Azione
Regia di Joseph Kosinski
USA, 2022
con Tom Cruise, Miles Teller, Jennifer Connelly
Durata 131

 

 

 

 

LA TRAMA

Il Tenente Pete “Maverick” Mitchell (Tom Cruise), tra i migliori aviatori della Marina, dopo più di trent’anni di servizio è ancora nell’unico posto in cui vorrebbe essere. Evita la promozione che non gli permetterebbe più di volare, e si spinge ancora una volta oltre i limiti, collaudando coraggiosamente nuovi aerei. Chiamato ad addestrare una squadra speciale di allievi dell’accademia Top Gun per una missione segreta, Maverick incontrerà il Tenente Bradley Bradshaw (Miles Teller), nome di battaglia “Rooster”, figlio del suo vecchio compagno di volo Nick Bradshaw “Goose”. Alle prese con un futuro incerto e con i fantasmi del suo passato, Maverick dovrà affrontare le sue paure più profonde per portare a termine una missione difficilissima, che richiederà grande sacrificio da parte di tutti coloro che sceglieranno di parteciparvi.

 

LA RECENSIONE

UN FILM SUL SUPERAMENTO DELLA MORTE E SULLA SOPRAVVIVENZA DELL’UOMO ALLA MACCHINA

Solo ora mi rendo conto quanto il primo Top Gun sia sempre stato un film sulla morte. Pete Mitchell è circondato di lutti (padre, madre, compagno di volo) e la sua guida spericolata si configura come una via di mezzo tra l’istinto suicida e l’unico possibile canale per la via eterna, ovvero verso il mito (cinematografico). Questo sequel clone riparte sostanzialmente da qui. Da questa necessità di diventare divinità resistendo alla gravità della vita e alle cicatrici dei lutti. E quindi il titolo rimanda inevitabilmente a un nome proprio, che è quello dell’eroe protagonista entrato nell’immaginario collettivo e che non a caso significa “anticonformista, indipendente”, in perfetta sovrapposizione al Cruise attore, produttore, imprenditore, spiritualista.

Il suo Pete Mitchell/Maverick è un pioniere dei cielo, un Icaro post-moderno che non ha paura di avvicinarsi troppo al sole o di salire troppo in alto. Anzi una delle figure più ricorrenti in questo Top Gun: Maverick diretto da Joseph Kosinski è proprio l’ascensione verticale oltre ogni limite. All’inizio Cruise deve spingere al massimo il suo Stealth per sfidare la velocità del suono e raggiungere il limite di mach 10. Più avanti nelle esercitazioni della missione suicida per cui è stato chiamato dalla Top Gun per istruire i giovani piloti del futuro – tra questi c’è anche Rooster, il figlio di Goose, con tutti i conflitti psicologici e personali da superare nei confronti della figura paterna e di quella di Maverick – dovrà ancora una volta testare le capacità (sovra)umane, attraverso la verticalità e la velocità, andare oltre i confini di spazio-tempo in un’area superomistica da Mission:Impossible.

Perché nonostante si guidino arei da milioni di dollari, sono le capacità individuali che nel mondo Top Gun fanno ancora la differenza, il “volare come nessuno ha mai finora finora”, in quella che diventa quasi una dichiarazione poetica sulla preminenza del fattore (super)umano nei confronti della tecnica. La lotta tra uomo e tecnologia e la necessità di risparmiare ancora del tempo prima che i droni, l’elettronica e la guerra virtuale soppiantino definitivamente il vecchio mondo.

La tua razza è destinata all’estinzione” dice Ed Harris a Cruise, “Non oggi!” risponde l’eroe. Dichiarazione che sin dai titoli di testa – con la ripresa integrale del tema musicale di Harold Faltermeyer – si fa esplicita, ripercorrendo soluzioni narrative e registiche del film di Tony Scott, alla cui memoria Top Gun: Maverick è dedicato. Del resto come l’immortalità ha bisogno della morte per definire se stessa, così i maverick di ieri e di oggi devono superare il lutto dei padri per diventare i nuovi dei del cielo.

Carlo Valeri – Giornalista e critico cinematografico

 

IL REGISTA

JOSEPH KOSINSKY
Marshalltown – USA
3 maggio 1974

Tra fascinazione e visioni apocalittiche, il cinema di Joseph Kosinski affronta il paradosso dell’esaltazione tecnologica e delle perplessità che ne conseguono. I suoi protagonisti, illuminati da luce bluastra e livida, vivono immersi in mondi virtuali in cui la tecnologia prende vita, appare umana e assume sembianze che ne mostrano l’anima. Classe ’74, Joseph Kosinski cresce nello Iowa. Figlio di un medico, si trasferisce a Los Angeles dove si avvicina alle arti visive attraverso il fumetto. Nel 2005 inizia a scrivere una graphic novel intitolata Oblivion. Il lavoro non viene pubblicato e viene accantonato per dedicarsi agli studi di grafica digitale. Alunno e poi assistente alla Columbia GSAPP, Kosinski sperimenta l’utilizzo delle arti visive attraverso l’imprescindibile supporto tecnologico.

 

 

Il fascino delle possibilità virtuali si trasforma in cifra stilistica per la sua nascente carriera da regista di spot televisivi. Diverse multinazionali statunitensi si affidano al suo stile visivo algido, ma penetrante, efficace nel mostrare possibilità di prodotti orientati al futuro. Specializzato in spot di videogame, nel 2007 Kosinski viene premiato per gli effetti visivi dello straniante spot di Gears Of War. Il mondo dei computer e dell’intrattenimento sono il suo habitat e per questo la Disney gli affida il difficile compito di un sequel: riaccendere i neon del loro cult Tron (1982). Con Tron Legacy (2010) Kosinski dirige un’esperienza visiva ed immersiva, con il merito di non limitarsi né alla citazione, né al semplice giocattolo visivo, ma mettendo in scena un manifesto significativo per i nativi digitali. Nel 2013 riesce a rispolverare un vecchio progetto, iniziato sottoforma di graphic novel. Oblivion (2013) è un film che lo vede impegnato nella triplice veste di regista, produttore e sceneggiatore. Tom Cruise è il protagonista di un’opera coerente con gli intenti analitici di un regista interessato al recupero di una radice di calore umano in un mondo mediato a rischio aridità. Dopo Fire Squad – Incubo di fuoco (2017), nel 2020 torna a lavorare con Tom Cruise in Top Gun – Maverick. In concomitanza alle sue occupazioni cinematografiche, Kosinski è anche un assistente insegnante per l’architettura, specializzato nel campo della modellazione tridimensionale e grafica.

MGF

Docufilm diretto da Marco Parnigiani

Un viaggio attraverso i capolavori del Maestro racchiusi in quel Museo a cielo aperto che è Firenze: un itinerario inedito per scoprire l’inventore di un nuovo modello di bellezza capace di superare la barriera dei secoli e ispirare i contemporanei.

Con la voce narrante di Jasmine Trinca

 

 

 

 

 

In Botticelli e Firenze. La Nascita della Bellezza rievocazioni oniriche, immagini suggestive della città e riprese di opere straordinarie si alternano alle voci dei massimi esperti, studiosi, storici dell’arte internazionali che narrano splendore e contraddizioni della Firenze di Lorenzo de’ Medici, alla scoperta di uno degli artisti simbolo del Rinascimento italiano.

Dalle meravigliose Madonne alle pitture dei responsabili della Congiura dei Pazzi giustiziati e impiccati fuori dalla Porta della Dogana al Palazzo Vecchio, dall’Inferno Dantesco alle Pietà, dagli antichi dei della mitologia ellenica sino al Dio apocalittico del Savonarola, l’arte di Botticelli sarà indagata attraverso gli interventi di esperti

APPROFONDIMENTO STORICO

SANDRO BOTTICELLI E IL MECENATISMO FIORENTINO

di Beatrice Fiorello – dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

Sandro Botticelli (1445-1510) è un artista che difficilmente si colloca in uno stile artistico preciso. Il suo Rinascimento è pacato, naturalistico, quasi espressionistico a tratti, colmo di significati impossibili da cogliere ad uno sguardo superficiale.
Un animo tormentato, malinconico, influenzabile, che si riflette nell’iperbolica variabile di sentimenti che emergono dalle sue opere.
La sua storia è strettamente legata ad un fenomeno che cominciò nel periodo dell’Umanesimo, inaugurato da Francesco Petrarca e incoraggiato dai primi scavi archeologici di Roma, che portarono a quello che oggi chiameremmo un revival dell’Antica Grecia, in tutto il suo splendore: il mecenatismo intellettuale.

In un’epoca in cui il punto focale della cultura si sposta dalla divinità, ineffabile e inafferrabile, all’uomo, si assiste ad una laicizzazione della cultura, spinta dal desiderio di esplorare un mondo distante, differente, dal desiderio di comprendere come l’Antichità abbia contribuito a plasmare la civiltà. Non si abbandona tuttavia la religione, come invece accadrà secoli più tardi con l’Illuminismo.
L’arte, la poesia, pur non essendo più intrinsecamente religiose, recano ancora in esse la ricerca, il tentativo di comprendere il Divino: la figura petrarchesca della “donna angelo”, che con la sua stessa esistenza è riflesso del Paradiso, è un esempio sopra ad ogni altro. L’Umanesimo è una corrente di pensiero umile, modesta, dalla quale scaturirà la concezione dell’artista Rinascimentale visto come “un nano sulle spalle dei giganti”. L’arte non è più preghiera o vanità, non solo: è ricerca del divino nell’umano, è la riscoperta della filosofia, è l’indagine accurata del sentimento.
Corpi perfetti, il rinnovato ardore del kalòs kai agazòs, una bellezza senza tempo che ancora oggi ci lascia senza fiato. Forme sinuose, religione e ricerca scientifica che si inanellano con grazia per creare opere delle quali ancora oggi non esiste pari.

Firenze, la culla della civiltà del Bel Paese, trova il suo più alto picco di gloria durante la signoria di Lorenzo de’ Medici, iniziata nel 1469, ed è in questo contesto che emerge la figura di Sandro Botticelli. In precedenza, le grandi commissioni artistiche erano legate alla Chiesa; la spinta laicizzante dell’Umanesimo, tuttavia, influenza i grandi signori, che cominciano a chiamare artisti da tutto il Paese per farne i propri protetti; avere un intellettuale cortigiano è una sorta di status symbol, quasi una questione di principio. Ma è grazie a questa corsa alla cultura, che forse a tratti è superficiale e anche, se vogliamo, un po’ ipocrita, che oggi possiamo godere delle opere di Botticelli e degli altri grandi del Rinascimento.
Immerso nella cultura Fiorentina, finanziato dalla ricca famiglia Medici, Botticelli ebbe l’opportunità di creare opere di una bellezza senza tempo; reso libero dal suo stesso talento, in lui emerse un Rinascimento diverso, più lieve e delicato rispetto a quello incarnato dai suoi contemporanei. Botticelli era un artista di estrema sensibilità, melanconico, sempre alla ricerca di un significato, e questo fu al contempo la sua benedizione e la sua rovina.

 

La sua arte non è mai rigida, mai costruita: un paesaggio aperto è spesso preferito ad una fredda architettura, la razionalità geometrica che spesso viene considerata uno dei pilastri dell’arte rinascimentale è trascurata in favore della bellezza più caotica della natura, una caratteristica insolita che quasi schiude le porte al paesaggismo Cinquecentesco. Le Grazie sembrano danzare, muoversi sulla tela in una danza eterna, il vento sembra soffiare, le onde del mare si succedono l’una all’altra in un moto infinito.
Tuttavia, questa leggerezza non è scevra di malinconia, al contrario: dalle opere di Botticelli emerge un sentimento di nostalgia per un tempo di cui non ha potuto avere esperienza, un dolore sordo, tenue ma mai assente, un accordo cupo a contrapporsi alla dolce melodia dei personaggi sulla tela.

 

E questa nostalgia, questa tormentosa angoscia, emergerà in maniera preponderante dopo il 1490, complice la predicazione di Savonarola: un profeta di sciagure che si scaglia contro il degrado morale, le cui parole non lasciarono immune nemmeno Michelangelo. Ritroviamo la tormentosa lotta da lui predetta nei grovigli di corpi del Giudizio Universale, come la ritroviamo nei toni apocalittici ed enfatici delle opere tarde di Botticelli, nel dolore e nel pathos della costruzione delle scene, ormai dimentiche della rigida costruzione prospettica che del resto non aveva mai particolarmente amato.

 

Tuttavia, passata la “tempesta” savonaroliana, l’arte di Botticelli resta cupa e chiusa, in completa contrapposizione alla dolceamara nostalgia del suo periodo classicista, e non incontra più il favore dei contemporanei: troppo angosciante, forse, troppo vicina a timori che si preferisce ignorare. La sua ricerca spasmodica di espiazione dall’edonistica vanità delle sue opere giovanili e mature diventa nient’altro che il ricordo della sciagura, del declino, un avvertimento che nessuno vuole più ascoltare, un folle disperato, e patetico nella sua disperazione.

 

Ma forse è proprio questo che ci fa amare la sua arte ancora oggi: c’è malinconia, c’è la paura di ognuno dipinta con delicatezza sulla tela, c’è una goccia di colore per ogni sentimento, dall’angoscia alla gioia, morte e rinascita, peccato ed espiazione.
C’è l’anima confusa di un uomo come noi, alla costante, instancabile ricerca di un significato.

 

Regia di Simon Curtis – Gran Bretagna, 2022
con Hugh Bonneville, Laura Carmichael, Jim
Carter
Durata 125′

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Nella splendida tenuta di Downton Abbey, situata nella campagna inglese, vedremo ancora una volta intrecciarsi le vicende della famiglia Crawley con quelle della sua servitù. Mentre la villa è in pieno subbuglio a causa dei preparativi per il matrimonio di Tom Branson (Allen Leech) e della signorina Lucy Smith (Tuppence Middleton), ex cameriera, Lady Violet Crawley Grantham (Maggie Smith) riceve in eredità una villa nel sud della Francia. Riunita la famiglia, l’anziana Violet spiega come questa dimora, nota come Villa delle Colombe, le sia stata donata in gioventù da un uomo, con cui ha avuto una storia d’amore, prima di conoscere il suo futuro marito. Ora che il suo giovane amore è morto, la villa, ormai non più segreta, è passata di proprietà alla signora, che decide di recarvisi per un soggiorno, accompagnata da una parte della famiglia e dagli immancabili e fedeli servi, Mr. Carson (Jim Carter) e Mrs. Hughes (Phyllis Logan).
Nel frattempo a Downton Abbey si respira una ventata di modernità con l’arrivo del produttore Jack Barber (Hugh Dancy) e della sua troupe cinematografica, pronta a girare un film all’interno del lussuoso palazzo con l’appoggio di Lady Mary (Michelle Dockery). Non mancheranno di certo gli intrighi e i misteri, come quello sul passato di Lady Violet.

 

LA RECENSIONE

Il film riprende sostanzialmente da dove ci eravamo lasciati nel 2019. I Crawley stanno per varcare la soglia degli anni Trenta e la loro situazione economica e sociale non è delle migliori: i tempi dell’aristocrazia sono ormai lontani e il subbuglio socio-culturale che ha colpito l’Europa a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale ha rimescolato le carte in tavola. La famiglia di Downton si trova alle strette e quando un cineasta si presenta alla porta, speranzoso di poter girare alcune scene del suo prossimo film nella fastosa dimora in cambio di una generosa somma di denaro, i Crawley sono costretti ad accettare. Nel frattempo, dalla Francia arriva la notizia che la contessa madre (la sempre pungente Maggie Smith) ha ereditato una villa sulla Costa Azzurra da una sua vecchia conoscenza. Così, la narrazione si scinde in due direttrici: da un lato seguiamo le riprese del film di Jack Barber , mentre dall’altro troviamo i coniugi Crawley , la figlia Edith e i novelli sposi Tom e Lucy diretti verso il sud della Francia. Downton Abbey II – Una nuova era segue la traiettoria che abbiamo imparato a conoscere bene: una serie di equivoci, problematiche e incomprensioni si vengono a creare per poi trovare risoluzione nel corso della pellicola. Tuttavia, abbiamo notato, ancora più che in passato, una certa “serenità” che ammanta le situazioni e le relazioni tra i personaggi. Quella punta di acidità, di conflitto, che ha contraddistinto la serie per il corso delle sue sei stagioni, ha trovato quiete in una strana parentesi idilliaca priva di rancore e risentimento. Dal punto di vista prettamente audiovisivo, invece, la pellicola cerca di rimanere sui solchi tracciati dalla serie, prima, e dal lungometraggio, poi, ma la regia di Simon Curtis spesso si spinge un po’ oltre, con vedute aeree elaborate e per lo più pompose. A parte queste piccolezze espressive, tutto ciò che si trova dinanzi alla macchina da presa è degno della produzione che rappresenta, portando Downton agli albori degli anni Trenta con grande semplicità ed eleganza. Downton Abbey II – Una nuova era non è uno di quei film che rende particolarmente meditativi e loquaci dopo la visione. È una produzione degna del nome che porta, che riesce ancora a reggere il peso che porta sulle sue spalle. Ogni volta è come ritrovare vecchie amicizie e passare un paio d’ore in loro compagnia. Tutto e nulla è cambiato. Eppure, quel brivido lungo la schiena quando la tenuta di Downton fa la sua prima apparizione in scena resta una costante che difficilmente tenderà a sparire.

Mattia Pescitelli – studente di Cinema, Televisione e Nuovi Media in DAMS – Università degli Studi Roma

 

IL REGISTA

SIMON CURTIS
Londra – Regno Unito
11 marzo 1960

Simon Curtis è un regista, produttore televisivo e produttore cinematografico britannico. Ha iniziato la sua carriera da regista al Royal Court Theatre, dove è stato vicedirettore di Max Stafford Clark e direttore del Theatre Upstairs. Le sue numerose fatiche hanno incluso la prima mondiale di Road, la prima commedia scritta da Jim Cartwright che è stata prodotta per la prima volta nel 1986 al Royal Court Theatre Upstairs, con Curtis alla direzione. Lo spettacolo esplora la vita delle persone in una zona povera e operaia del Lancashire durante il governo di Margaret Thatcher , un periodo di alta disoccupazione nel nord dell’Inghilterra. Nonostante la sua natura esplicita, è stato considerato estremamente efficace nel ritrarre la disperazione della vita delle persone in questo momento, oltre a contenere una grande quantità di umorismo. Ambientato su una strada in una notte movimentata, il pubblico si addentra nelle case sulla strada e nelle vite dei personaggi.

 

 

 

Da allora ha lavorato a lungo con la BBC Television and Films, guadagnando incarichi per oltre cinquanta regie e produzioni. È stato nominato per un Emmy e cinque BAFTA TV Awards. Nel 2011 Curtis scrive e dirige Marilyn, con cui ottiene una certa popolarità anche fuori dal Regno Unito.

È sposato dal 1992 con l’attrice statunitense Elizabeth McGovern, la Cora Crowley di Donwton Abbey. La coppia ha due figlie ed è residente a Chiswick, Londra

 

 

 

MGF

Regia di Mariano Cohn, Gastón Duprat – Spagna, 2021
con Penélope Cruz, Antonio Banderas, Oscar Martínez
Durata 114′

 

 

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Una commedia sulla feroce rivalità tra due attori con un talento enorme ma un ego ancora più grande. Lola Cuevas (Penélope Cruz) è un’eccentrica e affermata regista ingaggiata da un imprenditore miliardario megalomane deciso a lasciare il segno nella storia. L’ambiziosa impresa richiede i più grandi talenti: il divo sciupafemmine di Hollywood, Félix Rivero (Antonio Banderas), e il capofila del cinema e del teatro impegnato, Iván Torres (Oscar Martínez). Due leggendari attori agli antipodi ma dal carisma ineguagliabile costretti ad affrontare delle prove esilaranti e originali. Riusciranno a superare la loro rivalità e a dare vita a un capolavoro?

 

LA RECENSIONE

Finale a sorpresa, impreziosito dalla prima seria compresenza di Antonio Banderas e Penelope Cruz, è una feroce satira dell’ambiente cinematografico e dei suoi tic. L’opera dei due registi argentini Gaston Duprat e Mariano Cohn offre un continuo esercizio di scintillante intelligenza, una matrioska di piani di lettura, una riflessione più generale sulla vanità e un funambolico esperimento di arte totale.

Un ottantenne miliardario imprenditore farmaceutico, immalinconito dalla prospettiva di essere ricordato dai posteri solo come un egoista accaparratore, si confronta con il suo segretario su quel che può fare per lasciare qualcosa di indimenticabile, e passa repentinamente dalla costruzione di un ponte alla realizzazione di un film. Planato su quest’ultimo, compra i diritti del libro scritto da un premio Nobel e ingaggia una regista famosa ed eccentrica (Penelope Cruz), alla quale per prima cosa chiede di raccontargli la trama, visto che non è aduso alla lettura e non si è corrotto neanche per l’occasione. Ascoltiamo (noi e il miliardario) la movimentata narrazione, che lo lascia soddisfatto per il lieto fine: ma lei avverte, non è così che finisce… e qui ci lascia sospesi. Constateremo alla fine che è il clou, del film che girano loro e di quello a cui assistiamo noi, e che coronerà mirabilmente la sua grande qualità, che consiste nella commistione di finzione e realtà, sino al punto da dimostrare che è difficile distinguerle, e tutto sommato non ne vale neanche la pena. La preparazione del film (anzi, la pre-preparazione, perché si svolge senza che sia stata ancora girata una sola scena) diventa una sorta di ordalia, con il finale a sorpresa che certamente si discosta e amplifica in corso d’opera rispetto quello che era scritto nel libro. Le scene sono per lo più sequenze con i tre protagonisti in un ambiente, e dunque di impianto teatrale, con un decoro minimalista che in realtà richiama, cita e ricrea le performance dell’arte contemporanea. Arte totale, dicevo. Finale a sorpresa, in più, ha la capacità di offrire piani di lettura a cascata: chi non arriva in profondità e si ferma al primo livello si diverte comunque; chi riesce ad addentrarsi in tutti, cogliendo spunti di filosofia estetica non velleitari, si diverte
di più. Al riguardo, il massimo azzardo di Duprat e Cohn sono due scene di seguito, in cui a turno uno dei due attori dà prova della sua abilità recitativa ingannando gli altri. Quando il trucco viene rivelato, lo spettatore accorto è preso da un attimo di delusione pensando: eh, ma lo sapevo da subito che era così; e dopo si rende conto di essere stato coinvolto e partecipante in questo triplogiochismo.

Altro capolavoro è la prova attoriale: Penelope Cruz spicca su tutti, abbandonando definitivamente lo stereotipo di una non eccellente se
stessa che ha rischiato di diventare, e lascia intravedere una seconda vita artistica fertile ed entusiasmante.

Remo Bassetti – Scrittore e saggista

 

I REGISTI

MARIANO COHN
Villa Ballester – Argentina
1 dicembre 1975
GASTON DUPRAT
Bahìa Blanca – Argentina
8 dicembre 1969

Gastón Duprat e Mariano Cohn sono la coppia di registi più dissacrante del cinema argentino. Sotto la lente del loro cinema tutto viene sezionato con spassosa, chirurgica precisione.
I primi lavori della coppia sono stati nella videoarte e nel cinema sperimentale. I due sono stati altrettanto prolifici in televisione, creando format come il longevo Televisión Abierta (1998-1999, 2002-2003, 2005, 2013, 2018),Cupido (2001- 2003, 2012-2013), un programma di appuntamenti al buio; El gordo Liberosky (2000- 2003), fiction di breve formato; Cuentos de terror (2002-2005). Secondo La Nación, i loro format sono stati esportati in Italia, Spagna, Giappone e Stati Uniti d’America.
Cohn e Duprat hanno inoltre fondato e diretto due canali televisivi pubblici: Ciudad Abierta (2003-2005), canale della capitale, e Digo (2012), destinato alla provincia di Buenos Aires.
Al cinema, hanno cominciato come documentaristi, producendo e dirigendo i lungometraggi Enciclopedia (1998),co-diretto da Adrián De Rosa, e Yo Presidente (2003), contenente interviste ai presidenti argentini Raúl Alfonsín, Carlos Menem, Eduardo Duhalde e Néstor Kirchner.

Col loro primo film di finzione, L’artista, scritto come gli altri da Andrés Duprat, hanno concorso al Festival internazionale del film di Roma 2008, mentre per il seguente El hombre de al lado, commedia drammatica interamente girata nella Casa Curutchet progettata da Le Corbusier e presentata al Sundance Film Festival 2010, sono stati candidati al premio Goya per il miglior film straniero in lingua spagnola.
Concorrono alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con la commedia drammatica Il cittadino illustre, il cui protagonista Oscar Martínez vi vince la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. In seguito, Cohn e Duprat si dividono brevemente e girano due film separati, 4×4 e Il mio capolavoro, producendo però ognuno quello dell’altro. Nel 2021 dirigono Martínez, Penélope Cruz e Antonio Banderas nella commedia sul cinema Competencia oficial (Finale a sorpresa).

 

MGF

Regia di Emmanuel Carrère – Francia, 2021
con Juliette Binoche, Hélène Lambert, Léa Carn
Durata 106′

 

LA TRAMA

Tra due mondi, film diretto da Emmanuel Carrère, racconta la storia di Marianne Winckler (Juliette Binoche), una nota scrittrice che decide di iniziare a lavorare a un romanzo, che tratti il lavoro precario nella società francese. Per documentarsi sull’argomento, la donna decide di vivere lei stessa questa realtà e inizia a lavorare come “infiltrata” per alcuni mesi, come addetta alle pulizie sui traghetti che solcano la Manica.
Quello che scopre va oltre il problema della precarietà, infatti le donne sono costrette a lavorare per pochi spicci in condizioni misere e ritmi massacranti, che restano invisibili agli occhi della società. Nonostante il lavoro sia umiliante, tra le sue compagne c’è una grande solidarietà, che le unisce in questa situazione delicata; in particolare Marianne fa la conoscenza di Christèle (Hélène Lambert), una madre single che non si arrende mai. L’identità della reporter, però, presto verrà scoperta e quali saranno le conseguenze?

 

LA RECENSIONE

Tra due mondi di Emmanuel Carrère è interamente dedicato agli effetti psicologici e sociali della precarietà lavorativa. Il film nasce dal libro inchiesta Le quai de Ouistreham (pubblicato in Italia da Piemme con il titolo La scatola rossa) della giornalista francese Florance Aubenas. Al centro del film troviamo la scrittrice Marianne, interpretata magistralmente da Juliette Binoche, che inizia a lavorare come donna delle pulizie in una città della Normandia. La protagonista non rivela a nessuno la propria identità professionale, allo scopo di immergersi completamente in quel pezzo di mondo, popolato dagli ultimi, che ha deciso di raccontare. E sono proprio i racconti degli invisibili che ci aiutano a vedere meglio le nuove forme della diseguaglianza sociale. Negli uffici di collocamento e nelle aziende che ti assumono e ti licenziano in un battibaleno, la protagonista incontra un’umanità vivace e dolente.
Come scrive negli appunti serali sul suo taccuino da scrittrice, il continuo attraversare la sottile linea di demarcazione tra la disoccupazione e il lavoro sottopagato, in altre parole tra il non avere nulla e l’avere troppo poco, induce in lei uno stato di pauroso smarrimento.

Lontana dalle comodità di Parigi e dallo status di scrittrice di successo, la protagonista stringe una forte amicizia con Christèle, interpretata da Hèlène Lambert, attrice non professionista come tutti gli altri presenti nel film. La scelta di Carrère di ricorrere ad una diva indiscussa del cinema, come Binoche, e a degli attori non professionisti si è rivelata vincente, poiché ha portato nel cast le dinamiche che il film racconta: la finzione come strumento per avvicinarsi alla verità, la solidarietà tra lavoratori, il muro invisibile che separa gli esclusi dal resto della società. Le due donne sono accomunate dalla ricerca di rapporti umani significativi. Si unisce a loro anche la giovane Marilou, creando un gruppo di amiche in grado di affrontare il lavoro più duro, sottopagato e senza garanzia: la pulizia delle cabine e delle latrine del battello che collega la Francia all’Inghilterra. Quando Marianne non potrà più nascondere la sua vera identità di scrittrice, il terzetto scoppierà. Diversamente dagli altri lavoratori e amici, Marilou e soprattutto Christèle reagiranno molto male alla rivelazione dell’amica. Per loro, il fatto che in realtà Marianne non sia una donna delle pulizie, destinata a rimanere tale per tutta la vita, rappresenta una sorta di tradimento.

Il finale del film è amaro, perché mette in luce gli ostacoli che ancora oggi si frappongono all’amicizia tra persone di diversa estrazione sociale e culturale.

Pasquale Musella – Docente di Filosofia e Scienze Umane. Giornalista e scrittore

IL REGISTA

EMMANUEL CARRERE
Parigi
9 dicembre 1957

Scrittore, sceneggiatore e regista. Figlio di Louis Carrère d’Encausse e dalla storica francese Hélène Carrère d’Encausse, nasce e vive a Parigi dove si laurea, presso l’Istituto di Scienze Politiche. Considerato come uno dei più noti scrittori contemporanei francesi,
ha al suo attivo una decina di libri nella maggior parte dei quali si indaga l’identità delle persone, con particolare attenzione alle illusioni che esse si creano. Nel 1982 pubblica la sua prima opera letteraria dal titolo “Werner Herzog”, dedicata al regista tedesco, l’anno successivo il suo primo romanzo “L’Amie du jaguar” e, nel 1984, “Bravoure”. Nel 1995 scrive il romanzo “La classe de neige”(in Italia edito da Einaudi nel 1996 con il titolo “La settimana bianca”) con cui vince il premio letterario francese “Prix Femina” e da cui sarà tratto l’omonimo film nel 1998 diretto da Claude Miller vincitore del Premio della giuria al 51mo Festival di Cannes. Nel 1996 si cimenta con la stesura della biografia dello scrittore
statunitense Philip K. Dick (“Io sono vivo, voi siete morti. Biografia di Philip K.Dick”, ed. Hobby&Work).

Diventa noto ai lettori italiani per il suo breve racconto erotico “Facciamo un gioco” del 2004 (ed. Einaudi), un articolo dedicato alla sua compagna, la giornalista
Hélène Devynck, che lo avrebbe letto solo dopo la sua pubblicazione sul giornale francese “Le monde”. Amante dell’arte cinematografica, sperimenta, accanto alla letteratura, l’attività di critico cinematografico e la stesura di sceneggiature sia per il cinema che per la televisione. Nel 2003 decide di cimentarsi anche nella regia, dirigendo “Ritorno a Kotelnitch”. Il film, presentato alla 60ma edizione del Festival di Venezia, suscita un discreto interesse nella critica tanto da fargli ottenere la menzione speciale con il Premio Città di Roma.

Ritorna alla regia due anni dopo con il film “L’amore sospetto” tratto dal suo omonimo romanzo. Nel 2005 il film viene acclamato positivamente in più occasioni, ricevendo diversi premi e menzioni. Nel 2010 è chiamato a far parte della Giuria Internazionale del Festival di Cannes. Tra le altre sue opere pubblicate in Italia, tutte per Einaudi Editore: “Baffi”, “L’avversario”(entrambi usciti nelle libreire italiane nel 2000) e “La vita come un romanzo russo”(2009).

 

MGF