Commedia, Sentimentale
Regia di Wes Anderson – USA, 2021
con Benicio Del Toro, Adrien Brody, Tilda Swinton
Durata 108

 

 

 

 

 

LA TRAMA

In occasione della morte del suo amato direttore Arthur Howitzer, Jr., nato in Kansas, la redazione del French Dispatch, una rivista americana a larga diffusione che ha sede nella città francese di Ennui-sur-Blasé, si riunisce per scrivere il suo necrologio.

I ricordi legati a Howitzer confluiscono nella creazione di quattro articoli: un diario di viaggio dei quartieri più malfamati della città, firmato dal Cronista in Bicicletta; “Il Capolavoro di Cemento”, la storia di un pittore squilibrato rinchiuso in carcere, della sua guardia e musa, e degli ingordi mercanti d’arte che vogliono le sue opere; “Revisioni a un Manifesto”, una cronaca d’amore e morte sulle barricate all’apice della rivolta studentesca; e “La Sala da Pranzo Privata del Commissario di Polizia”, una storia di droghe, rapimenti e alta cucina piena di suspense.

 

LA RECENSIONE

THE FRENCH DISPATCH È UNA SCATOLA DELLE MERAVIGLIE

Non sono tanti i registi che, grazie alla loro estetica immediatamente riconoscibile, si sono meritati il proprio aggettivo. Wes Anderson con le sue geometrie perfette, la simmetria, i colori pastello, la passione per il design e la moda si è conquistato sul campo l’aggettivo “andersoniano”.

The French Dispatch è un gioco, un divertimento per il regista americano, che porta il proprio stile e la sua poetica alle estreme conseguenze. I vari frammenti che compongono il film sono uniti dal filo di carta del giornale e sembra davvero di sfogliare il supplemento mentre vediamo le immagini susseguirsi sullo schermo. Ci sono episodi più e meno riusciti, alcuni più approfonditi (come quello sul pittore, forse il migliore) e altri più brevi (quello iniziale con Owen Wilson), ma tutti sono un concentrato di estetica andersoniana.

Cura maniacale per ogni dettaglio, dai caratteri con cui è stampato il giornale agli oggetti che vediamo sulle scrivanie dei giornalisti. Abiti raffinati, colori pastello, geometrie perfette (bellissimo il risveglio della città nell’inquadratura fissa). E poi la scelta del bianco e nero che si alterna al colore, proprio come nelle pagine delle riviste di moda.

Chi ama Wes Anderson e l’universo che ha costruito in venti anni di cinema impazzirà per questo esercizio di stile studiato al millimetro, in cui ogni inquadratura, ogni scena nasconde oggetti, riferimenti e piani di lettura che rendono la confezione molto più interessante di quanto non sembri. C’è poi chi sicuramente rimarrà ubriacato da tanto sfoggio, pensando a un semplice marchio di fabbrica ripetuto all’infinito.

Eppure in The French Dispatch c’è anche una nota malinconica, la nostalgia per un mondo che non esiste più e forse non è mai esistito se non sulle pagine delle riviste culturali. La ricerca di un significato, dell’amore, del senso della vita: tutto è assoluto in The French Dispatch. Così come è sempre stato in tutti i film di Wes Anderson.

The French Dispatch porta l’amore per l’immagine e l’estetica a livelli esponenziali. Anche l’amore per le parole non conosce freni: i dialoghi sono onnipresenti e velocissimi, alternandosi a lunghi monologhi, giocando con lingue e accenti. Tra tante parole e tanta ricchezza di immagini si può rimanere frastornati. Se invece si abbraccia questa voglia di esagerare e straboccare di Anderson ci si può riempire occhi e cuore, perché dietro ogni giacca di velluto indossata con disinvoltura, dietro ogni capello scompigliato ad arte di Timothée Chalamet c’è un’ansia di vivere, di riempire il vuoto, di circondarsi di bellezza perché altrimenti si intravede la morte.

Valentina Ariete – Giornalista e redattrice di Movieplayer.it

 

IL REGISTA

WES ANDERSON

Huston, Texas – 1 maggio 1969

Wesley Wales Anderson, conosciuto come Wes Anderson, è un regista, sceneggiatore, attore e produttore americano di lungometraggi, cortometraggi e pubblicità.
Anderson è stato definito un autore, poiché viene coinvolto in ogni aspetto della produzione dei suoi film.
I suoi lavori sono riconoscibili grazie a un’estetica molto particolare, curata in ogni dettaglio. Fa ricorso spesso a inquadrature simmetriche. I film di Anderson combinano umorismo asciutto con commoventi rappresentazioni di personaggi imperfetti. Ama lavorare spesso con gli stessi attori e membri della troupe su vari progetti.
Fin dal debutto con il cortometraggio BOTTLE ROCKET (1994), Anderson ha creato racconti ironici, surreali, eleganti ed eccentrici, eternamente sospesi tra fiaba e realtà fittizie.
Il regista, sceneggiatore e produttore texano ha creato un universo immaginario, lontano dal reale ma incredibilmente coerente, popolato da personaggi/maschere la cui conoscenza del mondo è continuamente filtrata “dal consumo di cultura pop e dall’apatia congenita”.

I personaggi dei film di Wes Anderson sono perlopiù padri assenti, madri risolute, bambini fuori dal comune, adulti eterni fanciulli. Sono sognatori, spesso depressi. Eppure, sono pieni di vita. Sembrano usciti dalle commedie svitate degli anni Trenta e sono costruiti con
una maniacale cura psicologica ed estetica. .
Wes Anderson ha ricevuto la prima delle sue 5 candidature agli Oscar nel 2001, per la miglior sceneggiatura (“I Tenenbaum”,2000).

Nel 2007, in gara per il Leone d’Oro, “Il treno per il Darjeeling” ha vinto un premio minore.
Con “Moonrise Kingdom” (2012), Anderson ha partecipato a Cannes concorrendo per la Palma d’Oro.
Nel 2015, il film “Grand Budapest Hotel” (2014) ha vinto 4 premi Oscar, il Golden Globe come miglior commedia, 5 premi Bafta, il David di Donatello come miglior film straniero e il Grand Prix della giuria per la regia a Berlino 2014. Grazie al lungometraggio animato in stop motion “L’isola dei cani” (2018), Wes Anderson ha vinto ancora il premio per la miglior regia alla Berlinale 2018.
Insieme alla compagna, la designer e costumista Juman Malouf, nel 2018 Anderson ha curato una mostra d’arte antica presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna.

MGF

Regia di Riccardo Milani – Italia, 2022
con Pierfrancesco Favino, Miriam Leone, Pietro
Sermonti
Durata 113′

 

 

 

 

LA TRAMA

Corro da te, film diretto da Riccardo Milani, racconta la storia di Gianni (Pierfrancesco Favino), un cinquantenne proprietario di un grande brand di scarpe da running, noto in tutti il mondo. È un uomo in carriera e, dato il suo prodotto, anche uno sportivo, ma non ha una compagna, anzi è un convinto dongiovanni, che non perde occasione per conquistare una donna dopo l’altra, soprattutto se molto attraenti e più giovani di lui.
Quando sua madre muore, suo fratello gli consegna le chiavi della casa del genitore per andare nell’appartamento della defunta, un tempo inferma, così da recuperare le sue cose. Accidentalmente Gianni si siede sulla sedia a rotelle della madre e in quel momento entra nell’appartamento Alessia, la nuova vicina di casa, che convinta che lui sia disabile si offre per fargli assistenza. È così che Gianni, pronto a questa nuova conquista, si finge paraplegico per far leva sulla pietà della ragazza, pur di sedurla. Pietà… già, perché secondo l’uomo questo è l’unico sentimento che una persona affetta da disabilità può provocare in un’altra sana. Sarà costretto a ricredersi, però, quando una domenica Alessia lo invita nella casa in campagna della sua famiglia e lui incontra la sorella della ragazza, Chiara (Miriam Leone), una bellissima donna costretta sulla sedia a rotelle da un incidente, da cui rimane subito affascinato. Poiché entrambi paraplegici – o almeno questo è quello che crede Chiara – finiscono per avvicinarsi sempre più, tanto che l’uomo inizia a provare dei veri sentimenti per la ragazza, rivalutando la sua visione della disabilità e anche dell’amore. Chiara, però, ignora che lui sia capace non solo di camminare, ma addirittura di correre.

 

LA RECENSIONE

IL CORPO E LA BELLEZZA, LA DISABILITÀ E I RITI STANCHI DELLA SEDUZIONE SERIALE. CORRO DA TE È UNA COMMEDIA ROMANTICA E BRIOSA

Corro da te è un fedele remake della commedia francese Tutti in piedi, primo film da regista del francese Franck Dubosc, che da anni porta in televisione e al cinema proprio l’immagine di Gianni, quella del playboy un po’ mitomane. La versione italiana riesce a rendere bene la dimensione credibile, sempre umana ma non superficialmente retorica, della parabola dell’egoista misogino convertito come da manuale a una visione meno egoriferita del mondo. La disabilità è raccontata con salvifica ironia, arma molto frequentata da chi ci convive tutti i giorni, ma meno frequentemente da chi mette in atto quella forma di distanziamento, camuffato da solidarietà, rappresentato da un politicamente corretto di facciata che rappresenta, formula vuota dopo formula vuota, una presa di distanza.

Sana perfidia aleggia nelle dinamiche comiche di questa commedia, secondo le regole più nobili del genere ormai scolorite. Nel mettere in evidenza il cameratismo decadente del maschio alfa, lo scompone nelle sue componenti più meschine, ma soprattutto ne smaschera il patetico senso di inadeguatezza che lo caratterizza. Evidente che vivere su una sedia a rotelle (seppure per pochi momenti di travestimento) cambierà per sempre Gianni, ponendolo di fronte a riti stanchi ormai fuori tempo massimo, a un gioco ripetuto all’infinito non più liberatorio, ma involontario come quello di un criceto sulla ruota.

La corsa, il movimento, l’avvicinarsi e l’allontanarsi sono i moti prima di tutto emotivi al centro di questa commedia romantica messa in scena da Riccardo Milani, che poggia su una scrittura accurata e interpretazioni convincenti. Non solo Pierfrancesco Favino e Miriam Leone funzionano bene nel loro moto perpetuo oscillatorio, ma anche gli interpreti di contorno sono caratteristi decisamente in parte, da Pietro Sermonti a Vanessa Scalera, da Pilar Fogliati a un’ultima toccante apparizione della splendida Piera Degli Esposti.
Cinema artigianale in senso nobile, costruito con attenzione e rispetto, per i suoi personaggi e per il pubblico che avrà voglia di vederlo.

Mauro Donzelli – critico e giornalista cinematografico

 

IL REGISTA

Riccardo Milani

Roma, 15 aprile 1958

“Non credo ai film necessari, credo ai film utili”. Riccardo Milani nasce e cresce a Roma dove frequenta l’ambiente della Scuola nazionale di Cinema, debuttando come aiuto regista in Il giudice istruttore di Gianluigi Calderone nel 1987. La gavetta nel mondo del cinema continua
assistendo registi come Nanni Moretti, Mario Monicelli e Daniele Luchetti, e lavorando al fianco di grandi attori come Nino Manfredi, Enrico Montesano, Giancarlo Giannini e Silvio Orlando.
L’esordio vero e proprio da regista arriva nel 1997 quando realizza la commedia Auguri professore. Due anni dopo si conferma con La guerra degli Antò, commedia in tono minore rispetto alla precedente, ma che comunque lascia trapelare le linee guida per l’interpretazione
della poetica dell’autore. Milani infatti concentra gran parte della sua attenzione a quella popolazione per così dire “bassa”, ponendosi in contrapposizione rispetto a tanto cinema italiano contemporaneo che da tempo ha issato a simbolo della rappresentazione filmica la classe media.
Dal 2000 inizia a lavorare nel mondo della pubblicità realizzando diversi spot. Per la televisione inizia a collaborare anche nel mondo delle fiction curando la regia di diverse puntate di La Omicidi e Il sequestro Soffiantini.
Nel 2003 torna sul grande schermo con un film per il quale realizza anche la sceneggiatura: Il posto dell’anima, interessante sotto diversi aspetti, e interpretato da Michele Placido e Claudio Santamaria, con i quali il regista sembra stringere una fruttuosa collaborazione.
Nel 2007 sempre per il grande schermo realizza Piano, solo, film biografico dedicato alla drammatica esistenza di Luca Flores, geniale pianista jazz morto suicida prima di compiere quarant’anni. Interpretata da Kim Rossi Stuart, Jasmine Trinca e Paola Cortellesi, la pellicola
rappresenta per certi versi la summa della carriera artistica e personale di Milani, un regista profondamente legato alle tematiche care al neorealismo italiano e a quel cinema volto a investigare le anime e le vite degli ultimi, dei disagiati.
Nel 2008 dirige le fiction Tutti pazzi per amore e Tutti pazzi per amore 2. Dopo la serie in sei puntate Una grande famiglia, girata nel 2012, torna al cinema con la commedia Benvenuto Presidente!, in cui il bibliotecario di montagna Claudio Bisio viene eletto per errore Presidente
della Repubblica.
Dirige la moglie Paola Cortellesi, dalla quale ha avuto un figlio in Scusate se esisto!, Mamma o papà?, Come un gatto in tangenziale e Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di morto.

 

MGF

 

Regia di Paul Thomas Anderson – USA, 2021 –
con Alana Haim, Cooper Hoffman, Sean Penn,
Bradley Cooper
Durata 133′

 

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Licorice Pizza, film diretto da Paul Thomas Anderson, è ambientato nella San Fernando Valley degli anni Settanta e racconta la storia di un giovane liceale, il quindicenne Gary Valentine (Cooper Hoffman), con una carriera avviata come attore sin dall’infanzia. Il giorno in cui a scuola si scatta la foto per l’annuario Gary incontra Alana Kane (Alana Haim), una ragazza di diversi anni più grande di lui, da cui rimane fortemente colpito. I due iniziano a frequentarsi e a passare diverso tempo insieme, stringendo sempre più amicizia, tanto che finiscono per avviare un’azienda di letti ad acqua, gestita da Gary, ma con Alana come dipendente.
Siamo nel 1973 e questi due giovani vivono diverse avventure, correndo da una parte all’altra della città, crescendo giorno dopo giorno e innamorandosi, ma non manca di certo anche qualche litigio.

LA RECENSIONE

ALANA KANE E GARY VALENTINE CRESCONO E SI INNAMORANO IN
CALIFORNIA, NELLA SAN FERNANDO VALLEY DEL 1973.

C’è una coppia di campi avversi e complementari in ogni cosa e quindi anche nel cinema: quello del dover essere, della correttezza, e quello del poter essere, della libertà. Il cinema di Paul Thomas Anderson si posiziona da subito nel secondo e continua, magnificamente, a presidiarlo. Sicuramente ci troviamo nel lato luminoso della sua filmografia perché, impermeabili al contesto, i protagonisti mettono in atto una celebrazione della prima età, quella espansiva, che ha vitalismo e partigianeria degna della nouvelle vague versante Truffaut – ed è commovente.

Licorice Pizza può apparire un film dal peso specifico diminuito rispetto a opere magniloquenti e gravi come Il petroliere o Magnolia, nelle forme estetiche del kolossal e in quelle narrative del grande romanzo ante guerre mondiali. Invece è un discorso sui suoi soliti temi – l’America come realtà e idea; l’amore e le sue forze contrarie; l’entropia come motore universale che porta individui e momenti storici a crescere, durare precari e crollare; la rivalità mimetica – ogni volta intrecciati con varianti grazie a un filo nascosto. La libertà è un respiro, scriveva Anna Maria Ortese. Proprio come i suoi protagonisti che corrono tra possibilità aperte, il film respira a un ritmo che asseconda ogni divagazione (assicurandosi di renderla emblematica grazie alla maestria di scrittura, messa in scena, interpretazione, inquadratura – e casting, geniale come pochi altri) affinché i discorsi sopra detti risultino vasti, evocativi, proliferativi eppure mai chiusi, letteralmente senza capo né coda.

Dare forma al caos senza lasciare che la forma – o, peggio, le conclusioni, le lezioni, il giudizio – soffochi il caos e le stelle danzanti che sono le scene di Licorice Pizza: ogni film di Paul Thomas Anderson è un saggio sulle potenzialità del mezzo-cinema, una riscossa sui segni di obsolescenza che spesso captiamo, almeno in ambito mainstream/spettacolare. Cinema entropico, quello di Anderson, se l’entropia scandisce esattamente il ritmo delle oscillazioni di ogni ente tra ordine e caos.

Alessandro Ronchi – critico d’arte e giornalista culturale

IL REGISTA

Paul Thomas Anderson

STUDIO CITY, California (USA),
26 Giugno 1970

Regista per vocazione e autodidatta compulsivo della storia del cinema, Paul Thomas
Anderson riesce a sintetizzare nelle sue opere fuori dagli schemi l’inclinazione
autoriale e le lezioni dei grandi maestri di riferimento. La vena artistica è sicuramente
un’eredità paterna. Il signor Ernie Anderson, infatti, sotto le mentite spoglie di
‘Ghoulardi’, ha recitato in una serie horror trasmessa a tarda notte sulla televisione di
Cleveland. Inoltre, è stato tra i primi a possedere un registratore VCR permettendo
così al figlio di disporre, fin dalla giovane età, di un numero infinito di film e di
muovere i primi passi nel mondo delle riprese. Quello che sembrava solo un
passatempo per bambini si rivelerà, in realtà, il lavoro della vita. Abbandonata la
scuola di cinema, si cimenta subito con alcuni documentari che già fanno ben sperare,
quali: “The Dirk Diggler Story” (1988) e “Cigarettes & Coffee” (1993). Il primo
lungometraggio arriva nel 1996 con “Sydney”, grazie al finanziamento del Sundance
Lab. Ma l’apprezzamento a livello internazionale lo riscuote, prima, per il drammatico
“Boogie Nights – L’altra Hollywood” (1997), poi con l’enigmatico “Magnolia” (1999) che
guadagna tre candidature all’Oscar, tra cui anche per la sceneggiatura originale. Un
fuoriprogramma nel suo carnet, finora sempre all’insegna della drammaticità e coralità
dei protagonisti, è il film “Ubriaco d’amore” (2002) che ha come protagonista Adam
Sandler, attore molto apprezzato dal regista. Il film gli è valso anche un premio per la
miglior regia al Festival di Cannes, Ex-Aequo con “Chihwaseon” di Im Kwon-Taek.
Tuttavia, l’apice del successo arriva nel 2007 con lo sconvolgente “Il petroliere”, in cui
riesce a servirsi di Daniel Day-Lewis davvero magnificamente. Il film viene
pluripremiato e il regista ottiene un Orso d’argento per la miglior regia e una
candidatura all’Oscar per la stessa categoria. Un altro lavoro che risulta fuori dalle
righe è “The Master” (2012), sulla discussa figura del fondatore di ‘Scientology’ L. Ron
Hubbard, che dopo una lunga e difficile gestazione viene presentato e vince il Leone
d’Argento per la regia alla 69. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di
Venezia. Ha curato anche la regia di video musicali. Il suo film preferito da sempre è
“Quinto potere” (1975), di Sidney Lumet. Dalla moglie Maya Rudolph ha avuto tre
figli.

 

MGF

 

Si è concluso con Paolo Crepet il percorso “Sulle vie della Bellezza”, che ci ha accompagnato per tutta questa stagione soffermandosi su molte tematiche di attualità: una sala piena e attenta e molti a seguire la diretta su Youtube, segno che le tematiche affrontate sono state molto importanti e molto sentite.

Crepet ha affrontato i maggiori problemi che affliggono la società di oggi: la dissoluzione della famiglia e la mancanza di educazione da parte dei genitori; una scuola in declino che non dà più nessun supporto al di là dei propri cancelli; la necessità di abolire l’eredità, che dà l’illusione ai giovani che si possa vivere senza lavorare andando così a finire in quel vortice malsano che sono i social network, causa delle false immagini che hanno di se stessi, e che coprono falsamente la ferita della solitudine e della mancanza di relazioni vere; la troppa libertà e l’eccessivo supporto economico che li porta a pensare che la vita sia facile; il calo dell’intelligenza collettiva che non può far altro che portare al degrado della società; una civiltà dove si riconoscono solo i diritti e non i doveri.

 

Tanti temi spinosi, ma le sue parole vere, dirette ed esposte in modo semplice ci hanno fatto scontrare con la verità e ci hanno fatto riflettere a fondo.
Ora vogliamo soffermarci sugli ultimi minuti di questo incontro, quando una signora ha chiesto a Crepet come può il dolore essere Bellezza, riportando il tema sul focus del nostro cammino.

“Io ho perso mia madre giovanissimo” ci ha raccontato Crepet, “ma mia madre mi ha lasciato un sacco di cose. Io la incontro ancora tutte le sere, ci parlo… e non sono un religioso e neanche uno schizofrenico, eh!. Nella vita ne ho passate molte: ho perso il mio maestro, sono andato in coma tre volte, ho mancato di cinque minuti la strage di Bologna, ero lì a 200 metri. La mia vita non è certo stata un’autostrada a quattro corsie. Ma se oggi sono qua è per merito loro, anzi, se ho imparato qualcosa è per merito di tutti quelli che mi hanno lasciato. Non pensate che il bello sia solo il positivo. Prendiamo i grandi artisti: troverete il dolore nella loro storia, perché quelli che ridono continuamente sono quelli a cui non è successo mai niente e semplicemente non hanno vissuto. Nella vita questo accade: se mangi pane fai briciole. E la vita è così: cadi sette volte e ti ritiri su otto.”

 

 

Non potevamo chiudere meglio il nostro percorso se non con queste parole di speranza e conforto, di forza e di voglia di andare avanti, sempre e comunque, trovando la Bellezza anche dove sembra esserci solo il buio.
Vi lasciamo così, ringraziandovi per la vostra calorosa partecipazione a questi eventi, augurandovi una serena estate e con la certezza di ritrovarvi a settembre per nuovi cammini, sempre insieme e sempre alla ricerca del vero e del bello.

MGF

 

 

“Penso che fare lo psichiatra, come lo scrittore, significhi intraprendere l’arte di rimuovere gli ostacoli alla felicità. Ho sempre amato cercare la gente, ascoltarla, scriverne”

 

 

 

Così si presenta sul suo sito Paolo Crepet, ospite e relatore della prossima e ultima conferenza del ciclo “Sulle vie della Bellezza”, il cammino intrapreso lungo tutta questa stagione del Teatro Fratello Sole.

Laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Padova nel 1976 e poi in Sociologia presso l’Università di Urbino nel 1980, nel 1985 ottiene la specializzazione in Psichiatria presso la Clinica Psichiatrica dell’Università di Padova, Paolo Crepet, oltre all’attività clinica, si dedica alla divulgazione attraverso i suoi libri e i mezzi di comunicazione.
Infatti, dopo la seconda laurea in sociologia, scrive vari testi su temi di rilevanza sociale molto legati alla psichiatria, collaborando con diverse istituzioni su progetti e ricerche importanti, ma non interrompe mai la sua intensa attività di scrittore. Impegnato per anni sui temi dei problemi giovanili, del suicidio, della disoccupazione e del disagio sociale, dal 1989 per un certo periodo ha insegnato Psichiatrica Sociale presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Napoli e Culture e linguaggi giovanili presso il corso di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Siena.

 

 

In oltre quarant’anni di carriera ha scritto numerosi libri, articoli scientifici e romanzi, tra cui ‘Oltre la tempesta. Come torneremo a stare insieme”, la sua ultima fatica letteraria, edita nel 2021 da Mondadori, in cui analizza il difficile periodo in cui siamo stati gettati, nostro malgrado. “Spaventati, disorientati, ora depressi o inclini all’ira, ora fiduciosi nella solidarietà collettiva, stiamo attraversando la pandemia come fossimo in mezzo a un mare tempestoso, cercando di resistere nella speranza di arrivare presto a un approdo. Ma come sarà quel porto? Migliore o peggiore di quello da cui siamo partiti? E come saremo noi, alla fine del viaggio?”

 

 

 

Da anni Paolo Crepet viaggia lungo l’Italia incontrando genitori, studenti, insegnanti, educatori, per comprendere i motivi della crisi silenziosa che attraversa la scuola e la famiglia. Da questo lavoro di ascolto sono nate le riflessioni contenute in “Non siamo capaci di ascoltarli”, “Voi, noi” e “I figli non crescono più”, che trattano una sola, grande e dimenticata questione: l’emergenza educativa. Mai come oggi una generazione di giovani aveva vissuto altrettanto benessere e disarmante vulnerabilità. Ragazze e ragazzi cresciuti senza conoscere il senso della frustrazione e del dolore, che tentano di sopravvivere aggrappati a un presente imbalsamato di privilegi, terrorizzati da un futuro insicuro. Giovani che rischiano di invecchiare senza maturare. Identità fragili cresciute in famiglie fragili. Genitori eternamente indecisi tra il ruolo di amici o complici, fra severità e buonismo, controllo e fiducia. Il rischio più grande è che “i ragazzi siano costretti ad attraversare la vita in equilibrio su una corda sospesa nel vuoto.

Per fronteggiare «la più grande urgenza sociale odierna», Paolo Crepet propone a genitori, educatori e, in particolare, a quei «nativi digitali» che si accingono a esplorare la propria esistenza in una società ipertecnologica un «ipotetico inventario» di alcune declinazioni del coraggio in vari ambiti dell’esperienza umana (il coraggio di educare, di dire no, di ricominciare, di avere paura, di scrivere, di immaginare, di creare…). Un inventario concepito come un’associazione di idee, un ‘brain-storming’, un esercizio utile per stimolare adulti e non ancora adulti a ritrovare la forza della sfacciataggine e la capacità di resistenza che la vita ogni giorno ci chiede. Ma Crepet parla soprattutto di un’altra e più ambiziosa forma di coraggio: quella che dobbiamo inventarci per creare un nuovo mondo, se non vogliamo che siano altri a inventarlo per noi; quella che i giovani devono riscoprire per non ritrovarsi tristi e rassegnati a non credere più nei loro sogni; quella che tutti devono scovare in se stessi per iniziare un rinascimento ideale ed etico. Perché, alla fine, il coraggio è la magica opportunità che permette di capire il presente e di costruire il futuro.
Vi aspettiamo numerosi a questo appuntamento, venerdì 20 maggio alle ore 21.00.

MGF

Visitate il sito ufficiale di Paolo Crepet:

https://www.paolocrepet.it/

 

 

Vi ricordiamo che non è più necessario il Green Pass ma è ancora obbligatorio l’uso della mascherina Ffp2.

Per prenotare:

https://ticket.cinebot.it/fratellosole/

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