciliazione di una coppia e di un uomo col suo tempo, regalando un sorriso persistente allo spettatore e tante sorprese. Sorprese che accumula tra andate e ritorni, recriminazioni e rievocazioni, carezze e schiaffi. Irriducibilmente brillante e ruffiano, l’enfant terrible della televisione (e non solo) porta sulla coppia uno sguardo tenero e fiducioso, incalzato da repliche e battute che fanno sognare o ridere di gusto.

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CINEMA CHE SFIDA IL TEMPO E SUPERA IL PRESENTE: DA NICOLAS BEDOS UN’ODE ALL’AMORE ETERNO

Gianluca Pisacane – Cinematografo.it

Tornare, riavvolgere. Cinema che sfida il tempo, che vuole superare il presente e lanciarsi nel passato. La realtà che si mescola con la finzione, il teatro che si fonde con il grande schermo. Come? Miracoli della tecnologia. Un’azienda soddisfa le richieste di clienti facoltosi, li riporta a qualsiasi momento storico che desiderano. Hitler, Hemingway, possono incontrare chiunque vogliano. Al bancone di un bar, in un ricco palazzo, basta qualche migliaio di euro per vivere la propria Midnight in Paris (anche se qui siamo a Lione). Ovviamente è tutto finto, ricostruito in studio, con figuranti pronti a interpretare un importante politico o la bionda dei tuoi sogni. La belle époque è il titolo della nostra “avventura”. Non si riferisce all’epoca a cavallo tra Ottocento e Novecento, ma al periodo migliore di ogni esistenza (nel film è il nome di un locale). Per Victor sono gli anni Settanta, quando per la prima volta ha iniziato a corteggiare la bella Marianne. Oggi il matrimonio è in rovina, i due sono lontani. L’unica soluzione è riabbracciare il 1974, quella notte in un cafè dove è scattata la scintilla. Partenza da commedia francese alla Assayas: dialoghi pungenti, cene complicate, dove i commensali vorrebbero accoltellarsi invece di mangiare insieme. Poi il ritmo cambia, il montaggio si fa più veloce, le scenografie sontuose. Gli anni Settanta prendono vita, in un palcoscenico alla Joe Wright dove tutto è in continuo movimento. Attori, luci, macchine, pareti. Nonostante lo spirito malinconico, La belle époque incarna l’animo frenetico del contemporaneo. Crea una ronde amorosa, in un continuo “scambio” di coppie. Che giocano, imparano a rispettarsi, a riscoprire la bellezza di ogni rapporto. Al centro c’è la nostalgia, elemento vibrante di un cinema che vuole essere ben più di Un amore sopra le righe. Il regista Nicolas Bedos fa un passo avanti, continua a interrogarsi sul senso dei minuti, delle ore. Diventa demiurgo, sceglie di condividere i propri tormenti con i suoi protagonisti. Realizza un’ode all’amore eterno, all’importanza dei legami, riflettendo sulla malinconia, sulla senilità. Analizza l’inizio e la fine della nascita della passione: la rottura tra Victor e Marianne, ma anche il sentimento inquieto che lega l’intransigente regista e la sua affascinante musa. Litigano, si lasciano, si allontanano per poi riavvicinarsi, con lui che le parla negli auricolari mentre lei è in scena. Amanti sull’orlo di una crisi di nervi, sospeso tra il grigiore di ogni giorno, una festa in salsa hippie e una cena in un’altra dimensione. E non a caso a un certo punto il protagonista si mette a sfogliare il capolavoro di Jack London Martin Eden. Perché in fondo La belle époque è una costante ricerca della libertà, dalle imposizioni della natura, dalle regole che spesso imprigionano. Con un ritmo giocoso, imprevedibile, che rallenta per poi ripartire a tutta velocità.

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LA NOSTALGIA PER “La belle époque”: MEGLIO LA FINZIONE DIGITALE O I RICORDI?

Stefano Giani – IlGiornale.it

Gli anni Venti – quelli della Belle Époque, per intenderci – sono lontani un secolo. La malinconia aveva lo stesso sapore di oggi ma non esistevano cellulari e telecamere. Microspie e computer. Decadi in parallelo. Passato e presente che sembrano icone di preistoria e fantascienza, distanti anni luce, più che anni e basta. A Lione “La belle époque” era un locale a metà strada tra ristorante e caffetteria e forse è esistito solo nella fantasia, o perlomeno nella giovinezza di Victor e Marianne, dopo vari decenni di matrimonio ormai ai ferri corti. Psicologa lei e disegnatore di fumetti lui. L’innamorata di social, nuovi media e terzo millennio si specchia senza successo in un uomo che detesta il digitale e ama vivere all’antica. Vorrebbe ricreare quello ieri disperso nella memoria che soltanto i suoi schizzi a carboncino sanno ospitare. Nostalgia con il fiato corto dell’ansia. La belle époque di Nicolas Bedos trova questa coppia al bivio. Victor (Daniel Auteuil apprezzato in In nome di mia figlia e Quasi nemici) e Marianne (Fanny Ardant) sono al punto di non ritorno. E lei lo mette alla porta. Proprio la sera dell’ultimo definitivo screzio, il figlio regala al padre un buono per viaggiare nel tempo. Un suo amico propone di realizzare il sogno di rivivere il giorno più bello della vita di papà. Victor non ha dubbi, è il 16 maggio 1974, quando conobbe la donna del suo cuore.

Detto fatto. Antoine (Guillaume Canet, già protagonista di Mio figlio e Il gioco delle coppie), di professione regista, burbero e severo con la passione delle donne, ricostruisce ciò che il tempo ha distrutto e “La belle époque” torna a brillare di luci e sensazioni. Schitarrate e sentimenti. Bicchieri di vino gettati in faccia al bonario lumacone. Anche lui, d’altri tempi. La nuova Marianne è la fidanzata di Antoine e deve far innamorare Victor, ricostruito anche lui in abbigliamento vintage. Il set è in collegamento con la gelosa regia del compagno. Tutto è pilotato. Finto. Tranne i sentimenti di Victor. Cinema e realtà si mescolano. Si attraggono. Si amalgamano. La malinconia resta. Il cuore batte instancabile e la nuova Marianne è bella come quella di 45 anni prima. Cupido lancia la freccia. È di nuovo amore. Ed è di nuovo beffa. Il trucco, quell’affabile trucco, finisce sulla porta del set. La belle époque è una commedia dolce in cui il tempo si stempera e la malinconia lo resuscita. Settimo decennio del Novecento. Ma anche la finzione creativa, l’alchimia spontanea che adatta tutto. Come se fosse vero. Amore pur sempre, ma stavolta è un gioco. Secondo decennio del terzo millennio. Il viaggiatore fra questi due estremi, il nostalgico Victor, rappresenta sentimento e verità. La vita contro il cinema, che l’esistenza la falsifica. La modifica. La riadatta. E poi, in fondo, è un peccato scoprire che sì… ognuno ha i suoi giorni. Fatti di tutto e di niente. L’attrice che interpreta Marianne, come la vera Marianne. La febbre di Antoine per Margot che deve sedurre Victor e ci riesce. Per sua sfortuna.

Nostalgia riverniciata. Cancellata. Se rinasce “La belle epoque” e i personaggi che vi gravitavano intorno perché mai quella finzione non può trasformarsi in attimi di scintillanti palpiti reali. Anche il posticcio, tutto sommato, fa danni. Regala istanti di felicità e vibrazioni ma toglie la genuinità di battiti accelerati e farfalle nello stomaco. Un telaio complesso di trame e di temi. Analogico contro digitale. Passato contro presente. Fantasia contro realtà. Immaginazione cinematografica contro fatti di vita vera. La Settima Arte all’epoca dei social è anche un interrogarsi sulla gestione di caratteri e il trasognato ritorno alla gioventù fatta di erba e pantaloni a zampa d’elefante odora di naftalina che nemmeno mesi di aria fresca saprebbero sciogliere. Non importa. Le trecce rosse restano quelle degli anni Settanta con la loro poetica armonia di sguardi incantati che sposano gesti aggressivi. Quando a nessuno sarebbe mai venuto in mente di rimproverare il compagno per il suo essere troppo all’antica. Perché in definitiva il futuro nessuno sapeva che cosa fosse.

IL RETROSCENA – Guillaume Canet interpreta il ruolo di un regista intollerante e bizzoso, impetuoso e pretenzioso. Insomma, uno che crea attriti ed è perennemente insoddisfatto dei suoi attori e li critica senza pause. Il personaggio ha contorni autobiografici, plasmati sullo stesso Nicolas Bedos, che ha confessato di essersi comportato con quelle stesse caratteristiche nel suo precedente film – Un amore sopra le righe – in cui i suoi sfoghi lunatici avevano avuto tra le vittime Doria Tillier, presente in entrambi i cast e ne La belle époque veste i panni di Margot. “È stato un modo di chiedere scusa per quelle esagerazioni” ha detto Bedos che, a suo modo, ha affrontato il transfert narcisistico del contrasto tra finzione e realtà che affligge molti registi.

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