E’ MAGGIO

 

 

A maggio non basta un fiore.
Ho visto una primula: è poco.
Vuol nel prato le prataiole:
è poco: vuole nel bosco il croco.
È poco: vuole le viole; le bocche
di leone vuole e le stelline dell’odore.

 

 

Non basta il melo, il pesco, il pero.
Se manca uno, non c’è nessuno.
È quando è in fiore il muro nero
è quando è in fiore lo stagno bruno,
è quando fa le rose il pruno,
è maggio quando tutto è in fiore.

 

 

È maggio è una poesia di Giovanni Pascoli contenuta nella raccolta Poesie varie, pubblicata postuma nel 1912.
La lirica si configura come un vero e proprio inno alla natura primaverile, celebra la fioritura e il rigoglio del mese di maggio.

Pascoli compone la sua personale ode al periodo più luminoso della primavera in un canto lirico connotato da un’insolita sfumatura positiva che non conosce alcun margine d’ombra. Con lo sguardo limpido e innocente del “fanciullino” il poeta osserva la natura che si rivela innanzi a lui in una foresta di simboli fatta di corrispondenze e analogie quasi baudelairiane. L’autore cerca l’identificazione con la natura in rinascita, cogliendo in essa il senso stesso del mistero dell’esistenza.

 

GIOVANNI PASCOLI

Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. Il padre, tenutario dell’importante famiglia Torlonia, ha una vita politica complessa e articolata prima di fede repubblicana, poi monarchica. Svolge diversi incarichi pubblici e diventa anche sindaco della città, prima di morire vittima di un omicidio, mai risolto, quando il poeta ha soltanto 12 anni.

Pascoli ha spesso spinto i suoi critici a letture di tipo psicoanalitico, nelle quali viene attributo un grande peso al rapporto genitoriale. E’ indubbio, infatti, che la figura del padre abbia avuto un ruolo decisivo nell’elaborazione del suo immaginario poetico e onirico. Per reagire al trauma della sua scomparsa, Pascoli costruì l’immagine del nido, dove i pulcini superstiti resistono alla perdita del capofamiglia. Altri lutti segnano la vita adolescenziale del poeta: la morte della madre e della sorella Margherita (1868), quella del fratello Luigi (1871) e del fratello Giacomo (1876).

All’età di 17 anni Pascoli si avvicina al socialismo, tramite un movimento fondato da Andrea Costa, ma ne darà col tempo un’interpretazione sempre più riduttiva e deludente. Per aver elogiato pubblicamente l’anarchico Giovanni Passannante, il giovane poeta conosce un paio di mesi di carcere nel 1879. Si laurea con ottimi voti (1882), identificando nello studio il luogo dove trovare rifugio ai suoi stati di angoscia e tentare una strada indipendente. Comincia ad insegnare in diverse città d’Italia, fino ad ottenere nel 1905 la cattedra di Letteratura italiana all’Università di Bologna, appartenuta prima di lui a Giosuè Carducci.

Muore il 6 aprile 1912 nella sua casa di Bologna, ucciso da un cancro al fegato.

 

fonti: SoloLibri.net/WeSchool.com

MGF

 

 

Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

 

 

 

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

 

 

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.

 

 

 

Una poesia dall’orchestrazione perfetta, non solo Montale ci fa “vedere” il girasole, ma ci fa sentire la sua energia, la sua vitalità, ci immerge nel significato profondo di questo fiore. Nella prima strofa ci offre una descrizione fisica del girasole, dal “volto giallino”, che si riflette nello specchio azzurro del cielo; ma in questa parte è anche palese la voce del poeta, l’ansia che è soltanto sua e certo non appartiene al sole, e quel “terreno bruciato dal salino” che allude a una condizione esistenziale, a una sorta di aridità interiore. Montale cerca di sfuggire al proprio male di vivere e trasforma il fiore del sole nel correlativo oggettivo della felicità stessa.

 

EUGENIO MONTALE

Eugenio Montale, premio Nobel per la letteratura nel 1975, è una delle figure più emblematiche e innovative della poesia italiana del Novecento. La sua poetica si distingue per una marcata evoluzione stilistica e tematica, ma alcuni elementi rimangono costanti, delineando la sua unica voce poetica. Montale si allontana dalle tradizioni retoriche e dall’ottimismo del Crepuscolarismo e del Futurismo, scegliendo invece un linguaggio essenziale, talvolta ermetico, che sottolinea la difficoltà della comunicazione e l’isolamento dell’individuo nel mondo moderno.
Uno dei concetti centrali nella poesia di Montale è quello dell’”adversus“, un ostacolo o una barriera che impedisce all’individuo di raggiungere una comprensione o un’armonia completa con il mondo circostante. Questa sensazione di estraneità e separazione diventa un leitmotiv nelle sue opere, spesso contrapposto alla ricerca di momenti di “illuminazione”, brevi e fugaci epifanie in cui il poeta percepisce una connessione o una rivelazione.
La natura, in particolare il paesaggio ligure della sua giovinezza, occupa un posto di rilievo nella poetica montaliana. Tuttavia, a differenza della tradizione romantica, la natura non è idealizzata o consolatoria, ma rappresenta spesso un contrasto tra la bellezza esteriore e l’angoscia interiore. La figura femminile, soprattutto attraverso la misteriosa presenza di Clizia, assume un ruolo centrale, simboleggiando l’irraggiungibile, l’assoluto e, allo stesso tempo, l’incomunicabilità.
Montale affronta temi universali come l’amore, la morte, il tempo e l’esistenza con uno sguardo critico e talvolta disincantato, evidenziando la tensione tra l’individuo e un mondo incomprensibile e mutevole. Attraverso una sintesi unica di tradizione e innovazione, la poetica di Montale rappresenta un punto di riferimento fondamentale nella letteratura italiana, segnando una svolta nella poesia del ventesimo secolo e influenzando generazioni di poeti a venire.

Fonti:

https://sapere.virgilio.it/scuola/superiori/letteratura-storia-filosofia/letteratura-del-novecento/montale-vita-e-opere

 

MGF

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Poseidone incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

 

Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio;
senza di lei, mai ti saresti messo sulla via.
Nulla di più ha da darti.

 

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

 

Itaca, scritta nel 1911, appartiene al secondo periodo della produzione di Kavafis quando il poeta abbandona il simbolismo per recuperare la tradizione ellenistica realizzando così i suoi massimi capolavori. Nella lirica il riferimento al mito e alla classicità appare evidente fin dal titolo: Itaca, la terra natìa di Ulisse, la promessa universale del ritorno.
Attraverso la metafora del viaggio dell’eroe greco Kavafis narra una verità esistenziale: la navigazione di Ulisse si trasfigura così nel percorso della vita che in realtà non ha altra meta se non il viaggio.

 

COSTANTINO KAVAFIS

Kostantinos Petrou Kavafis (Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1863 – Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1933) è stato un poeta e giornalista greco. Kavafis era uno scettico che fu accusato di attaccare i tradizionali valori della cristianità, del patriottismo, e dell’eterosessualità, anche se non sempre si trovò a suo agio nel ruolo di anticonformista. Pubblicò 154 poesie ma molte altre sono rimaste incomplete o allo stato di bozza. Le poesie più importanti furono scritte dopo il suo quarantesimo compleanno. Kavafis nacque ad Alessandria d’Egitto, da famiglia greca. Suo padre aveva una ben avviata ditta di import-export, tuttavia nel 1870, dopo la morte del padre, Kavafis e la sua famiglia furono costretti a trasferirsi a Liverpool. Kavafis tornò ad Alessandria nel 1882. Lo scoppio delle rivolte nel 1885 costrinse la famiglia a muoversi ancora, questa volta a Costantinopoli. In quell’anno stesso, però, Kavafis ritornò ad Alessandria, dove visse per il resto della sua vita. Inizialmente lavorò come giornalista, ma poi fu assunto al Ministero egiziano dei lavori pubblici, dove lavorò per trent’anni. Dal 1891 al 1904 pubblicò alcune poesie, che gli fruttarono una certa fama per tutta la vita. Morì nel 1933. Dalla sua morte, la fama di Kavafis è cresciuta, e oggi è considerato uno dei più grandi poeti greci.
Le liriche di Kavafis hanno spesso carattere epigrammatico ed essenziale; lo stile è caratterizzato da un vena ironica, rivelatrice di un atteggiamento disincantato verso la realtà. La poesia, occasione di nobilitazione e di riscatto dalla miseria umana, è per Kavafis fondamentalmente memoria, rielaborazione di un passato che se da un lato è biografico dall’altro si incarna nella storia e nella tradizione di un popolo, di una civiltà. In questa chiave si iscrive la scelta del poeta di usare il greco, lingua parlata dalla madre del poeta, e di far rivivere, attraverso le sue liriche, fatti e personaggi dell’epoca ellenistico-romana e bizantina.

 

MGF

 

Se non mi avessi dato la poesia, Signore,
non avrei nulla per vivere.
Questi campi non sarebbero miei.
Mentre ora ho avuto la fortuna di possedere meli,
di fare spuntare rami dalle mie pietre,
riempire di sole il cavo delle mie mani
di gente il mio deserto,
di usignoli i miei giardini.

 

Allora, come ti sembra? Hai visto
le mie messi, Signore? Hai visto le mie viti?
Hai visto come cade bene la luce
sulle mie valli serene?
Ed ho ancora tempo!
Non ho dissodato tutto il mio territorio, Signore.
Il mio dolore mi scava a fondo e il mio lotto aumenta.
Prodigo il mio riso come pane che si spartisce.

 

Tuttavia,
non spendo a torto il tuo sole.
Non getto neanche una briciola di ciò che mi dai.
Perché penso alla solitudine e agli acquazzoni dell’inverno.
Perché verrà la mia sera. Perché giunge fra poco
la mia sera, Signore, e prima di andarmene
devo avere fatto della mia capanna una chiesa
per i pastori dell’amore.

 


NIKIFORUS  VRETTAKOS

Nikiforus Vrettakos (1º gennaio 1912 – Atene , 4 agosto 1991) è nato nel villaggio di Krokees (Κροκεές), vicino a Sparta , in Laconia , ma è originario di Mani . Pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Under Shadows and Lights , nel 1929, all’età di diciassette anni. Nello stesso anno si trasferì ad Atene per frequentare l’ università , ma lasciò dopo un anno per intraprendere una serie di lavori come impiegato in varie aziende. Nel 1937 iniziò una carriera trentennale nel servizio civile greco, vedendo anche il servizio di combattimento nella guerra greco-italiana durante questo periodo. Nel 1967 ha risposto all’acquisizione della Grecia da parte di una dittatura militare andando in esilio autoimposto in Svizzera e in Italia , dove è rimasto fino al ritorno in Grecia nel 1974. Ha anche scritto una poesia su Kostas Georgakis , lo studente che si è dato fuoco a Genova per protestare contro la giunta.
Nikiforus Vrettakos era considerato uno dei poeti più importanti della Grecia. Ha vinto numerosi premi e medaglie, tra cui il Premio statale di poesia greca due volte. Alcune delle sue poesie sono diventate canzoni popolari in ambienti musicali di compositori greci, tra cui Mikis Theodorakis .È stato anche eletto membro dell’Accademia di Atene nel 1987.
Vrettakos morì ad Atene.

 

a cura di Benedetta Sarrica

MGF

Ritornano anche quest’anno gli incontri di lettura al mercoledì sera alle 21.00.

Ecco il calendario e i titoli dei libri:

 

Mercoledì 13 novembre 2019 – ore 21.00 – MACCHINE COME ME – Ian McEwan

Mercoledì 15 gennaio 2020 – ore 21.00 – UN MATRIMONIO AMERICANO – Tajari Jones

Mercoledì 12 febbraio 2020 – ore 21.00 – NEL SILENZIO DELLE NOSTRE PAROLE – Simona Sparaco

Mercoledì 11 marzo 2020 – ore 21.00 – DAI TUOI OCCHI SOLAMENTE – Francesca Diotallevi

Mercoledì 15 aprile 2020 – ore 21.00 – LE BRACI – Sàndor Màrai

Mercoledì 13 maggio 2020 – ore 21.00 – LIBRO A SORPRESA!