COGLI QUESTO PICCOLO FIORE

Cogli questo piccolo fiore e prendilo.
Non indugiare!
Temo che esso appassisca
e cada nella polvere.

 

Non so se potrà trovare posto
nella tua ghirlanda,
ma onoralo
con la carezza pietosa della tua mano
e coglilo.

 

 

 

Temo che il giorno finisca
prima del mio risveglio
e passi l’ora dell’offerta.

Anche se il colore è pallido
e tenue è il suo profumo
serviti di questo fiore finché c’è tempo
e coglilo.

 

 

 

Bellissima poesia in cui Rabindranath Tagore esprime la consapevolezza della caducità della vita e la rielabora attraverso l’immagine del fiore e l’invito a “coglierlo”. Il componimento, che si rifà appieno alla tradizione del carpe diem oraziano, è costituito da quattro strofe indirizzate a un “tu” che apre la strada all’interpretazione. Noi, che leggiamo la poesia, ci sentiamo coinvolti e interpellati da Tagore, che sembra proprio rivolgersi ad ognuno di noi con un accorato invito a non perdere mai la coscienza di quanto sia preziosa e breve la vita.
Ma la seconda persona non è l’unica ad essere presente in “Cogli questo piccolo fiore”: si fa strada, lungo i versi, la consapevolezza propria del poeta di quanto sia breve la vita, e lo si capisce grazie a quel “temo”, che è anaforicamente presente sia all’inizio che alla fine del componimento.
Una poesia splendida, che attraverso la metafora della natura, elemento estremamente caro a Tagore, rappresenta un invito a vivere la vita, la cui bellezza risiede proprio nella sua fragilità.


RABINDRANATH TAGORE

Poeta, drammaturgo, musicista e filosofo indiano (Calcutta 1861 – ivi 1941). Considerato una delle figure più rappresentative dell’India moderna, si fece portavoce di un messaggio di armonia universale che valica i confini tra razze e popoli. Tra le sue opere più note Gītāñjali ( Offerta di canti, 1914), e Śiśu (“Il bambino”, 1913). Nel 1913  ricevette il premio Nobel per la letteratura.
Apparteneva a un’eletta famiglia in cui già si erano distinti il nonno paterno Dwārkanāth quale fervido fautore del Brāhma-Sāmaj, e più ancora il padre Devendranāth fondatore dello Śāntiniketan e noto filantropo. Rabindranāth fu dal 1877 per un certo tempo in Inghilterra, ove approfondì la sua conoscenza della lingua inglese e a coltivò lo studio del diritto. Fondò (nel 1901) presso Śānti Niketan un istituto di educazione e cultura denominato Viśua Bāhārāti (“La voce universale”).
La ricca e geniale produzione letteraria di Tagore comprende opere in bengali, tradotte in gran parte dall’autore stesso in lingua inglese. Dal punto di vista religioso Tagore è panteista secondo l’antica concezione indiana affermata nelle Upaniṣad. Il concetto di umanità supera e domina in lui ogni limite o confine che la storia e la politica hanno stabilito fra razze e popoli diversi. Ha trattato vari generi letterari, dalla lirica filosofica e religiosa a scritti di soggetto sociale e politico, dalla drammatica alla letteratura narrativa. Una vasta e meritata risonanza ha avuto, oltre alle raccolte di liriche Gītāñjali  e Śiśu, il romanzo Gharē bahirē (1916; trad. it. La casa e il mondo, 2 voll., 1924) con il quale Tagore intendeva combattere la violenza. Musicò alcune delle sue liriche e compose numerosi inni, fra cui Jana Gana Mana (1912), divenuto l’inno nazionale indiano. Nel 2012, a un anno dal 150° anniversario della nascita e dal settantesimo della sua morte, la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma ha dedicato una retrospettiva The Last Harvest – Una mostra internazionale di dipinti di Rabindranath Tagore, che ne documenta anche l’attività di pittore.

Fonti: Libreriamo – Enciclopedia Treccani

MGF

 

I WANDERED LONELY AS A CLOUD –  (DAFFODILS)

 

 

Vagavo solitario come una nuvola
che fluttua in alto sopra le valli e le colline,
quando tutto d’un tratto vidi una folla,
una schiera di narcisi dorati;
accanto al lago, sotto gli alberi,
fluttuanti e danzanti nella brezza.

 

 

Continui come le stelle che splendono
e scintillano nella Via Lattea,
si distendevano in una linea infinita
lungo il margine di una baia:
ne ho visti almeno diecimila
scuotere le loro teste in una danza vivace.

 

 

 

Le onde ballavano al loro fianco; ma loro
superavano le scintillanti onde in allegria:
un poeta non può che essere felice,
in una così lieta compagnia:
li guardavo e guardavo ma pensavo poco
alla ricchezza che quello spettacolo mi aveva donato.

 

 

Poiché spesso, quando giaccio sul mio divano,
sia nell’ ozio che nella riflessione,
essi si mostrano a quell’occhio interiore,
che è la beatitudine della solitudine;
allora, il mio cuore si riempie di piacere
e danza insieme ai narcisi.

 

 

(traduz. MariaGrazia Ferrario)

Scritta nel 1804 e successivamente pubblicata nel 1807 questa poesia è ispirata da una visione che il poeta ha avuto nella zona del Lake District vicino alla sua abitazione. Un testo che può essere considerato quasi la quintessenza della poetica di Wordsworth: numerose metafore, similitudini e personificazioni sono funzionali all’esposizione in versi di una somma sensazione di gioia.
La poesia è meraviglia ed è in questa meraviglia che Wordsworth si imbatte durante una passeggiata: l’apparizione di un esteso campo di narcisi (in inglese daffodils) è la manifestazione stessa della bellezza, in quell’armonia con la natura che è un canone prettamente romantico.
La chiave di tutto il componimento è senza dubbio la gioia, tutta la natura appare meravigliosamente viva e felice: la nuvola fluttua in alto, le stelle brillano, le onde danzano di gioia. Anche i narcisi non sono statici come in un dipinto, ma vivi di movimento.
Eppure a Wordsworth non interessano i fiori in quanto tali, ma per il modo in cui influenzano i suoi pensieri. È chiaro, allora, che i narcisi hanno un significato metaforico: difatti lo stesso autore confessa di non rendersi conto della loro importanza nel momento in cui assiste alla loro vista, bensì riesce a farlo nella solitudine riflessiva della sua casa. I narcisi, quindi, possono rappresentare la voce della natura, appena udibile se non in solitudine, il momento magico in cui il nostro spirito sviluppa un potere visionario. Al tempo stesso ritorniamo all’unità incantata con la natura che conoscevamo nell’infanzia: quante immagini profonde nate dalla vista di una distesa gialla di fiori.


WILLIAM WORDSWORTH

William Wordsworth, nacque il 7 aprile 1770 a Cockermouth, in Cumbria, Inghilterra. Studiò al St. John’s College a Cambridge e si laureò nel 1791.
Wordsworth è considerato uno dei padri fondatori del Romanticismo inglese, insieme a Samuel Taylor Coleridge e altri. Il movimento romantico ha posto un’enfasi senza precedenti sulla relazione tra l’individuo e la natura, suggerendo che la natura fosse una fonte di ispirazione primaria per la creatività e la riflessione profonda.
William Wordsworth ha scritto una varietà di opere letterarie, ma è principalmente noto per la sua produzione poetica.
La sua opera più celebre, e forse una delle poesie più iconiche dell’intero Romanticismo inglese, è Lines Composed a Few Miles Above Tintern Abbey del 1798. Wordsworth riflette sulle emozioni e sui pensieri suscitati dalla vista dell’abbazia di Tintern, situata lungo il fiume Wye. La poesia è un inno alla bellezza della natura e alla sua capacità di ispirare profonde riflessioni.
Un’altra opera notevole di Wordsworth è Lyrical Ballads sempre del 1798, una raccolta di poesie scritte in collaborazione con Samuel Taylor Coleridge. Questa raccolta è stata fondamentale nel plasmare il Romanticismo inglese e ha contribuito a definire la poesia in termini di emozione e intuizione.
The Prelude del 1850 è un poema autobiografico che esplora la crescita e lo sviluppo del poeta. Un poema epico con cui Wordsworth racconta la propria vita, la sua crescita, le sue esperienze e la sua evoluzione come scrittore.
Wordsworth credeva fortemente nell’importanza dell’esperienza personale e della connessione con la natura come fonte di ispirazione per la sua poesia.
La sua profonda sensibilità verso la bellezza e la complessità del mondo naturale, unite alla sua capacità di comunicare emozioni profonde attraverso la poesia, lo rendono una figura centrale nel panorama letterario del XIX secolo.

Fonti varie

MGF

 

 

SI DIRADA DI NUBI LO STRATO SCORRENTE

 

Si dirada di nubi lo strato scorrente.
O stella della sera, stella così dolente,
Il tuo raggio inargenta le pianure sfiorite,
Il golfo che sonnecchia e le rocce annerite.

 

 

 

Amo la tenue luce nell’alto del cielo,
Essa ha tolto ai pensieri il loro greve velo.
Ricordo il tuo spuntare, ogni cosa splendeva
Sul quieto paese, dove tutto al cuore piaceva,
Dove il pioppo nelle valli si levava armonioso,
Dove sonnecchia il mirto e il cipresso tenebroso,
E dolci frusciano l’onde di meridione.

 

 

 

Là un tempo sui monti, il cuore in meditazione,
Trascinavo la mia indolenza taciturna,
Quando sui tetti calava l’ombra notturna
E una fanciulla nella nebbia ti cercava,
E alle amiche il tuo nome pronunciava.

 

 


ALEKSANDR PUSKIN

Aleksandr Sergeevic Puškin, considerato uno dei massimi poeti della Russia del XIX secolo e il padre della moderna letteratura russa, fu autore di liriche, poemi, favole, romanzi, racconti, drammi e saggi.
Nato a Mosca nel 1799 da una povera famiglia aristocratica, cominciò molto presto a comporre versi.
Fu allevato da balie e precettori, frequentò poi il liceo di Carskoe Selo ed ebbe successo fin dal primo poema, Ruslan e Ljudmila, pubblicato nel 1820. Impiegato al ministero degli Esteri, fece parte di un gruppo di radicali, molti dei quali saranno coinvolti nella rivolta decabrista del 1825.
Nel 1820 fu cacciato dalla capitale e confinato a Ekaterinoslav, a causa di alcuni suoi componimenti poetici politici. Fu poi trasferito a Kišinëv in Moldavia, dove scrisse tra l’altro Il prigioniero del Caucaso, e quindi a Odessa.
Dal 1824 fu costretto a vivere in esilio dalla capitale, nell’isolamento della tenuta familiare di Michajlovskoe, vicino Pskov, e anche lì continuò a scrivere poemi diventando ben presto il maggior rappresentante del romanticismo russo.
Nel 1823 aveva iniziato a comporre il romanzo in versi Eugenio Onegin, pubblicato nel 1833.
Nel 1826 il nuovo zar Nicola II gli consentì di tornare a Mosca in segno di perdono e in cambio di ciò Puškin dovette mostrare di aver rinunciato ai suoi sentimenti rivoluzionari.
Nel 1830 si sposò con Natal’ja Goncarova, da cui ebbe quattro figli.
Durante il soggiorno a Boldino, nel 1830, scrisse alcune opere teatrali: Mozart e Salieri, Il festino durante la peste, Il cavaliere avaro e L’ospite di pietra.
Nel 1831 pubblicò il dramma storico Boris Godunov e, in forma anonima, I racconti del povero Ivan Petrovic Belkin.
Nel 1834 pubblicò La donna di picche e nel 1836 La figlia del capitano.
Aveva anche iniziato un’opera storica su Pietro il Grande che lasciò incompiuta. Indebitato e infelice per il suo matrimonio, Puškin morì per difendere l’onore della moglie in un duello con il barone francese Georges D’Anthès, a Pietroburgo, nel 1837.

Fonte: archivio Feltrinelli

MGF

 

 

 

DOLOMITI

Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l’arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnamo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso,
inalberiamo sopra l’irta vetta
la nostra fragilezza ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l’umidore ed un remoto
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo
rattenuto, incessante, della terra.


Dolomiti è il racconto poetico di una scalata. Nella poesia la giovane Antonia ci restituisce il suo sguardo che stupito osserva i sentieri innevati e poi, più su, l’anfiteatro di guglie dei monti. Le montagne appaiono agli occhi della ragazza come un’immensa cattedrale costruita dalla natura, un regno di neve e ghiaccio che diventa emblema stesso della poesia.
Le montagne sono la rappresentazione della vastità del sentire umano, di quel contatto con l’infinito che Antonia anelava e costantemente ricercava attraverso la scrittura. Non a caso sin dall’incipit del componimento la poetessa specifica che non si tratta di monti, ma di “anime di monti” conferendo da subito alle montagne un connotato spirituale.

Mentre lo sguardo si dischiude allo splendore della vetta e all’azzurra distesa di nontiscordardimé, si ode lontano il cupo lamento della terra. Raggiungere la cima produce un sentimento estatico, di adorazione folle e selvaggia: Antonia percepisce la propria fragilità umana a contatto con la materia immortale, granitica delle rocce che d’improvviso non le sono più ostili e le diventano amiche.
La visione di Antonia si fa trascendente: il profondo sentire della poetessa le fa percepire il dolore della montagna, il suo pianto che non si vede. C’era un insegnamento prezioso racchiuso tra quelle rocce che Antonia Pozzi trascrive in una lettera all’amica Elvira:
Che la montagna è la prima che ci insegna a durare, nonostante gli squarci e gli strazi.

La montagna nella poesia di Antonia Pozzi diventa un riflesso dell’anima, di quella “volontà d’ascesa” che febbrilmente la animava. Rappresentavano il punto di contatto con l’infinito, l’approdo estremo del viandante solitario o dell’alpinista temerario.
In essa è racchiuso il sogno cantato in poesia da Antonia, il desiderio di liberarsi dagli impacci e dai limiti di un corpo che diventava prigione di uno spirito infinito. Come scrisse: “Oggi mi inarco nuda nel nitore”. In quel candore si sarebbe smarrita con il suo canto d’addio. Lei che in fondo era stata la poetessa della neve, alla neve sarebbe tornata con passi lievi smarriti nel sogno.
Proprio a Pasturo, sulle sue amate montagne, Antonia Pozzi è stata sepolta come a suggellare un legame eterno. La poetessa aveva fatto dei monti l’emblema della sua ricerca interiore – la scalata della vetta divenne metafora di vita – una ricerca estrema che infine coincise con l’annullamento.


ANTONIA POZZI

Antonia Pozzi nacque il 13 febbraio 1912 a Milano. Suo padre, Roberto Pozzi, era un prestigioso avvocato, mentre sua madre era la contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote del poeta e scrittore Tommaso Grossi. Con una tale famiglia alle spalle, Antonia crebbe in un ambiente molto raffinato, dove non le mancarono gli stimoli intellettuali.
Già da adolescente Antonia iniziò a scrivere le prime poesie, mentre frequentava il liceo classico a Milano. Lì conobbe e si innamorò del proprio professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi, relazione che però venne interrotta nel 1933 per la pressione della famiglia. Al liceo risalgono anche altre importanti amicizie, come quella con Lucia Bozzi ed Elvira Gandini. Dopo il liceo, Antonia decise di studiare filosofia e filologia moderna a Milano, e si laureò nel 1935 con una tesi sulla formazione letteraria di Gustave Flaubert.

Come la madre, anche Antonia coltivò una serie di interessi, dalla fotografia alla lettura, dalle escursioni nella natura alla scrittura di lettere e impostazione di altri progetti letterari. Apparentemente aveva una vita agiata e normale, nei canoni di una giovane dell’alta borghesia. Ebbe modo di viaggiare in molti paesi europei e di studiare tedesco, inglese e francese, anche se spesso quei viaggi non erano solo per scopi di studio, ma per allontanarla dalla sua relazione con Antonio Maria Cervi.
Parallelamente alla scrittura e alla poesia, sviluppò una passione per la fotografia, che divenne per lei un modo di tradurre la propria poesia in immagini e di fermare la “realtà” per sempre. Per un anno, il 1937, insegnò presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, e si dedicò in opere di beneficienza a favore dei poveri insieme all’amica Lucia.

Antonia era molto legata alla villa di famiglia a Pasturo, in provincia di Lecco. Nelle sue poesie, la natura, la montagna e l’amata Pasturo sono spesso descritte e ricordate con affetto, cosa che invece non accade per la società milanese benestante di cui faceva parte. Forse pressata dalle limitazioni e imposizioni dei genitori, forse sconvolta dalla piega che stava prendendo il mondo alla fine degli anni Trenta, nel 1938 Antonia Pozzi si tolse la vita, la sera del tre dicembre, davanti l’abbazia di Chiaravalle, situata in un quartiere meridionale di Milano.

Lo fece ingerendo una dose eccessiva di barbiturici, cosa che venne negata dai genitori, che attribuirono invece la causa della morte a una polmonite per non affrontare lo scandalo di un suicidio. Anche il testamento di Antonia venne nascosto e distrutto, e le sue poesie, scritte a mano su dei quaderni, vennero manipolate dal padre per evitare, probabilmente, accenni o espressioni ritenuti da lui scandalistici.

Antonia Pozzi venne sepolta nel cimitero della sua amata Pasturo.

 

MGF

 

GIUGNO

É il mese dei prati erbosi e delle rose;
il mese dei giorni lunghi e delle notti chiare.
Le rose fioriscono nei giardini, si arrampicano
sui muri delle case. Nei campi, tra il grano,
fioriscono gli azzurri fiordalisi e i papaveri
fiammanti e la sera mille e mille lucciole
scintillano fra le spighe.

 

 

Il campo di grano ondeggia al passare
del vento: sembra un mare d’oro.
Il contadino guarda le messi e sorride. Ancora
pochi giorni e raccoglierà il frutto delle sue fatiche.

 

 

Ciò che colpisce subito leggendo “Giugno” è il colore vibrante che si sprigiona dai versi.
Ci troviamo catapultati in un ambiente profumato di rose e di germogli, di tramonti vivaci e di notti rischiaratrici. Il grano ondeggia in mezzo ai papaveri e ai fiordalisi anche dinanzi ai nostri occhi di lettori sognanti. E anche le lucciole inebriano i nostri sensi con il loro volteggiare luccicare.
Giugno è dipinto da Giosuè Carducci come un mese di speranza, di rinascita – naturale e agricola – che ricorda anche una rinascita del cuore. Il mare d’oro, insieme all’immagine sorridente di un contadino affaticato ma soddisfatto, è preludio di inaudita bellezza, di felicità nascente.


GIOSUE’ CARDUCCI

Giosuè Carducci nasce a Valdicastello in Versilia il 27 luglio 1835. Trascorre gli anni dell’infanzia a Bolgheri, nella Maremma toscana, dove il padre, perseguitato per le sue idee politiche, era esiliato. In seguito, si trasferisce con la famiglia a Firenze e consegue la laurea in Lettere alla Scuola Normale di Pisa, all’età di 21 anni. Nel 1860 ottiene la cattedra di Letteratura italiana all’Università di Bologna (tra i suoi allievi c’è Giovanni Pascoli). Nel 1890 è nominato senatore. Nel 1906 è il primo italiano a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura. Il 16 febbraio 1907 muore a Bologna.
Giosuè Carducci dedicò la sua vita agli studi, alla poesia, all’impegno politico. Uomo e poeta di forte temperamento, affrontò le vicende politiche italiane e il dibattito culturale della seconda metà dell’Ottocento con spirito battagliero e vigore polemico. In politica fu interprete delle delusioni di quella generazione che, dopo aver partecipato attivamente alla lotta risorgimentale, dapprima si era sentita tradita nei propri ideali e poi aveva finito con l’accettare la realtà, aderendo al progetto monarchico – costituzionale del nuovo Stato italiano. Carducci sognava un rinnovamento della coscienza italiana e si ispirò al mondo classico, perché gli sembrava che nell’antica Roma ci fosse un senso della vita più alto e dignitoso. Proprio per questo ruolo di formatore della coscienza civile e morale dei suoi concittadini, è considerato il poeta vate, ossia il poeta simbolo della nazione italiana.

 

MGF