Regia di Justine Triet – Francia, 2023 – 150′
con Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner

 

 

 

 

 

ANATOMIA DI UNA CADUTA: IL LEGAL THRILLER CON UNA VERITA’ IMPOSSIBILE

Anatomia di una caduta” della quarantacinquenne Justine Triet, Palma d’Oro a Cannes, è, se guardiamo ai tralicci dell’edificio narrativo, un legal thriller – coinvolgente e corredato di tutto il necessario, schermaglie tra accusa e difesa e deposizioni inaspettate incluse – che contiene molto di più e lo lascia “traspirare” nell’incedere inesorabile di una drammatica vicenda familiare dove diluvi di parole, silenzi e passato alzano il sipario su una vivisezione di ciò che chiamiamo, con eccessiva sicurezza, Verità. Bersaglio non inedito e sempre aleggiante quando testimoni e imputati si alternano alla sbarra, ma qui il gioco va oltre l’accertamento di una responsabilità penale. E nessuna legge vince, o meglio, tutti hanno una “legge” o un codice (comunicativo) da difendere.

Sandra Voyter (una monumentale Sandra Hüller, attrice tedesca di solida formazione teatrale) è una scrittrice affermata, vive sopra Grenoble col marito francese Samuel Maleski (Samuel Theis), scrittore irrisolto fascinoso e sulle spine. Con loro l’undicenne figlio Daniel (Milo Machado Graner), diventato completamente cieco dopo un incidente di cui il padre porta una parte di responsabilità. È lui, guidato dal cane Snoop, a trovare per il primo il cadavere del padre, un altro trauma: la vita sa calcare brutalmente la mano, e sarà la devota bestiola a dare un cruciale contributo allo scioglimento del caso, che arriverà dopo 150 minuti di buon cinema, per scrittura scenica (Triet col marito Arthur Harari), ottimo cast, tenuta narrativa, sapiente e quasi pudico gioco di emozioni.

Il piccolo Daniel chiederà e otterrà di assistere alle fasi finali del processo, vuole capire di più, molto ha da dire alla corte. Chiede la parola, racconta sparigliando le carte. Solo un bambino riesce ad avvicinarsi, caricandosi un peso doloroso, a una possibile soluzione dell’enigma. Si dirada la nebbia, nella foresta di voci si apre un sentiero di verità vera.

“Anatomia di una caduta” è anche una lezione di metodo per chi scava nella Storia: confronto delle fonti, archivi, testimonianze dirette, dubbio sistematico. Un aggiornamento del classico “Anatomia di un omicidio” di Preminger (1959), smagliante legal thriller proprio imperniato sulla oscillazioni e le torsioni ex post dei fatti, tutti interpretabili, mascherabili, manipolabili. Triet tuffa le mani in un altro magma naturalmente associato alla violenza: la famiglia, i suoi fragili equilibri. In “Anatomia di una caduta” residua pure un’eco forte di tanti suoi lavori, tra nuove povertà, giovani inconciliati, crisi di famiglia tra pubblico e privato. Poi si tratta sempre di calare l’ispirazione in un linguaggio cinematograficamente potente e stavolta la regista c’è pienamente riuscita, con l’apporto significativo di Sandra Hüller, perfetta in ogni registro. Il film in Francia ha messo d’accordo al botteghino il pubblico più votato al cinema “d’autore” e quello appassionato ai drammi sul filo della suspense.

Andrea Aloi – Strisciarossa.it

Il film è stato premiato al Festival di Cannes, ha ottenuto 4 candidature a Golden Globes, ha ottenuto 4 candidature agli European Film Awards, ha vinto un premio ai British Independent, è stato premiato a National Board, ha ottenuto 1 candidatura a Spirit Awards, ha ottenuto 1 candidatura a Goya, Il film è inoltre stato premiato a Cahiers du Cinéma

 

Recensioni
9/10 IGN Italia
3,8/5 MyMovies
4/5 Cineforum


IL LEGAL THRILLER

Come nasce e di cosa tratta il Legal thriller? Alla voce Legal Thriller, il vocabolario Treccani riporta la definizione “Film o narrazione romanzesca che si incentra su un’indagine svolta da un avvocato e si risolve in un dibattimento in tribunale“. Perciò, che lo si chiami Thriller legale, Giallo giudiziario, Thriller giudiziario o che si utilizzi la ben più nota locuzione inglese Legal thriller, il concetto non cambia: parliamo, qui, di un sottogenere del thriller “specializzato” nell’analisi di fatti criminosi dal punto di vista dei processi, tribunali, verdetti e dei personaggi che interagiscono quotidianamente con quest’ambito così peculiare.
Al centro di ogni Legal thriller ci sono, dunque, avvocati, magistrati, pubblici ministeri, che molto spesso fungono da narratori delle vicende criminose, nonché da veri e propri ciceroni nei tortuosi meandri del processo. Non pistole, inseguimenti e piedipiatti, dunque, ma banchi, toghe e togati.
Sono davvero tanti i film che seguono questo filone. Ricordiamo qui i più famosi:

 

Il rapporto Pelican – The Pelican Brief (1993)
Julia Roberts interpreta una giovane studentessa di legge che, durante le sue ricerche, arriva a redigere un rapporto a proposito dei presunti omicidi di due giudici della corte suprema americana. Il rapporto attira l’attenzione del mandante degli omicidi e la giovane è costretta a difendersi da costanti minacce, anche grazie al reporter interpretato da Denzel Washington.

 

 

 

 

 

L’uomo della pioggia – The Rainmaker (1997)
Uno dei capolavori del grande Francis Ford Coppola: la storia è quella di un giovane neo avvocato (Matt Damon) che, con l’aiuto di un vecchio praticante mai laureatosi (Danny DeVito), assume la difesa di un ragazzo malato di leucemia al quale l’assicurazione non vuole erogare il risarcimento.

 

 

 

 

 

 

 

Il momento di uccidere – A Time to Kill (1996)
Nell’America razzista del profondo sud due ragazzi bianchi violentano ed uccidono una ragazza di colore; dopo l’assoluzione dei due, il padre della giovane (Samuel L. Jackson) decide di farsi giustizia da solo e viene difeso da un giovane avvocato interpretato da Matthew McConaughey.

 

 

 

 

 

 

Codice d’onore – A Few Good Men (1992)
Tom Cruise interpreta un rampante avvocato della marina militare statunitense a cui è stato assegnato il caso di due marines accusati dell’omicidio di un loro commilitone. Demi Moore è l’assistente di Cruise e alla sbarra depone nientepopodimeno che Jack Nicholson, cattivissimo alto ufficiale dell’esercito che, davanti alla corte marziale, testimonia su alcune pratiche diffuse nel mondo militare.

 

 

 

 

 

Il cliente – The Client (1994)
Giocando in un bosco, un ragazzino incontra un avvocato in procinto di suicidarsi che gli rivela alcune scomode verità sui suoi loschi traffici. In un attimo il ragazzo si ritrova ad essere un testimone scomodo, minacciato da mafiosi e delinquenti di ogni tipo e difeso dalla brillante avvocatessa Susan Sarandon.

 

 

 

 

 

 

Il caso Thomas Crawford – Fracture (2007)
Un ricco ed anziano ingegnere (Anthony Hopkins) escogita un piano per uccidere la giovane e bella moglie infedele e incolpare l’agente di polizia suo amante. Se non che l’assistente distrettuale Willy Beachum (Ryan Gosling) non è per niente convinto di come sono andate le cose e inizia ad indagare, in cerca della verità.

 

 

 

 

MGF

 

Regia di Matteo Garrone – Italia, Belgio, 2023 – durata 121′

con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo

 

 

 

 

 

Matteo Garrone entra nella corsa per gli Oscar: Io Capitano, candidato ufficiale dell’Italia al miglior film internazionale dell’edizione 2024, è stato scelto per la cinquina finale della notte delle stelle del 10 marzo.

SEYDOU E MOUSSA SONO PINOCCHIO E LUCIGNOLO IN PARTENZA PER IL PAESE DEI BALOCCHI, CIRCONDATI DA GATTI E VOLPI PRONTI A PREDARE SULLA LORO INGENUITÀ

Come Benigni con “La vita è bella”, così Matteo Garrone in “Io Capitano” aveva di fronte a sé un problema di rappresentazione collegato alla difficoltà di mettere in scena una realtà così tanto analizzata, discussa e mostrata da rischiare di rimanere un passo indietro rispetto all’immaginario corrente; oppure di scavalcarlo con il pericolo di risultare inverosimile. Tenendo presente che il dramma dei migranti rispetto all’Olocausto ha un livello di attualità maggiore, nel suo essere un fenomeno in corso di svolgimento con cui in Italia siamo abituati a confrontarci non solo attraverso giornali e televisioni ma anche nella vita di tutti i giorni, nei mari e sulle coste interessate agli sbarchi.

Un carico di concretezza di cui, in “Io capitano”, riscontriamo traccia nelle scelte del regista di contaminare la realtà con una dimensione favolistica senza però venire meno all’aderenza con le immagini che testimoniano le cronache dei nostri giorni e, d’altra parte, aprendosi a un’universalità fuori dal tempo che fa della vicenda di Seydou e Moussa – adolescenti senegalesi decisi a raggiungere l’Europa per diventare star della musica – una storia leggibile anche al di fuori delle questioni politiche ed emergenziali a cui è naturale associarla. Facendo riferimento alla filmografia di Garrone e considerando le caratteristiche appena menzionate, “Io capitano” si presenta come una versione contemporanea del suo precedente lavoro, “Pinocchio”, al quale lo lega non solo il viaggio come struttura del racconto, la giovinezza dei personaggi e il desiderio di cambiare la propria condizione, ma anche la similitudine di alcuni passaggi, primo fra tutti il richiamo emotivo nei confronti della figura genitoriale – in questo caso quella materna – e poi la raffigurazione di certi accadimenti: il ritrovamento di Moussa da parte di Seydou, simile a quello del ricongiungimento tra Pinocchio e Geppetto nel ventre della balena e, ancora, i ragazzi nel carcere libico simili a quelli segregati da Mangiafuoco nel paese dei Balocchi.

Situazioni la cui improbabilità – si pensi alla maniera in cui Seydou si salva dalle grinfie dei suoi carcerieri, aiutato da un compagno di sventura che ricorda la fatina di Collodi – trasfigurano la realtà spingendola verso una contingenza archetipica propria delle favole. Carlo Cerofolini – Ondacinema Lungi dall’essere un film buonista, “Io capitano” non concede alcuno sconto all’orrore dell’esperienza vissuta dai suoi personaggi, presente soprattutto nelle sequenze all’interno del carcere libico. La versatilità di “Io Capitano” e, dunque, la sua capacità di attirare un pubblico eterogeneo consistono anche nel saper essere più cose insieme, di fare dell’eccezionalità presente nella vicenda di Seydou e Moussa non solo materia di riflessione e di denuncia del destino iniquo, ma anche volano di uno spirito d’avventura ormai estinto a causa della sempre maggiore invasività della componente tecnologica. Lo spirito d’avventura è qui capace di mettere in moto una catarsi che si compie anche nella trasformazione dei personaggi, che da vittime diventano eroi per come, a un certo punto, riescono a prendere in mano le loro vite, influenzandone il corso. Detto questo, a vincere in “Io capitano” è l’essenza di una poesia sentimentale che non ha bisogno di forzare la mano, capace com’è di avvicinare lo spettatore all’esperienza dei protagonisti, riducendo le distanze tra l’ordinario delle nostre vite e l’eccezionalità di ciò che vediamo sullo schermo. Senza contare che “Io capitano”, alla pari delle favole che si rispettano, riesce anche a esprimere una sua morale raccontando di come siano gli uomini e non la natura a rendere peggiore il mondo.

Carlo Cerofolini – Ondacinema

Recensioni
3,8/5 MyMovies
6,5/10 IGN Italia
3/5 Cineforum

Una coproduzione internazionale ispirata alle storie vere di alcuni ragazzi che hanno vissuto il viaggio dei due protagonisti. Il film è stato premiato al Festival di Venezia, ha ottenuto 2 candidature agli European Film Awards. Il film è stato premiato a San Sebastian

I MIGLIORI FILM SUL TEMA DEI MIGRANTI

 

L’emigrante di Charlie Chaplin (1917). Capostipite dei film sulle migrazioni, narra l’epopea di Charlot prima su una nave che porta in America centinaia di persone alla ricerca di una nuova vita, e poi a New York, dov’è disoccupato e si innamora di una ragazza.

 

 

Mosca a New York di Paul Mazursky (1984). Racconta le vicende di un sassofonista sovietico interpretato da Robin Williams che, arrivato col Circo di Mosca a New York, decide di chiedere asilo politico. Riuscirà a cambiare la sua vita grazie all’aiuto di un avvocato, di una ragazza messicana e di un giovane di colore.

 

 

 

 

 

 

Lamerica di Gianni Amelio (1994). È la grande emigrazione dall’Albania negli anni ’90, con i barconi in fuga da un Paese povero e dilaniato.

 

 

 

 

L’odio di Mathieu Kassovitz (1995). Uno dei film più apprezzati degli anni Novanta. Narra una giornata nelle banlieue parigine seguendo le vicende di Vinz, ebreo, di Said, di origini maghrebine, di Hubert, nero. La storia si sviluppa attorno al loro amico sedicenne Abdel, picchiato dalla polizia.

 

 

 

 

 

Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana (2005) Rovescia il tema del salvataggio in mare. A essere salvato è il giovane figlio di un industriale bresciano sbalzato in acqua nel corso di una vacanza in barca a vela. Sarà issato a bordo di un barcone che trasporta migranti.

 

 

 

 

 

District 9 di Neil Blomkamp (2009). Prendendo l’ispirazione nel titolo dalle vicende ai tempi dell’apartheid nell’area residenziale che a Città del Capo è denominata District Six, racconta di un mondo fantascientifico dove xenofobia e segregazione razziale sono messe in atto dagli umani contro una minoranza aliena.

 

 

 

 

Terraferma di Emanuele Crialese (2011). Premio speciale della giuria alla 68esima Mostra di Venezia, racconta la storia di un’isola siciliana, abitata dai pescatori e quasi ignorata dal turismo. Investita dagli arrivi dei migranti, l’isola si troverà al centro di una nuova politica di respingimento che ignora le leggi del mare e l’obbligo di soccorso.

 

 

 

 

 

Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismaki (2011). La storia del lustrascarpe Marcel Marx che si adopera per salvare un ragazzino africano incontrato per caso, arrivato in Francia in un container e sfuggito alla polizia.

 

 

 

 

 

La prima neve di Andrea Segre (2013). E’ la storia dell’incontro tra Dani, originario del Togo e arrivato in Italia in fuga dalla guerra in Libia, e Pietro, falegname e apicoltore, sulle montagne del Trentino.

 

 

 

 

 

Samba di E. Toledano e O. Nakache (2014). La storia di Samba Cissé, un senegalese in attesa di un permesso di soggiorno che non arriva mai. Costretto da dieci anni in un centro di accoglienza a Parigi e con la costante paura di essere espulso, si rivolge a un’associazione che si occupa di questioni giuridiche legate all’immigrazione. A occuparsi del suo caso sarà Alice, una giovane donna borghese in congedo lavorativo.

 

 

 

Fuocoammare di G. Rosi (2016). Documentario Orso d’oro per il miglior film al Festival di Berlino, è dedicato all’isola di Lampedusa e ai suoi migranti. Il film testimonia la vita sul confine simbolico più importante d’Europa, raccontando il punto di vista dei lampedusani e quello dei migranti.

 

 

 

 

 

MGF

Regia di Ali Ray.

Docufilm Gran Bretagna, 2023, Durata 90 minuti.
La storia, la sensualità, i materiali abbaglianti e i misteri di uno dei dipinti più suggestivi, conosciuti e riprodotti del mondo.

 

 

 

 

 

Uno studio ravvicinato del dipinto ci condurrà tra le strade della straordinaria Vienna di fine secolo, quando un nuovo mondo si scontrava con il vecchio e la modernità vedeva, per la prima volta, la luce. Prodotto da Phil Grabsky con Exhibition on Screen.

 

KLIMT: IL BALUARDO BOHEMIEN NELLA CASTITA’ VITTORIANA

Gustav Klimt è un artista austriaco forse un po’ difficile da inquadrare, con le sue opere che mescolano così aggressivamente elementi realistici e strane geometrie.
Per contestualizzarlo, pensiamo all’epoca in cui nasce e cresce, come persona e come artista: l’Austria del XIX Secolo è un luogo di contraddizioni, dove il rigore che dall’Inghilterra Vittoriana si espande a tutta l’Europa stenta a reprimere i primi ansiti di quella che sarà la cultura bohémien.
Un puritanesimo diffuso e radicato, a cui Klimt inizialmente aderisce, ma che sfocia inevitabilmente nel risultato immancabile della repressione troppo strenua degli istinti: la ribellione, la perversione, l’erotismo.

 

Klimt – Il bacio (1907)

 

Siamo in un’epoca in cui cominciano ad emergere le teorie di Jung e Freud, con le ben note ipotesi riguardanti gli effetti sulla psiche della sfera sessuale: Klimt prende queste teorie, le fa sue.
Non può tuttavia discostarsi, e Freud approverebbe, dalla sua storia personale: figlio di un incastonatore, studia anch’egli la materia e pur dandosi poi all’arte pittorica, qualcosa di questa formazione gli resterà sempre.
Pensiamo ad esempio alla sua opera più celebre, Il Bacio: volti realistici, umani, riconoscibili, travolti da un’innegabile passione… e corpi celati dietro a strane vesti surreali, il cui decoro ricorda molto il mosaico, o appunto un decoro di pietre incastonate.

 

 

 

Klimt – La vergine (1913)

Sotto questo punto di vista, Klimt è la perfetta, sebbene inusuale, incarnazione del motto rinascimentale: “nani sulle spalle dei giganti”.
In Klimt rivive l’antica passione tardoromanica per il mosaico, per le gemme, per la gioielleria raffinata, e prende un nuovo slancio con la sua spinta, quasi un’esigenza, verso l’erotismo e la sensualità.

Le opere di Klimt sono uno schiaffo alle ondate di puritanesimo che quasi imponevano di non provare alcun tipo di desiderio impuro, spezzano e ricostruiscono la morale fino ad alzarla a uno stato di quasi divinità: impossibile non notare quanto gli sfondi dorati di cui egli faceva spesso uso rimandino alle opere medievali, in cui spesso il paradiso era rappresentato da un costosissimo sfondo oro monocromatico. Manca tuttavia l’ostentazione: in queste ultime opere, la foglia d’oro utilizzata per rappresentare il paradiso non era altro, in fondo, che uno status symbol, dal momento che solo i più ricchi potevano permettersela.

Klimt – Giuditta I (1901)

Klimt solleva quindi quella patina di falsità in cui è così facile cadere, riportando il paradiso ad una dimensione accessibile a chiunque; non solo i più ricchi e abbienti, ma anche gli ultimi del mondo possono ora alzare lo sguardo e rimirare la bellezza. Una bellezza terrena, comprensibile, un sensuale corpo di donna e una massa di capelli scompigliati, un bacio inevitabile, un sorriso malizioso. E tutto ciò strizzando l’occhio al pacchiano, alla decorazione di sfondo che quasi prende il sopravvento sull’opera nella sua interezza: un vero e proprio caos bohemién.
Le parole d’ordine che segnano la ribellione al puritanesimo sono quattro: libertà, bellezza, verità e amore. E Klimt le incarna tutte nelle sue opere.
Le donne da lui dipinte sono libere, belle, reali e innamorate. Klimt viene spesso accusato di misoginia e oggettivizzazione della donna, ma guardando bene si può capire che in realtà fa l’esatto contrario: prende la femminilità e la libera dalle convenzioni, dalle catene dei limiti sociali da non oltrepassare, rappresenta donne che sono donne in quanto tali, creature che non sono legate ad un ruolo di semi schiavitù, sempre un po’ in disparte, sempre beneducate e sorridenti, donne che abitano il mondo perché questo è ciò che vogliono fare, quasi fossero spiriti silvani che illuminano di fuochi fatui le foreste buie.

 

Gustav Klimt e Emilie Flöge – 1908

 

Basta con la concezione della donna solo e soltanto nel suo ruolo di madre e costola dell’uomo, basta con l’idea che le donne siano creature angeliche e caste, prive di qualsivoglia pulsione sessuale o violenta, basta con le donne intimamente schiave del proprio fato; ed è questa una concezione aliena al puritanesimo dilagante, allora come ora.
E forse, proprio per questo motivo, questa stessa idea è sempre più importante: la felicità vera non è attenersi a una serie di regole imposte, ma essere liberi da restrizioni troppo limitanti, vivi e pulsanti nella propria unicità, innamorati della vita e dell’arte, non costretti da sterili convenzioni sociali.

 

 

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

MGF

 

 

 

Fu un programma di ricerca degli Stati Uniti per la realizzazione delle prime armi nucleari. Nato dal timore dei progressi della ricerca tedesca in materia atomica, il Manhattan è diventato in breve tempo un progetto totalizzante, che ha determinato per anni lo sforzo di un intero paese per il raggiungimento di un obiettivo militare tanto ambizioso quanto estremo.

Parteciparono al progetto alcuni dei più noti fisici del Novecento, come il premio Nobel italiano Enrico Fermi, l’inventore del ciclotrone Ernest Lawrence e Robert Oppenheimer.

Tutto cominciò nel 1938 con la scoperta della fissione nucleare da parte degli scienziati tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann. Da qui nacque il timore statunitense che i nazisti potessero in breve tempo realizzare un’arma di distruzione di massa dalla potenza mai conosciuta prima: la bomba atomica.

Fu lo stesso Albert Einstein, insieme a un gruppo di noti scienziati del tempo, a scrivere al presidente Franklin Delano Roosvelt, mettendolo in guardia riguardo ai presunti intenti dei nazisti. Per questo motivo, in breve tempo iniziarono anche negli Stati Uniti i primi studi nel campo della fisica nucleare, principalmente all’università della California, a Berkley, e alla Columbia University, a New York. I primi progressi nell’ambito della ricerca pura richiesero poi ulteriori risorse, e uno sforzo ancora più deciso, per svolgere quello che oggi chiameremmo il trasferimento tecnologico e giungere quindi rapidamente all’obiettivo finale.

 

Così nel 1942, nel pieno della Seconda guerra mondiale, il governo statunitense si impegnò per creare prima dei nazisti dei laboratori capaci di produrre un ordigno atomico. Il progetto Manhattan fu ufficialmente istituito il 13 agosto 1942 e coinvolse in pochissimo tempo esperti provenienti da ogni parte del mondo e di svariati settori: oltre a chimici, fisici, ingegneri e specialisti di esplosivi, collaborarono ingegneri, militari e medici. La supervisione scientifica fu affidata a Robert Oppenheimer, motivo per cui gli venne convenzionalmente attribuito l’appellativo di inventore della bomba atomica. All’interno del progetto Manhattan, alcune persone furono anche inviate in territorio nemico per indagare il programma nucleare militare tedesco, con l’obiettivo di raccogliere segretamente materiale e documenti utili per favorire la ricerca.

Una delle sfide più complesse che dovette affrontare il governo nordamericano riguardò la scelta del luogo dove realizzare i centri di ricerca nucleare. Bisognava trovare un luogo ampio, isolato, distante dalla costa e lontano dai grandi centri abitati. Era impossibile riunire tutti i laboratori in un unico sito e per questo ne furono scelti tre, lontani tra loro: Oak Ridge (nel Tennessee), Los Alamos (nel Nuovo Messico) e Hanford (Washington). Insomma, nonostante si chiamasse Manhattan, conosciuto come il distretto più famoso e importante di New York, i centri di ricerca furono dislocati in vari luoghi del territorio statunitense.

 

Il tutto venne costruito silenziosamente e, oltre a sfrattare tutti i residenti e a proibire loro di parlare dell’argomento, i centri non furono mai inseriti nelle mappe ufficiali. Insomma, una missione super segreta dai tratti patriottici. All’inizio si viveva in tenda o in altri rifugi di fortuna, poi con il tempo all’interno di queste aree top secret non mancò più nulla: gli scienziati vivevano insieme alle famiglie e potevano disporre di rifornimenti, laboratori, fabbriche, scuole e ospedali. Complessivamente furono spesi 2 miliardi di dollari dell’epoca, che corrispondono a circa 30 o 50 miliardi di dollari attuali. Per comprendere la vastità del progetto basta riflettere sul fatto che i tre agglomerati ospitarono 125mila scienziati, tutti impegnati in una missione nel rispetto del più rigoroso segreto militare.

 

Nel giro di qualche anno, l’immenso lavoro di ricerca stava iniziando a dare frutti e, mentre i nazisti erano ancora alle fasi preliminari, furono realizzate per la prima volta la bomba all’uranio e quella al plutonio. Nella mattina del 16 luglio del 1945 nel deserto della Jornada del Muerto, nel Nuovo Messico, gli scienziati del progetto Manhattan testarono Gadget, la prima bomba atomica della storia.

 

 

Era la premessa degli storici attacchi nucleari su Hiroshima e Nagasaki, che sarebbero arrivati poco dopo.

La morte di decina di migliaia di persone e le conseguenze derivanti dalle radiazioni hanno sollevato, al di là dell’impatto sulle sorti del conflitto, numerose questioni etiche e morali, che ancora oggi non possono certo ritenersi risolte.

Fonte: Wired Italia

MGF

Regia di Christopher Nolan – USA, 2023 – 180′
con Cillian Murphy, Emily Blunt, Robert Downey Jr.

 

 

 

 

 

 

CHRISTOPHER NOLAN CONFEZIONA UN’OPERA TOTALE CHE E’ LA SINTESI DEL SUO CINEMA

Oppenheimer è un film troppo importante. Di quelli che ti svuotano di tutto: parole, fiato, persino emozioni. Perché ti sventra completamente, e quel che ti lascia è un’esplosione nucleare nello stomaco. È estasi pura, visiva, sensoriale, emotiva. È una lettera d’amore che Christopher Nolan scrive al cinema (il suo e degli altri), ma anche un urlo d’odio che lancia al mondo.
È il film che ti fa pensare quant’è bello il cinema. Anzi, è ciò che il cinema dovrebbe essere.
È un racconto di tre ore lungo, denso, stratificato, scandito attraverso tre atti sacrosanti che percorrono tre tappe cruciali di una storia che ha sconvolto l’umanità: la creazione, lo scoppio, le conseguenze sul mondo.
Tre ore di dialoghi, sguardi e decisioni che hanno plasmato lo svolgersi di una guerra, ma anche di una civiltà. 180 minuti che non si fermano mai, che guardano avanti e indietro nel tempo. Il tempo, la bussola con cui Nolan orienta da sempre il suo sguardo cinematografico: una narrazione non lineare, divisa a sua volta in tre momenti che il regista guarda con filtri diversi. Un passato in cui i cromatismi sono caldi, tenui, un tempo di mezzo che è il purgatorio freddo e grigio subito dopo la tempesta (anzi, l’inferno), un presente in cui i cromatismi si spengono perché a partire da quello scoppio il mondo ha perso colore. In cui tutto è morto. Quando Oppenheimer, da Prometeo che dona il fuoco agli uomini, diventa Morte, il distruttore di mondi. O meglio, del mondo. Un intreccio quanto mai perfetto, il cui unico limite è il ritmo compassato con cui la prima parte della trama si fa strada prima dell’esplosione; ma quando tutto deflagra, corre, non si ferma più, e ti scaraventa addosso tutto il dolore, tutto il marcio, tutta la cenere di un fuoco che non può più ardere, perché non c’è più nulla da bruciare. Una storia fatta di contraddizioni e di opposti, di scontri politici e lotte interiori. Tutto, o quasi, vissuto dagli occhi blu di Cillian Murphy, che risplendono per riflettere il vuoto. L’interpretazione migliore della sua carriera, quella di un uomo diviso tra due mondi, due ideologie, due Paesi, due cuori, due donne. Un racconto che, nella definizione del suo protagonista, ti lascia interdetto, a metà tra l’orrore per un mostro e la compassione per chi si è pentito troppo tardi. Un intreccio figlio di un cinema squisitamente nolaniano, non lineare e pensato ad incastro, ma spiazzante a sufficienza per mettere insieme il puzzle e riflettere sul valore assoluto di un’opera totalizzante. E quindi, in generale, un film che è la sintesi del suo autore, la ‘summa’ del suo demiurgo in termini di forma e sostanza: il testamento che Nolan lascia a se stesso e al cinema, al punto che se questo fosse il suo ultimo lavoro sarebbe il sipario perfetto.

Gabriele Laurino – Everyeye.it

Recensioni
4/5 · Cineforum
4,5/5 Movieplayer
4,5/5 MyMovies

 

Il primo film biografico di Christopher Nolan gioca, come tipico del regista, con la struttura temporale della storia e riesce a offrire un ritratto magnetico e sfaccettato del suo geniale soggetto.

 

I PROTAGONISTI DELLA STORIA

J. ROBERT OPPENHEIMER (1904 – 1967)

Tra i fisici più influenti nella storia del Novecento, è considerato “il padre dell’atomica”. Nato in una famiglia di origini ebraiche, come molti altri che lavorarono al Progetto Manhattan, coordinò buona parte del lavoro dei gruppi di ricerca a Los Alamos, dove furono sviluppati i primi modelli di bomba atomica alla fine della Seconda guerra mondiale. Oppenheimer aveva 38 anni quando fu scelto per l’incarico e aveva accumulato una specchiata carriera accademica, occupandosi di astronomia teorica, fisica nucleare, meccanica quantistica e di relatività, argomento molto dibattuto all’epoca nella comunità scientifica. Dopo i bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki in Giappone, Oppenheimer divenne un convinto sostenitore della necessità di evitare la proliferazione di ordigni nucleari, ma rimase inascoltato. Per le sue vicinanze agli ambienti comunisti statunitensi in gioventù finì sotto inchiesta, rimanendo emarginato dalle istituzioni governative che si occupavano di nucleare. Diversi anni dopo di Hiroshima disse: «Penso che Hiroshima abbia causato più morti e sofferenze disumane di quanto sarebbe stato necessario per diventare un motivo efficace per mettere fine alla guerra». Nel film è interpretato da Cillian Murphy

 

LESLIE GROVES (1896 – 1970)

Generale dell’esercito, nel 1942 assunse il comando del Manhattan Project, l’ambizioso programma di ricerca per la costruzione di armi atomiche. Fu Groves a scegliere Oppenheimer, sorprendendo diversi colleghi e osservatori, convinto che fosse la persona giusta per dirigere i gruppi di ricerca a Los Alamos. Groves si occupò direttamente degli aspetti logistici e organizzativi di buona parte del progetto, partecipò ai gruppi di lavoro che studiavano i progressi della Germania nazista nella costruzione di una bomba atomica e collaborò alla scelta delle città giapponesi da bombardare. Nel film è interpretato da Matt Damon.

 

 

 

LEWIS STRAUSS (1896 – 1974)

Fu tra i principali esponenti della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti, costituita alla fine della Seconda guerra mondiale per trasferire parte del controllo dell’energia atomica dall’esercito ai civili. Molto influente, sostenne la necessità di costruire una bomba a idrogeno e di mantenere la massima segretezza sui piani atomici statunitensi, soprattutto nei confronti dell’Unione Sovietica. Strauss fu tra i principali critici di Oppenheimer ai tempi delle audizioni per la sua vicinanza agli ambienti comunisti statunitensi in gioventù; fu inoltre a favore della rimozione delle autorizzazioni di sicurezza per Oppenheimer, che di fatto lo estromisero da qualsiasi decisione e confronto a livello governativo sul nucleare. Nel film è interpretato da Robert Downey Jr.

 

 

JEAN TATLOCK (1914 – 1944)

Psichiatra e attivista comunista, fu fidanzata e poi amante di Oppenheimer, tanto da essere storicamente considerata il suo vero grande amore. Il loro rapporto fu centrale nelle audizioni del 1954 sulle presunte frequentazioni comuniste di Oppenheimer. La relazione amorosa durò circa tre anni, il rapporto sarebbe stato in seguito descritto come tumultuoso, ma non si sa di preciso cosa portò Tatlock a interrompere la relazione. La sua morte venne considerata un suicidio, anche se negli anni diverse persone, tra cui suo fratello, continuarono a sostenere che si fosse trattato di un omicidio politico particolarmente ben congegnato. Nel film è interpretata da Florence Pugh.

 

KATHERINE OPPENHEIMER (1910 – 1972)

Katherine Puening sposò Oppenheimer nel 1940, dopo che Tatlock aveva interrotto la relazione con lui. Puening aveva fatto parte del partito comunista statunitense, aveva un dottorato in botanica e due matrimoni alle spalle. Il primo figlio, concepito con Oppenheimer quando Puening era ancora in una precedente relazione, nacque nel maggio del 1941, mentre la loro seconda figlia nacque tre anni dopo a Los Alamos, dove la famiglia si era trasferita per seguire lo sviluppo della bomba atomica. Ebbero un matrimonio complicato con alcune storie extraconiugali, ma rimasero insieme fino alla morte di Oppenheimer nel 1967. Nel film è interpretata da Emily Blunt.

 

MGF