Regia di Baz Luhrmann – USA, 2022
con Austin Butler, Tom Hanks, Helen Thomson
Durata 159′

 

 

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Elvis, film diretto da Baz Luhrmann, racconta la vita del Re del Rock and Roll, Elvis Presley (Austin Butler), mostrando la sua ascesa e il suo successo, che gli hanno permesso di diventare una delle icone del panorama culturale americano, spazzando via anche parte dell’innocenza del tempo. Di particolare rilevanza sarà il rapporto con il suo manager, il colonnello Tom Parker (Tom Hanks), con il quale Elvis intreccerà un sodalizio artistico della durata di circa vent’anni. Il film si concentra proprio su questo rapporto complesso, a partire dall’ascesa della prima rockstar della storia fino al raggiungimento della fama mondiale, fino a quel momento mai toccata da nessun’altra star con così tanta veemenza. Il tutto mentre l’America vive uno sconvolgimento socio-culturale, che la porterà a grandi cambiamenti.
Nel cast troviamo anche Olivia DeJonge che interpreta Priscilla Presley, la moglie di Elvis con cui il divo è convolato a nozze nel 1967 e, nonostante le tante relazione attribuitigli, l’unica donna che il Re abbia sposato.

 

LA RECENSIONE

L’ECCESSO COME CHIAVE REGISTICA E NARRATIVA

Il regista, sceneggiatore e produttore australiano Baz Luhrmann, con il suo stile patinato, estremo e coloratissimo, fin dall’inizio sembrava il film-maker perfetto per raccontare questa storia, non solo l’ascesa e il declino di una rock star (un Austin Butler già proiettato per gli
Oscar 2023), ma anche il suo problematico rapporto con il suo manager, l’enigmatico Colonnello Tom Parker (uno straordinario Tom Hanks). E proprio quest’ultimo dirige le fila principali del racconto e trascina il pubblico in un ottovolante folle, caratterizzato da luci e
ombre.

Un ritratto di Elvis Presley tra il divino e l’umano, a tratti eccessivamente frammentato e rocambolesco, ma efficace nel descrivere la sua parabola artistica e familiare, specialmente nell’analizzare le sue fragilità mascherate dalla perfezione del palcoscenico. Elvis è un progetto
che nasconde bene i suoi veri intenti: per quanto nel racconto sia essenziale l’intera vita musicale e personale dell’incredibile cantante, ballerino e attore americano, ciò che colpisce di più è l’attenzione riservata alla consacrazione divina di Presley. La creazione di un mito inizialmente fondato ad hoc da Parker e poi portato avanti da altri produttori e agenti nel corso del tempo, con l’imbonitore Tom che ha sempre avuto l’ultima parola. Il giovane originario di Tupelo, cresciuto nella povertà in un quartiere prevalentemente abitato da
afroamericani ed influenzato dalla loro musica, dal rhythm and blues e dal gospel, aveva un talento straordinario che però doveva essere imbrigliato in un sistema più grande di lui, che lo vedeva solo come una macchina macina soldi. Se escludiamo le fasi iniziali della sua carriera, la rock star dal ciuffo ribelle è sempre stata accompagnata dalla mano “invisibile” del Colonnello: il risultato è un figura iconica, plasmata dietro le quinte dall’acume produttivo del suo manager e ovviamente dalla sua propensione naturale al palcoscenico. Ne consegue che il lungometraggio non è solo un brillante biopic, ma anche un raffinato e intelligente spaccato dell’industria musicale a cavallo tra gli anni ’50 e ’70, quando ancora si sperimentava un sistema ancora in costruzione.

La strada narrativa intrapresa dalla sceneggiatura, scritta dal regista con il contributo di Sam Bromell, Craig Pearce e Jeremy Doner, non è sempre cronologica, ma molto spesso è guidata dalle emozioni. I quadri della vita e della carriera di Presley sono frammentati, riproducendo
bagliori e oscurità di un essere sensibile e imperfetto, con continui cambi di scena che non è sempre facile seguire. La regia, in modo similare, è barocca: il film-maker, rimanendo fedele al suo stile eccentrico e fuori dalle righe, compone sequenze eclettiche, dove alla riproduzione di
concerti de il Re, vengono accostate scene oniriche frutto della fantasia del regista, inquadrature da più punti di vista e frammenti in bianco e nero .
Un collage poliedrico che riesce ad ammaliare lo spettatore.

Massimiliano Meucci – Giornalista Redazione Cultura Presso L’osservatore Romano

 

IL REGISTA

BAZ LUHRMANN
Herons Creek (Australia)
17 agosto 1962

Baz Luhrmann è considerato il nuovo genio visionario della regia cinematografica.
Trascorsa gran parte della sua infanzia in campagna a Herons Creek, dove il padre
gestiva una pompa di benzina, un allevamento di maiali e anche il cinema del paese,
dopo la separazione dei genitori, Baz si trasferisce a Sidney con madre e fratelli. Già
adolescente si interessa alla recitazione e inizia a coltivare il sogno di una carriera da
attore; quando però si iscrive al prestigioso National Institute of Dramatic Arts,
comprende che non è quella la sua strada e comincia a dedicarsi alla messa in scena
di una pièce teatrale di sua concezione, “Strictly Ballroom”; dopo un esordio come
attore nel 1981 decide di dedicarsi al teatro: con la sua Six Year Old Company porta la
sua opera in tour per l’Australia nel 1987 ottenendo vasti consensi come regista
teatrale.
Nel 1992 esordisce dietro la macchina da presa con la versione cinematografica di “Ball Room – Gara di ballo” (il suo lavoro teatrale) vincitore di diversi premi internazionali. Il grande successo arriva con “Romeo + Giulietta”, adattamento in chiave moderna della tragedia di Shakespeare, interpretato da un esplosivo Leonardo Di Caprio e candidato all’Oscar per la miglior scenografia.

Nel 2001 dirige “Moulin Rouge” con Nicole Kidman e Ewan McGregor, presentato con successo al Festival di Cannes. Il film, ambientato nella Parigi bohémien, è caratterizzato ancora una volta da una forte componente visiva e visionaria, con delle scenografie surreali. “Moulin Rouge” vince due Oscar (migliori scenografie e migliori costumi) e 3 Golden Globe (miglior film musical/commedia, miglior colonna sonora e miglior attrice musical/commedia a Nicole Kidman).

 

Nel 2008 arriva nelle sale (in Italia arriva all’inizio del 2009) “Australia”, un’altra fatica di Baz Luhrmann: si tratta di un vero a proprio kolossal epico con protagonisti Nicole Kidman e Hugh Jackman.
Nel 2012 lavora a una trasposizione cinematografica del romanzo “Il grande Gatsby” con protagonisti Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan e Tobey Maguire.
Baz Luhrmann torna al successo nel 2022 con il film biografico “Elvis”.

 

MGF

Regia di Thomas Kruithof – Francia, 2021 – 98′
con Isabelle Huppert, Reda Kateb, Naidra
Ayadi, Jean-Paul Bordes, Hervé Pierre
Durata 98′

 

 

 

 

 

 

LA TRAMA

La promessa: Il prezzo del potere, il film diretto da Thomas Kruithof, segue la storia di Clémence (Isabelle Huppert), devoto e combattivo sindaco di una piccola cittadina vicino Parigi, che sta per terminare il suo incarico politico. Con l’aiuto del suo fedele amico Yazid (Reda Kateb), si è sempre impegnata per il distretto di Bernardins, combattendo questa parte della sua città compromessa da disuguaglianze, disoccupazione e povertà.
Quando a Clémence viene chiesto di diventare ministro, affiora in lei un’ambizione fino a quel momento nascosta, che metterà a dura prova il suo rapporto con Yazid e la sua stessa integrità politica, finora sempre salda. Clémence sceglierà di abbandonare la sua città e rinunciare ai suoi piani in favore di nuove aspirazioni?…

 

LA RECENSIONE

UN FILM NERVOSO E INCALZANTE SULLA POLITICA PER FARE POCA TEORIA E MOLTA PRATICA QUOTIDIANA

Un film che guarda dritto negli occhi non solo la politica e la sua pratica, ma anche i suoi protagonisti e soprattutto la coraggiosa sindaca Clémence, cui dà voce e volto la ferrea e immancabile Isabelle Huppert, sicura di sé e decisionista, prima cittadina di una delle città
satelliti della grande Parigi.

Si tratta di recuperare un grosso finanziamento dello Stato per le aree urbane disagiate. Il grande caseggiato popolato da immigrati e famiglie indigenti è preda di affaristi senza scrupoli che taglieggiano gli immigrati estorcendo grosse cifre per
“garantire” la loro permanenza. Lo Stato erogherà i finanziamenti solo se gli inquilini del caseggiato saranno in regola con il pagamento degli oneri condominiali, ma nessuno crede più alle promesse. La sindaca Clémence saprà mettere in gioco se stessa per raggiungere il risultato e il fido Yazid, suo braccio destro, saprà adoperarsi con intelligenza in un inconsapevole gioco di squadra.

Ci pensava da tempo il regista francese a questo film. L’assunto è che le promesse sono la moneta della politica ed è con questa moneta che avvengono gli scambi tra i protagonisti di questi scenari. Kruithof è riuscito ad entrare, con la scrittura nervosa e il suo incedere incalzante e senza respiro, dentro le zone oscure della politica, esaltando i momenti occlusi a ciascuno di noi delle telefonate, delle pacche sulle spalle, degli sguardi che fanno cambiare direzione, delle mani che si sporcano per il bene altrui, dei rapporti silenziosi tra il potere basso e quello più alto, che decide e guarda spesso senza vedere. Clémence è una donna che ama la velocità delle decisioni ed è intenzionata a salvare il caseggiato in disarmo della banlieue parigina e si affida a Yazid, che si occupa, per propria scelta, della parte “sporca” dell’operazione. Clémence si gioca la credibilità, ma tutto è a fin di bene per restituire dignità a chi vive il disagio del ricatto e dell’estorsione e per chi resta emarginato ai bordi della vita. Così Kruithof costruisce un film che sa essere originale nel raccontare le oscure tessiture delle trame della politica, con uno sguardo trasversale sulla possibilità di sconfiggere il malaffare, quando la moneta buona scaccia quella cattiva.

Tonino De Pace – giornalista cinematografico Sentieri Selvaggi

 

IL REGISTA

THOMAS KRUITHOF

Francia – 1976

Thomas Kruithof è un regista e sceneggiatore francese che vive e lavora a Parigi.
Nel 2013 ha diretto il cortometraggio Retention, selezionato in oltre quaranta festival e vincitore di sette premi (tra cui il Prix coup de cœur du public Unifrance, il gran premio della giuria e il premio del pubblico al Festival di Pontault-Combaut e il premio del pubblico Peace & Love Film Festival di Örebro, in Svezia), oltre che preselezionato per il premio César 2014 nella categoria miglior cortometraggio dell’anno.
La mécanique de l’ombre, che in Francia uscirà nelle sale a inizio 2017, è il suo primo lungometraggio. Nel 2021 il suo secondo film La promessa – Il prezzo del potere, con protagonista Isabelle Huppert, ha concorso ad Orizzonti alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
A differenza di alcuni suoi personaggi, durante un’ intervista il regista francese riflette sugli aspetti più complessi delle cose:
La promessa indicate nel titolo del film non è specifica. Per me, la promessa è la base
della politica e ciò che i protagonisti si scambiano per tutto il film. Direi che ce ne sono
20-25 diverse, comprese quelle che il sindaco di Isabelle Huppert fa a se stessa sulla
sua etica personale e la sua linea di condotta. È molto intelligente ma il suo campo è
l’azione; non riflette mai su se stessa.[…] Ci occupiamo dei vari livelli della politica
francese e di quanto sia difficile portare a termine le cose. I personaggi sono
intelligenti e parlano bene, ma nessuno riesce a convincere nessuno. Se alla fine
vincono, non è con la mente; è con la pancia. […] Questo è un campo di battaglia in
cui ogni personaggio è un soldato con un territorio da difendere e dove solo lo
spettatore ha il quadro completo.”

MGF

 

Commedia, Sentimentale
Regia di Wes Anderson – USA, 2021
con Benicio Del Toro, Adrien Brody, Tilda Swinton
Durata 108

 

 

 

 

 

LA TRAMA

In occasione della morte del suo amato direttore Arthur Howitzer, Jr., nato in Kansas, la redazione del French Dispatch, una rivista americana a larga diffusione che ha sede nella città francese di Ennui-sur-Blasé, si riunisce per scrivere il suo necrologio.

I ricordi legati a Howitzer confluiscono nella creazione di quattro articoli: un diario di viaggio dei quartieri più malfamati della città, firmato dal Cronista in Bicicletta; “Il Capolavoro di Cemento”, la storia di un pittore squilibrato rinchiuso in carcere, della sua guardia e musa, e degli ingordi mercanti d’arte che vogliono le sue opere; “Revisioni a un Manifesto”, una cronaca d’amore e morte sulle barricate all’apice della rivolta studentesca; e “La Sala da Pranzo Privata del Commissario di Polizia”, una storia di droghe, rapimenti e alta cucina piena di suspense.

 

LA RECENSIONE

THE FRENCH DISPATCH È UNA SCATOLA DELLE MERAVIGLIE

Non sono tanti i registi che, grazie alla loro estetica immediatamente riconoscibile, si sono meritati il proprio aggettivo. Wes Anderson con le sue geometrie perfette, la simmetria, i colori pastello, la passione per il design e la moda si è conquistato sul campo l’aggettivo “andersoniano”.

The French Dispatch è un gioco, un divertimento per il regista americano, che porta il proprio stile e la sua poetica alle estreme conseguenze. I vari frammenti che compongono il film sono uniti dal filo di carta del giornale e sembra davvero di sfogliare il supplemento mentre vediamo le immagini susseguirsi sullo schermo. Ci sono episodi più e meno riusciti, alcuni più approfonditi (come quello sul pittore, forse il migliore) e altri più brevi (quello iniziale con Owen Wilson), ma tutti sono un concentrato di estetica andersoniana.

Cura maniacale per ogni dettaglio, dai caratteri con cui è stampato il giornale agli oggetti che vediamo sulle scrivanie dei giornalisti. Abiti raffinati, colori pastello, geometrie perfette (bellissimo il risveglio della città nell’inquadratura fissa). E poi la scelta del bianco e nero che si alterna al colore, proprio come nelle pagine delle riviste di moda.

Chi ama Wes Anderson e l’universo che ha costruito in venti anni di cinema impazzirà per questo esercizio di stile studiato al millimetro, in cui ogni inquadratura, ogni scena nasconde oggetti, riferimenti e piani di lettura che rendono la confezione molto più interessante di quanto non sembri. C’è poi chi sicuramente rimarrà ubriacato da tanto sfoggio, pensando a un semplice marchio di fabbrica ripetuto all’infinito.

Eppure in The French Dispatch c’è anche una nota malinconica, la nostalgia per un mondo che non esiste più e forse non è mai esistito se non sulle pagine delle riviste culturali. La ricerca di un significato, dell’amore, del senso della vita: tutto è assoluto in The French Dispatch. Così come è sempre stato in tutti i film di Wes Anderson.

The French Dispatch porta l’amore per l’immagine e l’estetica a livelli esponenziali. Anche l’amore per le parole non conosce freni: i dialoghi sono onnipresenti e velocissimi, alternandosi a lunghi monologhi, giocando con lingue e accenti. Tra tante parole e tanta ricchezza di immagini si può rimanere frastornati. Se invece si abbraccia questa voglia di esagerare e straboccare di Anderson ci si può riempire occhi e cuore, perché dietro ogni giacca di velluto indossata con disinvoltura, dietro ogni capello scompigliato ad arte di Timothée Chalamet c’è un’ansia di vivere, di riempire il vuoto, di circondarsi di bellezza perché altrimenti si intravede la morte.

Valentina Ariete – Giornalista e redattrice di Movieplayer.it

 

IL REGISTA

WES ANDERSON

Huston, Texas – 1 maggio 1969

Wesley Wales Anderson, conosciuto come Wes Anderson, è un regista, sceneggiatore, attore e produttore americano di lungometraggi, cortometraggi e pubblicità.
Anderson è stato definito un autore, poiché viene coinvolto in ogni aspetto della produzione dei suoi film.
I suoi lavori sono riconoscibili grazie a un’estetica molto particolare, curata in ogni dettaglio. Fa ricorso spesso a inquadrature simmetriche. I film di Anderson combinano umorismo asciutto con commoventi rappresentazioni di personaggi imperfetti. Ama lavorare spesso con gli stessi attori e membri della troupe su vari progetti.
Fin dal debutto con il cortometraggio BOTTLE ROCKET (1994), Anderson ha creato racconti ironici, surreali, eleganti ed eccentrici, eternamente sospesi tra fiaba e realtà fittizie.
Il regista, sceneggiatore e produttore texano ha creato un universo immaginario, lontano dal reale ma incredibilmente coerente, popolato da personaggi/maschere la cui conoscenza del mondo è continuamente filtrata “dal consumo di cultura pop e dall’apatia congenita”.

I personaggi dei film di Wes Anderson sono perlopiù padri assenti, madri risolute, bambini fuori dal comune, adulti eterni fanciulli. Sono sognatori, spesso depressi. Eppure, sono pieni di vita. Sembrano usciti dalle commedie svitate degli anni Trenta e sono costruiti con
una maniacale cura psicologica ed estetica. .
Wes Anderson ha ricevuto la prima delle sue 5 candidature agli Oscar nel 2001, per la miglior sceneggiatura (“I Tenenbaum”,2000).

Nel 2007, in gara per il Leone d’Oro, “Il treno per il Darjeeling” ha vinto un premio minore.
Con “Moonrise Kingdom” (2012), Anderson ha partecipato a Cannes concorrendo per la Palma d’Oro.
Nel 2015, il film “Grand Budapest Hotel” (2014) ha vinto 4 premi Oscar, il Golden Globe come miglior commedia, 5 premi Bafta, il David di Donatello come miglior film straniero e il Grand Prix della giuria per la regia a Berlino 2014. Grazie al lungometraggio animato in stop motion “L’isola dei cani” (2018), Wes Anderson ha vinto ancora il premio per la miglior regia alla Berlinale 2018.
Insieme alla compagna, la designer e costumista Juman Malouf, nel 2018 Anderson ha curato una mostra d’arte antica presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna.

MGF

Regia di Riccardo Milani – Italia, 2022
con Pierfrancesco Favino, Miriam Leone, Pietro
Sermonti
Durata 113′

 

 

 

 

LA TRAMA

Corro da te, film diretto da Riccardo Milani, racconta la storia di Gianni (Pierfrancesco Favino), un cinquantenne proprietario di un grande brand di scarpe da running, noto in tutti il mondo. È un uomo in carriera e, dato il suo prodotto, anche uno sportivo, ma non ha una compagna, anzi è un convinto dongiovanni, che non perde occasione per conquistare una donna dopo l’altra, soprattutto se molto attraenti e più giovani di lui.
Quando sua madre muore, suo fratello gli consegna le chiavi della casa del genitore per andare nell’appartamento della defunta, un tempo inferma, così da recuperare le sue cose. Accidentalmente Gianni si siede sulla sedia a rotelle della madre e in quel momento entra nell’appartamento Alessia, la nuova vicina di casa, che convinta che lui sia disabile si offre per fargli assistenza. È così che Gianni, pronto a questa nuova conquista, si finge paraplegico per far leva sulla pietà della ragazza, pur di sedurla. Pietà… già, perché secondo l’uomo questo è l’unico sentimento che una persona affetta da disabilità può provocare in un’altra sana. Sarà costretto a ricredersi, però, quando una domenica Alessia lo invita nella casa in campagna della sua famiglia e lui incontra la sorella della ragazza, Chiara (Miriam Leone), una bellissima donna costretta sulla sedia a rotelle da un incidente, da cui rimane subito affascinato. Poiché entrambi paraplegici – o almeno questo è quello che crede Chiara – finiscono per avvicinarsi sempre più, tanto che l’uomo inizia a provare dei veri sentimenti per la ragazza, rivalutando la sua visione della disabilità e anche dell’amore. Chiara, però, ignora che lui sia capace non solo di camminare, ma addirittura di correre.

 

LA RECENSIONE

IL CORPO E LA BELLEZZA, LA DISABILITÀ E I RITI STANCHI DELLA SEDUZIONE SERIALE. CORRO DA TE È UNA COMMEDIA ROMANTICA E BRIOSA

Corro da te è un fedele remake della commedia francese Tutti in piedi, primo film da regista del francese Franck Dubosc, che da anni porta in televisione e al cinema proprio l’immagine di Gianni, quella del playboy un po’ mitomane. La versione italiana riesce a rendere bene la dimensione credibile, sempre umana ma non superficialmente retorica, della parabola dell’egoista misogino convertito come da manuale a una visione meno egoriferita del mondo. La disabilità è raccontata con salvifica ironia, arma molto frequentata da chi ci convive tutti i giorni, ma meno frequentemente da chi mette in atto quella forma di distanziamento, camuffato da solidarietà, rappresentato da un politicamente corretto di facciata che rappresenta, formula vuota dopo formula vuota, una presa di distanza.

Sana perfidia aleggia nelle dinamiche comiche di questa commedia, secondo le regole più nobili del genere ormai scolorite. Nel mettere in evidenza il cameratismo decadente del maschio alfa, lo scompone nelle sue componenti più meschine, ma soprattutto ne smaschera il patetico senso di inadeguatezza che lo caratterizza. Evidente che vivere su una sedia a rotelle (seppure per pochi momenti di travestimento) cambierà per sempre Gianni, ponendolo di fronte a riti stanchi ormai fuori tempo massimo, a un gioco ripetuto all’infinito non più liberatorio, ma involontario come quello di un criceto sulla ruota.

La corsa, il movimento, l’avvicinarsi e l’allontanarsi sono i moti prima di tutto emotivi al centro di questa commedia romantica messa in scena da Riccardo Milani, che poggia su una scrittura accurata e interpretazioni convincenti. Non solo Pierfrancesco Favino e Miriam Leone funzionano bene nel loro moto perpetuo oscillatorio, ma anche gli interpreti di contorno sono caratteristi decisamente in parte, da Pietro Sermonti a Vanessa Scalera, da Pilar Fogliati a un’ultima toccante apparizione della splendida Piera Degli Esposti.
Cinema artigianale in senso nobile, costruito con attenzione e rispetto, per i suoi personaggi e per il pubblico che avrà voglia di vederlo.

Mauro Donzelli – critico e giornalista cinematografico

 

IL REGISTA

Riccardo Milani

Roma, 15 aprile 1958

“Non credo ai film necessari, credo ai film utili”. Riccardo Milani nasce e cresce a Roma dove frequenta l’ambiente della Scuola nazionale di Cinema, debuttando come aiuto regista in Il giudice istruttore di Gianluigi Calderone nel 1987. La gavetta nel mondo del cinema continua
assistendo registi come Nanni Moretti, Mario Monicelli e Daniele Luchetti, e lavorando al fianco di grandi attori come Nino Manfredi, Enrico Montesano, Giancarlo Giannini e Silvio Orlando.
L’esordio vero e proprio da regista arriva nel 1997 quando realizza la commedia Auguri professore. Due anni dopo si conferma con La guerra degli Antò, commedia in tono minore rispetto alla precedente, ma che comunque lascia trapelare le linee guida per l’interpretazione
della poetica dell’autore. Milani infatti concentra gran parte della sua attenzione a quella popolazione per così dire “bassa”, ponendosi in contrapposizione rispetto a tanto cinema italiano contemporaneo che da tempo ha issato a simbolo della rappresentazione filmica la classe media.
Dal 2000 inizia a lavorare nel mondo della pubblicità realizzando diversi spot. Per la televisione inizia a collaborare anche nel mondo delle fiction curando la regia di diverse puntate di La Omicidi e Il sequestro Soffiantini.
Nel 2003 torna sul grande schermo con un film per il quale realizza anche la sceneggiatura: Il posto dell’anima, interessante sotto diversi aspetti, e interpretato da Michele Placido e Claudio Santamaria, con i quali il regista sembra stringere una fruttuosa collaborazione.
Nel 2007 sempre per il grande schermo realizza Piano, solo, film biografico dedicato alla drammatica esistenza di Luca Flores, geniale pianista jazz morto suicida prima di compiere quarant’anni. Interpretata da Kim Rossi Stuart, Jasmine Trinca e Paola Cortellesi, la pellicola
rappresenta per certi versi la summa della carriera artistica e personale di Milani, un regista profondamente legato alle tematiche care al neorealismo italiano e a quel cinema volto a investigare le anime e le vite degli ultimi, dei disagiati.
Nel 2008 dirige le fiction Tutti pazzi per amore e Tutti pazzi per amore 2. Dopo la serie in sei puntate Una grande famiglia, girata nel 2012, torna al cinema con la commedia Benvenuto Presidente!, in cui il bibliotecario di montagna Claudio Bisio viene eletto per errore Presidente
della Repubblica.
Dirige la moglie Paola Cortellesi, dalla quale ha avuto un figlio in Scusate se esisto!, Mamma o papà?, Come un gatto in tangenziale e Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di morto.

 

MGF

 

Regia di Paul Thomas Anderson – USA, 2021 –
con Alana Haim, Cooper Hoffman, Sean Penn,
Bradley Cooper
Durata 133′

 

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Licorice Pizza, film diretto da Paul Thomas Anderson, è ambientato nella San Fernando Valley degli anni Settanta e racconta la storia di un giovane liceale, il quindicenne Gary Valentine (Cooper Hoffman), con una carriera avviata come attore sin dall’infanzia. Il giorno in cui a scuola si scatta la foto per l’annuario Gary incontra Alana Kane (Alana Haim), una ragazza di diversi anni più grande di lui, da cui rimane fortemente colpito. I due iniziano a frequentarsi e a passare diverso tempo insieme, stringendo sempre più amicizia, tanto che finiscono per avviare un’azienda di letti ad acqua, gestita da Gary, ma con Alana come dipendente.
Siamo nel 1973 e questi due giovani vivono diverse avventure, correndo da una parte all’altra della città, crescendo giorno dopo giorno e innamorandosi, ma non manca di certo anche qualche litigio.

LA RECENSIONE

ALANA KANE E GARY VALENTINE CRESCONO E SI INNAMORANO IN
CALIFORNIA, NELLA SAN FERNANDO VALLEY DEL 1973.

C’è una coppia di campi avversi e complementari in ogni cosa e quindi anche nel cinema: quello del dover essere, della correttezza, e quello del poter essere, della libertà. Il cinema di Paul Thomas Anderson si posiziona da subito nel secondo e continua, magnificamente, a presidiarlo. Sicuramente ci troviamo nel lato luminoso della sua filmografia perché, impermeabili al contesto, i protagonisti mettono in atto una celebrazione della prima età, quella espansiva, che ha vitalismo e partigianeria degna della nouvelle vague versante Truffaut – ed è commovente.

Licorice Pizza può apparire un film dal peso specifico diminuito rispetto a opere magniloquenti e gravi come Il petroliere o Magnolia, nelle forme estetiche del kolossal e in quelle narrative del grande romanzo ante guerre mondiali. Invece è un discorso sui suoi soliti temi – l’America come realtà e idea; l’amore e le sue forze contrarie; l’entropia come motore universale che porta individui e momenti storici a crescere, durare precari e crollare; la rivalità mimetica – ogni volta intrecciati con varianti grazie a un filo nascosto. La libertà è un respiro, scriveva Anna Maria Ortese. Proprio come i suoi protagonisti che corrono tra possibilità aperte, il film respira a un ritmo che asseconda ogni divagazione (assicurandosi di renderla emblematica grazie alla maestria di scrittura, messa in scena, interpretazione, inquadratura – e casting, geniale come pochi altri) affinché i discorsi sopra detti risultino vasti, evocativi, proliferativi eppure mai chiusi, letteralmente senza capo né coda.

Dare forma al caos senza lasciare che la forma – o, peggio, le conclusioni, le lezioni, il giudizio – soffochi il caos e le stelle danzanti che sono le scene di Licorice Pizza: ogni film di Paul Thomas Anderson è un saggio sulle potenzialità del mezzo-cinema, una riscossa sui segni di obsolescenza che spesso captiamo, almeno in ambito mainstream/spettacolare. Cinema entropico, quello di Anderson, se l’entropia scandisce esattamente il ritmo delle oscillazioni di ogni ente tra ordine e caos.

Alessandro Ronchi – critico d’arte e giornalista culturale

IL REGISTA

Paul Thomas Anderson

STUDIO CITY, California (USA),
26 Giugno 1970

Regista per vocazione e autodidatta compulsivo della storia del cinema, Paul Thomas
Anderson riesce a sintetizzare nelle sue opere fuori dagli schemi l’inclinazione
autoriale e le lezioni dei grandi maestri di riferimento. La vena artistica è sicuramente
un’eredità paterna. Il signor Ernie Anderson, infatti, sotto le mentite spoglie di
‘Ghoulardi’, ha recitato in una serie horror trasmessa a tarda notte sulla televisione di
Cleveland. Inoltre, è stato tra i primi a possedere un registratore VCR permettendo
così al figlio di disporre, fin dalla giovane età, di un numero infinito di film e di
muovere i primi passi nel mondo delle riprese. Quello che sembrava solo un
passatempo per bambini si rivelerà, in realtà, il lavoro della vita. Abbandonata la
scuola di cinema, si cimenta subito con alcuni documentari che già fanno ben sperare,
quali: “The Dirk Diggler Story” (1988) e “Cigarettes & Coffee” (1993). Il primo
lungometraggio arriva nel 1996 con “Sydney”, grazie al finanziamento del Sundance
Lab. Ma l’apprezzamento a livello internazionale lo riscuote, prima, per il drammatico
“Boogie Nights – L’altra Hollywood” (1997), poi con l’enigmatico “Magnolia” (1999) che
guadagna tre candidature all’Oscar, tra cui anche per la sceneggiatura originale. Un
fuoriprogramma nel suo carnet, finora sempre all’insegna della drammaticità e coralità
dei protagonisti, è il film “Ubriaco d’amore” (2002) che ha come protagonista Adam
Sandler, attore molto apprezzato dal regista. Il film gli è valso anche un premio per la
miglior regia al Festival di Cannes, Ex-Aequo con “Chihwaseon” di Im Kwon-Taek.
Tuttavia, l’apice del successo arriva nel 2007 con lo sconvolgente “Il petroliere”, in cui
riesce a servirsi di Daniel Day-Lewis davvero magnificamente. Il film viene
pluripremiato e il regista ottiene un Orso d’argento per la miglior regia e una
candidatura all’Oscar per la stessa categoria. Un altro lavoro che risulta fuori dalle
righe è “The Master” (2012), sulla discussa figura del fondatore di ‘Scientology’ L. Ron
Hubbard, che dopo una lunga e difficile gestazione viene presentato e vince il Leone
d’Argento per la regia alla 69. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di
Venezia. Ha curato anche la regia di video musicali. Il suo film preferito da sempre è
“Quinto potere” (1975), di Sidney Lumet. Dalla moglie Maya Rudolph ha avuto tre
figli.

 

MGF