Drammatico
Regia di Patrice Leconte –
Francia, 2022 – 89′
con Gérard Depardieu, Jade
Labeste, Mélanie Bernie

QUESTO NUOVO MAIGRET CINEMATOGRAFICO E’ AFFASCINANTE.
MERITO DI UN IMMENSO DEPARDIEU, MA NON SOLO.

Com’è strano, com’è diverso, il Maigret di Depardieu e Leconte.
Com’è malinconico, stanco, intristito. Un Maigret per certi versi quasi irriconoscibile.
Inappetente, per dirne una. Che gli levano la pipa all’inizio del film, per ragioni mediche, e lui nemmeno protesta. Continua a bere, quello sì, per fortuna: “questo caso è cominciato col bianco e finisce col bianco. Ci sono casi da calvados, altri da birra, questo è un caso da bianco”, dice a un certo punto a un suo ispettore che gli aveva proposto una birra fresca.
E però, pur così diverso, Maigret è sempre Maigret: nei suoi modi, nell’intelligenza, nella sua umanità.
Com’è splendidamente autunnale, l’ingombrantissimo Maigret di Gérard Depardieu, che si cala nella parte con una grazia che fa quasi a pugni con la fisicità massiccia, che diventa ancora più malinconico di fronte a quella giovane senza nome ritrovata sul selciato, e a una ragazza come lei, come tante altre, come la figlia, sua, che non c’è più, e che torna solo in echi discreti di risate infantili.
Maigret – questo Maigret, tutti i Maigret – non giudica, non condanna, non è giustizialista né moralista. Maigret si muove cauto, cercando di spostare il meno aria possibile, creando meno disturbo possibile, implacabile nelle domande ma tollerante con le risposte. Perché conosce bene l’uomo e la sua fallibilità, il dolore che si annida nell’animo umano, e che qui esplode silenzioso nel confronto con un anziano ebreo lituano scampato alla guerra e ai campi. Lui sì, ma non la figlia. Anche lui.
L’elefante Maigret si muove nella cristalleria della fragilità umana, con l’eleganza e l’equilibrio di una ballerina, attentissimo a non fare più danni di quanti non siaBstrettamente necessario fare, perché sa benissimo quanto sia difficile mettere assieme i cocci quando si va in pezzi.

E allora, oltre a non fare danni, Maigret aggiusta. Come sa, come può, rimettendo sulla giusta strada, la strada di casa, l’unica ragazza che ha potuto proteggere, aggiustare, salvare. Con i modi bruschi e silenziosi dei padri di una volta.
Sul finale del film, di questo bel film che ha, anche lui, i modi e i tempi di una volta, Maigret sembra ringalluzzirsi un po’, riprende in bocca la pipa, abbozza perfino qualche sorriso. Perché risolve il suo caso, certo, ma perché è riuscito in quel che gli stava più a cuore: fare del bene. Fare, a modo suo, il padre.
E il modo in cui, nel finale, e nell’andatura lenta, stanca e pesante, ma allo stesso modo serena e aggraziata di Depardieu, si mescolano il sollievo per quella missione compiuta, e l’amarezza per quanto nella vita non si potrà mai aggiustare, non è cosa da poco

Federico Gironi – Giornalista, scrittore e critico cinematografico

IL REGISTA

PATRICE LECONTE
Parigi
12 novembre 1947

 

 

 

 

Regista, attore, fumettista e sceneggiatore francese, il cinema di Patrice Leconte si è da sempre caratterizzato da una poesia leggera che ha svolto funzione d’intrattenimento delicato e al contempo ambiguo, seguendo quell’intento mistificatore del regista che ha fatto della solidità e sensibilità le fondamenta del suo stile.
La sua arte è dotata di poesia e grazia come solo certo cinema francese sa fare; la capacità di raccontare i sentimenti, le relazioni umane e gli eventi della vita con delicatezza e eleganza è uno dei suoi tratti distintivi così come la maestria nell’usare l’umorismo con grande originalità. Dopo una serie di cortometraggi, esordisce nel 1975 con la commedia ambientata durante gli anni Cinquanta “Il cadavere era già morto”.
Grande artigiano della macchina da presa, prosegue la sua carriera con lavori che non trovano distribuzione in Italia, fino a “Tandem” (1987), commedia dai toni malinconici, distribuita nel Belpaese con quindici anni di ritardo. Si muove con garbo cambiando genere, e mostrando la sua capacità di tenere alta la tensione nel giallo “L’insolito caso di Monsieur Hire” (1989), per poi tornare alla commedia “Il marito della
parrucchiera” (1990).Nel 1993 realizza “Tango” e nel 1994 “Il profumo di Yvonne”, entrambi incentrati sulla fatale capacità di seduzione delle donne.

Realizza poi quello che può forse essere considerato il suo film più originale: “La ragazza sul ponte” (1999), girato in bianco e nero con il lanciatore di coltelli Daniel Auteuil e la bellissima Vanessa Paradis,
Si dedica alle “Confidenze troppo intime” (2003) di Sandrine Bonnaire, nei panni di una paziente in cura dallo psicanalista, per poi tornare alla commedia con “Il mio migliore amico” (2006), dove ritrova Daniel Auteuil. Nel 2012 Patrice Leconte torna dietro la macchina da presa con la pellicola d’animazione “La bottega dei suicidi”, la storia di una famiglia che gestisce un negozio dove è possibile trovare tutto il
necessario per porre fine alla propria vita. Nel 2013 porta sul grande schermo “Una Promessa”.

 

 

Dopo la commedia “Tutti pazzi in casa mia” (2015), scrive e dirige “Maigret” (2022).
Regista di indubbio talento, da sempre circondato da attori che conoscono bene il loro mestiere, Leconte è decisamente raffinato e prezioso nel suo stile. Non manca mai del “necessaire” che lo fa un autore tipicamente francese: piccante, ideale, sobrio, completo. E ogni sua pellicola è denotata da un tocco di classe inarrivabile, au contraire di molti altri connazionali.

 

 

 

MGF

Eccoci qui, alla fine di questo 2022, a fare un piccolo bilancio di questo anno di ancora un po’ timida ripresa.

Il Cinema Teatro Fratello Sole, in costante attività dal 1998, ha impostato il suo recente percorso su strade nuove, affiancate a quelle consuete delle rassegne cinematografiche, cercando di risvegliare il bisogno di un ritorno alla normalità e all’aggregazione, sentimento fortemente insito in tutti noi dopo il faticoso periodo della pandemia di Covid19.

 

Abbiamo voluto basare i nostri progetti su una parola chiave: Bellezza.
Sono state proposte conferenze, spettacoli teatrali, concorsi di poesia e film che ruotano tutte intorno a questo tema ampliandone il significato e applicandolo alle varie forme di comunicazione.

 

Ospiti importanti ci hanno affiancato in questo percorso: fra Paolo Canali, Direttore delle Edizioni Biblioteca Francescana, Alberto Pellai, psicoterapeuta, Paolo Crepet, psichiatra e sociologo e Don Alberto Ravagnani (simpaticamente chiamato il prete YouTuber) hanno affrontato per noi il sempre più attuale tema del disagio giovanile, molto sentito soprattutto dopo le difficoltà che i ragazzi hanno dovuto affrontare nel periodo pandemico, cercando di indicare un percorso con cui approcciare questo grave e attuale problema e riscontrando un grande interesse e una grande partecipazione di pubblico.

 

Abbiamo allestito spettacoli di teatro sacro contemporaneo con la Compagnia Teatro Minimo di Bergamo: nelle loro rappresentazioni il tema religioso non viene affrontato esplicitamente ma si stempera in una chiave del tutto umana e universale, mirando a riaccendere la speranza nei valori e offrire occasioni di riflessione. Un altro contributo a questo percorso ci è stato dato da Angelo Franchini, le cui indagini teatrali, tratte dal Vangelo, parlano di e per noi e, citando Franchini, di “questa esistenza che ci sta capitando, chiamata vita”.

                                       

Abbiamo ricominciato la proiezione dei docufilm di arte, riscontrando una buona risposta e avvertendo nel pubblico il desiderio di approfondimenti e di ricerca della bellezza.
Lo stesso bisogno lo abbiamo avvertito nella risposta positiva al nostro Concorso di Poesia, dove adulti e ragazzi possono esprimere liberamente nei versi il loro stato d’animo, le loro speranze, la loro personale ricerca della Bellezza.

                                       

 

Nel contempo varie associazioni hanno portato sul nostro palco serate, concerti e incontri dove al primo posto ci sono tematiche importanti e categorie ritenute più fragili, per diffondere, in modo positivo, pratico e fruibile a tutti la filosofia del vivere il meglio possibile davanti ad una malattia, alla disabilità e alle condizioni particolari in cui spesso la vita ci mette duramente alla prova.

                                   

Per i più piccoli un po’ di magia, un po’ di allegria e uno sguardo ai tanto amati dinosauri!

                  

La scelta dei film si è orientata verso proposte significative per contenuti e qualità, ma con un ulteriore sguardo ad un pubblico sempre più bisognoso di distrazione dai problemi quotidiani, di leggerezza, con commedie per strappare un sorriso e film d’azione per attirare quella fascia di giovani un po’ latitante ma sicuramente bisognosa di un po’ di attenzione anche da parte nostra, poiché il nostro intento è quello di essere più che altro una sala della Comunità, abbracciando il più possibile tutte le categorie di fruitori dei nostri servizi.

                                                                       

Tutte le nostre attività sono state quindi studiate per cogliere al massimo le possibilità di un cammino di collettività alla scoperta di ogni forma di comunicazione e di una dimensione umana più profonda.

Con la speranza di avervi regalato qualche ora di spensieratezza o di riflessione, Vi ringraziamo di essere stati con noi e Vi auguriamo un sereno 2023, lasciandovi alle immagini di questo video a voi dedicato.

MGF

2022: UN ANNO CON VOI – YOUTUBE FRATELLO SOLE

https://www.youtube.com/watch?v=g48Q0SlVJeM&t=12s

Azione
Regia di Joseph Kosinski
USA, 2022
con Tom Cruise, Miles Teller, Jennifer Connelly
Durata 131

 

 

 

 

LA TRAMA

Il Tenente Pete “Maverick” Mitchell (Tom Cruise), tra i migliori aviatori della Marina, dopo più di trent’anni di servizio è ancora nell’unico posto in cui vorrebbe essere. Evita la promozione che non gli permetterebbe più di volare, e si spinge ancora una volta oltre i limiti, collaudando coraggiosamente nuovi aerei. Chiamato ad addestrare una squadra speciale di allievi dell’accademia Top Gun per una missione segreta, Maverick incontrerà il Tenente Bradley Bradshaw (Miles Teller), nome di battaglia “Rooster”, figlio del suo vecchio compagno di volo Nick Bradshaw “Goose”. Alle prese con un futuro incerto e con i fantasmi del suo passato, Maverick dovrà affrontare le sue paure più profonde per portare a termine una missione difficilissima, che richiederà grande sacrificio da parte di tutti coloro che sceglieranno di parteciparvi.

 

LA RECENSIONE

UN FILM SUL SUPERAMENTO DELLA MORTE E SULLA SOPRAVVIVENZA DELL’UOMO ALLA MACCHINA

Solo ora mi rendo conto quanto il primo Top Gun sia sempre stato un film sulla morte. Pete Mitchell è circondato di lutti (padre, madre, compagno di volo) e la sua guida spericolata si configura come una via di mezzo tra l’istinto suicida e l’unico possibile canale per la via eterna, ovvero verso il mito (cinematografico). Questo sequel clone riparte sostanzialmente da qui. Da questa necessità di diventare divinità resistendo alla gravità della vita e alle cicatrici dei lutti. E quindi il titolo rimanda inevitabilmente a un nome proprio, che è quello dell’eroe protagonista entrato nell’immaginario collettivo e che non a caso significa “anticonformista, indipendente”, in perfetta sovrapposizione al Cruise attore, produttore, imprenditore, spiritualista.

Il suo Pete Mitchell/Maverick è un pioniere dei cielo, un Icaro post-moderno che non ha paura di avvicinarsi troppo al sole o di salire troppo in alto. Anzi una delle figure più ricorrenti in questo Top Gun: Maverick diretto da Joseph Kosinski è proprio l’ascensione verticale oltre ogni limite. All’inizio Cruise deve spingere al massimo il suo Stealth per sfidare la velocità del suono e raggiungere il limite di mach 10. Più avanti nelle esercitazioni della missione suicida per cui è stato chiamato dalla Top Gun per istruire i giovani piloti del futuro – tra questi c’è anche Rooster, il figlio di Goose, con tutti i conflitti psicologici e personali da superare nei confronti della figura paterna e di quella di Maverick – dovrà ancora una volta testare le capacità (sovra)umane, attraverso la verticalità e la velocità, andare oltre i confini di spazio-tempo in un’area superomistica da Mission:Impossible.

Perché nonostante si guidino arei da milioni di dollari, sono le capacità individuali che nel mondo Top Gun fanno ancora la differenza, il “volare come nessuno ha mai finora finora”, in quella che diventa quasi una dichiarazione poetica sulla preminenza del fattore (super)umano nei confronti della tecnica. La lotta tra uomo e tecnologia e la necessità di risparmiare ancora del tempo prima che i droni, l’elettronica e la guerra virtuale soppiantino definitivamente il vecchio mondo.

La tua razza è destinata all’estinzione” dice Ed Harris a Cruise, “Non oggi!” risponde l’eroe. Dichiarazione che sin dai titoli di testa – con la ripresa integrale del tema musicale di Harold Faltermeyer – si fa esplicita, ripercorrendo soluzioni narrative e registiche del film di Tony Scott, alla cui memoria Top Gun: Maverick è dedicato. Del resto come l’immortalità ha bisogno della morte per definire se stessa, così i maverick di ieri e di oggi devono superare il lutto dei padri per diventare i nuovi dei del cielo.

Carlo Valeri – Giornalista e critico cinematografico

 

IL REGISTA

JOSEPH KOSINSKY
Marshalltown – USA
3 maggio 1974

Tra fascinazione e visioni apocalittiche, il cinema di Joseph Kosinski affronta il paradosso dell’esaltazione tecnologica e delle perplessità che ne conseguono. I suoi protagonisti, illuminati da luce bluastra e livida, vivono immersi in mondi virtuali in cui la tecnologia prende vita, appare umana e assume sembianze che ne mostrano l’anima. Classe ’74, Joseph Kosinski cresce nello Iowa. Figlio di un medico, si trasferisce a Los Angeles dove si avvicina alle arti visive attraverso il fumetto. Nel 2005 inizia a scrivere una graphic novel intitolata Oblivion. Il lavoro non viene pubblicato e viene accantonato per dedicarsi agli studi di grafica digitale. Alunno e poi assistente alla Columbia GSAPP, Kosinski sperimenta l’utilizzo delle arti visive attraverso l’imprescindibile supporto tecnologico.

 

 

Il fascino delle possibilità virtuali si trasforma in cifra stilistica per la sua nascente carriera da regista di spot televisivi. Diverse multinazionali statunitensi si affidano al suo stile visivo algido, ma penetrante, efficace nel mostrare possibilità di prodotti orientati al futuro. Specializzato in spot di videogame, nel 2007 Kosinski viene premiato per gli effetti visivi dello straniante spot di Gears Of War. Il mondo dei computer e dell’intrattenimento sono il suo habitat e per questo la Disney gli affida il difficile compito di un sequel: riaccendere i neon del loro cult Tron (1982). Con Tron Legacy (2010) Kosinski dirige un’esperienza visiva ed immersiva, con il merito di non limitarsi né alla citazione, né al semplice giocattolo visivo, ma mettendo in scena un manifesto significativo per i nativi digitali. Nel 2013 riesce a rispolverare un vecchio progetto, iniziato sottoforma di graphic novel. Oblivion (2013) è un film che lo vede impegnato nella triplice veste di regista, produttore e sceneggiatore. Tom Cruise è il protagonista di un’opera coerente con gli intenti analitici di un regista interessato al recupero di una radice di calore umano in un mondo mediato a rischio aridità. Dopo Fire Squad – Incubo di fuoco (2017), nel 2020 torna a lavorare con Tom Cruise in Top Gun – Maverick. In concomitanza alle sue occupazioni cinematografiche, Kosinski è anche un assistente insegnante per l’architettura, specializzato nel campo della modellazione tridimensionale e grafica.

MGF

Docufilm diretto da Marco Parnigiani

Un viaggio attraverso i capolavori del Maestro racchiusi in quel Museo a cielo aperto che è Firenze: un itinerario inedito per scoprire l’inventore di un nuovo modello di bellezza capace di superare la barriera dei secoli e ispirare i contemporanei.

Con la voce narrante di Jasmine Trinca

 

 

 

 

 

In Botticelli e Firenze. La Nascita della Bellezza rievocazioni oniriche, immagini suggestive della città e riprese di opere straordinarie si alternano alle voci dei massimi esperti, studiosi, storici dell’arte internazionali che narrano splendore e contraddizioni della Firenze di Lorenzo de’ Medici, alla scoperta di uno degli artisti simbolo del Rinascimento italiano.

Dalle meravigliose Madonne alle pitture dei responsabili della Congiura dei Pazzi giustiziati e impiccati fuori dalla Porta della Dogana al Palazzo Vecchio, dall’Inferno Dantesco alle Pietà, dagli antichi dei della mitologia ellenica sino al Dio apocalittico del Savonarola, l’arte di Botticelli sarà indagata attraverso gli interventi di esperti

APPROFONDIMENTO STORICO

SANDRO BOTTICELLI E IL MECENATISMO FIORENTINO

di Beatrice Fiorello – dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

Sandro Botticelli (1445-1510) è un artista che difficilmente si colloca in uno stile artistico preciso. Il suo Rinascimento è pacato, naturalistico, quasi espressionistico a tratti, colmo di significati impossibili da cogliere ad uno sguardo superficiale.
Un animo tormentato, malinconico, influenzabile, che si riflette nell’iperbolica variabile di sentimenti che emergono dalle sue opere.
La sua storia è strettamente legata ad un fenomeno che cominciò nel periodo dell’Umanesimo, inaugurato da Francesco Petrarca e incoraggiato dai primi scavi archeologici di Roma, che portarono a quello che oggi chiameremmo un revival dell’Antica Grecia, in tutto il suo splendore: il mecenatismo intellettuale.

In un’epoca in cui il punto focale della cultura si sposta dalla divinità, ineffabile e inafferrabile, all’uomo, si assiste ad una laicizzazione della cultura, spinta dal desiderio di esplorare un mondo distante, differente, dal desiderio di comprendere come l’Antichità abbia contribuito a plasmare la civiltà. Non si abbandona tuttavia la religione, come invece accadrà secoli più tardi con l’Illuminismo.
L’arte, la poesia, pur non essendo più intrinsecamente religiose, recano ancora in esse la ricerca, il tentativo di comprendere il Divino: la figura petrarchesca della “donna angelo”, che con la sua stessa esistenza è riflesso del Paradiso, è un esempio sopra ad ogni altro. L’Umanesimo è una corrente di pensiero umile, modesta, dalla quale scaturirà la concezione dell’artista Rinascimentale visto come “un nano sulle spalle dei giganti”. L’arte non è più preghiera o vanità, non solo: è ricerca del divino nell’umano, è la riscoperta della filosofia, è l’indagine accurata del sentimento.
Corpi perfetti, il rinnovato ardore del kalòs kai agazòs, una bellezza senza tempo che ancora oggi ci lascia senza fiato. Forme sinuose, religione e ricerca scientifica che si inanellano con grazia per creare opere delle quali ancora oggi non esiste pari.

Firenze, la culla della civiltà del Bel Paese, trova il suo più alto picco di gloria durante la signoria di Lorenzo de’ Medici, iniziata nel 1469, ed è in questo contesto che emerge la figura di Sandro Botticelli. In precedenza, le grandi commissioni artistiche erano legate alla Chiesa; la spinta laicizzante dell’Umanesimo, tuttavia, influenza i grandi signori, che cominciano a chiamare artisti da tutto il Paese per farne i propri protetti; avere un intellettuale cortigiano è una sorta di status symbol, quasi una questione di principio. Ma è grazie a questa corsa alla cultura, che forse a tratti è superficiale e anche, se vogliamo, un po’ ipocrita, che oggi possiamo godere delle opere di Botticelli e degli altri grandi del Rinascimento.
Immerso nella cultura Fiorentina, finanziato dalla ricca famiglia Medici, Botticelli ebbe l’opportunità di creare opere di una bellezza senza tempo; reso libero dal suo stesso talento, in lui emerse un Rinascimento diverso, più lieve e delicato rispetto a quello incarnato dai suoi contemporanei. Botticelli era un artista di estrema sensibilità, melanconico, sempre alla ricerca di un significato, e questo fu al contempo la sua benedizione e la sua rovina.

 

La sua arte non è mai rigida, mai costruita: un paesaggio aperto è spesso preferito ad una fredda architettura, la razionalità geometrica che spesso viene considerata uno dei pilastri dell’arte rinascimentale è trascurata in favore della bellezza più caotica della natura, una caratteristica insolita che quasi schiude le porte al paesaggismo Cinquecentesco. Le Grazie sembrano danzare, muoversi sulla tela in una danza eterna, il vento sembra soffiare, le onde del mare si succedono l’una all’altra in un moto infinito.
Tuttavia, questa leggerezza non è scevra di malinconia, al contrario: dalle opere di Botticelli emerge un sentimento di nostalgia per un tempo di cui non ha potuto avere esperienza, un dolore sordo, tenue ma mai assente, un accordo cupo a contrapporsi alla dolce melodia dei personaggi sulla tela.

 

E questa nostalgia, questa tormentosa angoscia, emergerà in maniera preponderante dopo il 1490, complice la predicazione di Savonarola: un profeta di sciagure che si scaglia contro il degrado morale, le cui parole non lasciarono immune nemmeno Michelangelo. Ritroviamo la tormentosa lotta da lui predetta nei grovigli di corpi del Giudizio Universale, come la ritroviamo nei toni apocalittici ed enfatici delle opere tarde di Botticelli, nel dolore e nel pathos della costruzione delle scene, ormai dimentiche della rigida costruzione prospettica che del resto non aveva mai particolarmente amato.

 

Tuttavia, passata la “tempesta” savonaroliana, l’arte di Botticelli resta cupa e chiusa, in completa contrapposizione alla dolceamara nostalgia del suo periodo classicista, e non incontra più il favore dei contemporanei: troppo angosciante, forse, troppo vicina a timori che si preferisce ignorare. La sua ricerca spasmodica di espiazione dall’edonistica vanità delle sue opere giovanili e mature diventa nient’altro che il ricordo della sciagura, del declino, un avvertimento che nessuno vuole più ascoltare, un folle disperato, e patetico nella sua disperazione.

 

Ma forse è proprio questo che ci fa amare la sua arte ancora oggi: c’è malinconia, c’è la paura di ognuno dipinta con delicatezza sulla tela, c’è una goccia di colore per ogni sentimento, dall’angoscia alla gioia, morte e rinascita, peccato ed espiazione.
C’è l’anima confusa di un uomo come noi, alla costante, instancabile ricerca di un significato.

 

Regia di Simon Curtis – Gran Bretagna, 2022
con Hugh Bonneville, Laura Carmichael, Jim
Carter
Durata 125′

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Nella splendida tenuta di Downton Abbey, situata nella campagna inglese, vedremo ancora una volta intrecciarsi le vicende della famiglia Crawley con quelle della sua servitù. Mentre la villa è in pieno subbuglio a causa dei preparativi per il matrimonio di Tom Branson (Allen Leech) e della signorina Lucy Smith (Tuppence Middleton), ex cameriera, Lady Violet Crawley Grantham (Maggie Smith) riceve in eredità una villa nel sud della Francia. Riunita la famiglia, l’anziana Violet spiega come questa dimora, nota come Villa delle Colombe, le sia stata donata in gioventù da un uomo, con cui ha avuto una storia d’amore, prima di conoscere il suo futuro marito. Ora che il suo giovane amore è morto, la villa, ormai non più segreta, è passata di proprietà alla signora, che decide di recarvisi per un soggiorno, accompagnata da una parte della famiglia e dagli immancabili e fedeli servi, Mr. Carson (Jim Carter) e Mrs. Hughes (Phyllis Logan).
Nel frattempo a Downton Abbey si respira una ventata di modernità con l’arrivo del produttore Jack Barber (Hugh Dancy) e della sua troupe cinematografica, pronta a girare un film all’interno del lussuoso palazzo con l’appoggio di Lady Mary (Michelle Dockery). Non mancheranno di certo gli intrighi e i misteri, come quello sul passato di Lady Violet.

 

LA RECENSIONE

Il film riprende sostanzialmente da dove ci eravamo lasciati nel 2019. I Crawley stanno per varcare la soglia degli anni Trenta e la loro situazione economica e sociale non è delle migliori: i tempi dell’aristocrazia sono ormai lontani e il subbuglio socio-culturale che ha colpito l’Europa a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale ha rimescolato le carte in tavola. La famiglia di Downton si trova alle strette e quando un cineasta si presenta alla porta, speranzoso di poter girare alcune scene del suo prossimo film nella fastosa dimora in cambio di una generosa somma di denaro, i Crawley sono costretti ad accettare. Nel frattempo, dalla Francia arriva la notizia che la contessa madre (la sempre pungente Maggie Smith) ha ereditato una villa sulla Costa Azzurra da una sua vecchia conoscenza. Così, la narrazione si scinde in due direttrici: da un lato seguiamo le riprese del film di Jack Barber , mentre dall’altro troviamo i coniugi Crawley , la figlia Edith e i novelli sposi Tom e Lucy diretti verso il sud della Francia. Downton Abbey II – Una nuova era segue la traiettoria che abbiamo imparato a conoscere bene: una serie di equivoci, problematiche e incomprensioni si vengono a creare per poi trovare risoluzione nel corso della pellicola. Tuttavia, abbiamo notato, ancora più che in passato, una certa “serenità” che ammanta le situazioni e le relazioni tra i personaggi. Quella punta di acidità, di conflitto, che ha contraddistinto la serie per il corso delle sue sei stagioni, ha trovato quiete in una strana parentesi idilliaca priva di rancore e risentimento. Dal punto di vista prettamente audiovisivo, invece, la pellicola cerca di rimanere sui solchi tracciati dalla serie, prima, e dal lungometraggio, poi, ma la regia di Simon Curtis spesso si spinge un po’ oltre, con vedute aeree elaborate e per lo più pompose. A parte queste piccolezze espressive, tutto ciò che si trova dinanzi alla macchina da presa è degno della produzione che rappresenta, portando Downton agli albori degli anni Trenta con grande semplicità ed eleganza. Downton Abbey II – Una nuova era non è uno di quei film che rende particolarmente meditativi e loquaci dopo la visione. È una produzione degna del nome che porta, che riesce ancora a reggere il peso che porta sulle sue spalle. Ogni volta è come ritrovare vecchie amicizie e passare un paio d’ore in loro compagnia. Tutto e nulla è cambiato. Eppure, quel brivido lungo la schiena quando la tenuta di Downton fa la sua prima apparizione in scena resta una costante che difficilmente tenderà a sparire.

Mattia Pescitelli – studente di Cinema, Televisione e Nuovi Media in DAMS – Università degli Studi Roma

 

IL REGISTA

SIMON CURTIS
Londra – Regno Unito
11 marzo 1960

Simon Curtis è un regista, produttore televisivo e produttore cinematografico britannico. Ha iniziato la sua carriera da regista al Royal Court Theatre, dove è stato vicedirettore di Max Stafford Clark e direttore del Theatre Upstairs. Le sue numerose fatiche hanno incluso la prima mondiale di Road, la prima commedia scritta da Jim Cartwright che è stata prodotta per la prima volta nel 1986 al Royal Court Theatre Upstairs, con Curtis alla direzione. Lo spettacolo esplora la vita delle persone in una zona povera e operaia del Lancashire durante il governo di Margaret Thatcher , un periodo di alta disoccupazione nel nord dell’Inghilterra. Nonostante la sua natura esplicita, è stato considerato estremamente efficace nel ritrarre la disperazione della vita delle persone in questo momento, oltre a contenere una grande quantità di umorismo. Ambientato su una strada in una notte movimentata, il pubblico si addentra nelle case sulla strada e nelle vite dei personaggi.

 

 

 

Da allora ha lavorato a lungo con la BBC Television and Films, guadagnando incarichi per oltre cinquanta regie e produzioni. È stato nominato per un Emmy e cinque BAFTA TV Awards. Nel 2011 Curtis scrive e dirige Marilyn, con cui ottiene una certa popolarità anche fuori dal Regno Unito.

È sposato dal 1992 con l’attrice statunitense Elizabeth McGovern, la Cora Crowley di Donwton Abbey. La coppia ha due figlie ed è residente a Chiswick, Londra

 

 

 

MGF