DOLOMITI

Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l’arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnamo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso,
inalberiamo sopra l’irta vetta
la nostra fragilezza ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l’umidore ed un remoto
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo
rattenuto, incessante, della terra.


Dolomiti è il racconto poetico di una scalata. Nella poesia la giovane Antonia ci restituisce il suo sguardo che stupito osserva i sentieri innevati e poi, più su, l’anfiteatro di guglie dei monti. Le montagne appaiono agli occhi della ragazza come un’immensa cattedrale costruita dalla natura, un regno di neve e ghiaccio che diventa emblema stesso della poesia.
Le montagne sono la rappresentazione della vastità del sentire umano, di quel contatto con l’infinito che Antonia anelava e costantemente ricercava attraverso la scrittura. Non a caso sin dall’incipit del componimento la poetessa specifica che non si tratta di monti, ma di “anime di monti” conferendo da subito alle montagne un connotato spirituale.

Mentre lo sguardo si dischiude allo splendore della vetta e all’azzurra distesa di nontiscordardimé, si ode lontano il cupo lamento della terra. Raggiungere la cima produce un sentimento estatico, di adorazione folle e selvaggia: Antonia percepisce la propria fragilità umana a contatto con la materia immortale, granitica delle rocce che d’improvviso non le sono più ostili e le diventano amiche.
La visione di Antonia si fa trascendente: il profondo sentire della poetessa le fa percepire il dolore della montagna, il suo pianto che non si vede. C’era un insegnamento prezioso racchiuso tra quelle rocce che Antonia Pozzi trascrive in una lettera all’amica Elvira:
Che la montagna è la prima che ci insegna a durare, nonostante gli squarci e gli strazi.

La montagna nella poesia di Antonia Pozzi diventa un riflesso dell’anima, di quella “volontà d’ascesa” che febbrilmente la animava. Rappresentavano il punto di contatto con l’infinito, l’approdo estremo del viandante solitario o dell’alpinista temerario.
In essa è racchiuso il sogno cantato in poesia da Antonia, il desiderio di liberarsi dagli impacci e dai limiti di un corpo che diventava prigione di uno spirito infinito. Come scrisse: “Oggi mi inarco nuda nel nitore”. In quel candore si sarebbe smarrita con il suo canto d’addio. Lei che in fondo era stata la poetessa della neve, alla neve sarebbe tornata con passi lievi smarriti nel sogno.
Proprio a Pasturo, sulle sue amate montagne, Antonia Pozzi è stata sepolta come a suggellare un legame eterno. La poetessa aveva fatto dei monti l’emblema della sua ricerca interiore – la scalata della vetta divenne metafora di vita – una ricerca estrema che infine coincise con l’annullamento.


ANTONIA POZZI

Antonia Pozzi nacque il 13 febbraio 1912 a Milano. Suo padre, Roberto Pozzi, era un prestigioso avvocato, mentre sua madre era la contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote del poeta e scrittore Tommaso Grossi. Con una tale famiglia alle spalle, Antonia crebbe in un ambiente molto raffinato, dove non le mancarono gli stimoli intellettuali.
Già da adolescente Antonia iniziò a scrivere le prime poesie, mentre frequentava il liceo classico a Milano. Lì conobbe e si innamorò del proprio professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi, relazione che però venne interrotta nel 1933 per la pressione della famiglia. Al liceo risalgono anche altre importanti amicizie, come quella con Lucia Bozzi ed Elvira Gandini. Dopo il liceo, Antonia decise di studiare filosofia e filologia moderna a Milano, e si laureò nel 1935 con una tesi sulla formazione letteraria di Gustave Flaubert.

Come la madre, anche Antonia coltivò una serie di interessi, dalla fotografia alla lettura, dalle escursioni nella natura alla scrittura di lettere e impostazione di altri progetti letterari. Apparentemente aveva una vita agiata e normale, nei canoni di una giovane dell’alta borghesia. Ebbe modo di viaggiare in molti paesi europei e di studiare tedesco, inglese e francese, anche se spesso quei viaggi non erano solo per scopi di studio, ma per allontanarla dalla sua relazione con Antonio Maria Cervi.
Parallelamente alla scrittura e alla poesia, sviluppò una passione per la fotografia, che divenne per lei un modo di tradurre la propria poesia in immagini e di fermare la “realtà” per sempre. Per un anno, il 1937, insegnò presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, e si dedicò in opere di beneficienza a favore dei poveri insieme all’amica Lucia.

Antonia era molto legata alla villa di famiglia a Pasturo, in provincia di Lecco. Nelle sue poesie, la natura, la montagna e l’amata Pasturo sono spesso descritte e ricordate con affetto, cosa che invece non accade per la società milanese benestante di cui faceva parte. Forse pressata dalle limitazioni e imposizioni dei genitori, forse sconvolta dalla piega che stava prendendo il mondo alla fine degli anni Trenta, nel 1938 Antonia Pozzi si tolse la vita, la sera del tre dicembre, davanti l’abbazia di Chiaravalle, situata in un quartiere meridionale di Milano.

Lo fece ingerendo una dose eccessiva di barbiturici, cosa che venne negata dai genitori, che attribuirono invece la causa della morte a una polmonite per non affrontare lo scandalo di un suicidio. Anche il testamento di Antonia venne nascosto e distrutto, e le sue poesie, scritte a mano su dei quaderni, vennero manipolate dal padre per evitare, probabilmente, accenni o espressioni ritenuti da lui scandalistici.

Antonia Pozzi venne sepolta nel cimitero della sua amata Pasturo.

 

MGF

 

GIUGNO

É il mese dei prati erbosi e delle rose;
il mese dei giorni lunghi e delle notti chiare.
Le rose fioriscono nei giardini, si arrampicano
sui muri delle case. Nei campi, tra il grano,
fioriscono gli azzurri fiordalisi e i papaveri
fiammanti e la sera mille e mille lucciole
scintillano fra le spighe.

 

 

Il campo di grano ondeggia al passare
del vento: sembra un mare d’oro.
Il contadino guarda le messi e sorride. Ancora
pochi giorni e raccoglierà il frutto delle sue fatiche.

 

 

Ciò che colpisce subito leggendo “Giugno” è il colore vibrante che si sprigiona dai versi.
Ci troviamo catapultati in un ambiente profumato di rose e di germogli, di tramonti vivaci e di notti rischiaratrici. Il grano ondeggia in mezzo ai papaveri e ai fiordalisi anche dinanzi ai nostri occhi di lettori sognanti. E anche le lucciole inebriano i nostri sensi con il loro volteggiare luccicare.
Giugno è dipinto da Giosuè Carducci come un mese di speranza, di rinascita – naturale e agricola – che ricorda anche una rinascita del cuore. Il mare d’oro, insieme all’immagine sorridente di un contadino affaticato ma soddisfatto, è preludio di inaudita bellezza, di felicità nascente.


GIOSUE’ CARDUCCI

Giosuè Carducci nasce a Valdicastello in Versilia il 27 luglio 1835. Trascorre gli anni dell’infanzia a Bolgheri, nella Maremma toscana, dove il padre, perseguitato per le sue idee politiche, era esiliato. In seguito, si trasferisce con la famiglia a Firenze e consegue la laurea in Lettere alla Scuola Normale di Pisa, all’età di 21 anni. Nel 1860 ottiene la cattedra di Letteratura italiana all’Università di Bologna (tra i suoi allievi c’è Giovanni Pascoli). Nel 1890 è nominato senatore. Nel 1906 è il primo italiano a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura. Il 16 febbraio 1907 muore a Bologna.
Giosuè Carducci dedicò la sua vita agli studi, alla poesia, all’impegno politico. Uomo e poeta di forte temperamento, affrontò le vicende politiche italiane e il dibattito culturale della seconda metà dell’Ottocento con spirito battagliero e vigore polemico. In politica fu interprete delle delusioni di quella generazione che, dopo aver partecipato attivamente alla lotta risorgimentale, dapprima si era sentita tradita nei propri ideali e poi aveva finito con l’accettare la realtà, aderendo al progetto monarchico – costituzionale del nuovo Stato italiano. Carducci sognava un rinnovamento della coscienza italiana e si ispirò al mondo classico, perché gli sembrava che nell’antica Roma ci fosse un senso della vita più alto e dignitoso. Proprio per questo ruolo di formatore della coscienza civile e morale dei suoi concittadini, è considerato il poeta vate, ossia il poeta simbolo della nazione italiana.

 

MGF

OH ME! O VITA!

Oh me! Oh vita! Di queste domande che ricorrono,
degli infiniti cortei di infedeli, di città gremite di stolti,
di me stesso che sempre mi rimprovero, (Perché chi più stolto di me, chi più infedele?)
di occhi che invano bramano la luce, degli scopi meschini, della battaglia sempre rinnovata,
dei poveri risultati di tutto, delle sordide folle ansimanti che vedo intorno a me,
degli anni inutili e vuoti del resto, io intrecciato col resto,
la domanda, ahimé! Così triste, ricorrente
-Cosa c’è di buono in tutto questo, oh me, oh vita?

 

 

Risposta:
Che tu sei qui – che la vita esiste, e l’identità,
Che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un verso.

 

 

 

 

Oh me! Oh vita! è una poesia che inizia con un lamento, una sorta di grido di disperazione, un singulto d’affanno, ma che si rivela poi essere un appassionato elogio alla vita, alla bellezza di essere, di esistere.
La lirica fu pubblicata nel 1855 nella prima edizione della celebre raccolta di Walt Whitman Foglie d’erba, che il poeta inizialmente stampò a proprie spese presso la tipografia Rome Brothers di Brooklyn per poi pubblicarla in un’edizione definitiva, contenente 389 canti, nel 1892.
Si tratta di un componimento fortemente spirituale volto ad esplorare l’inafferrabile significato della vita. Il poema di Whitman si articola in due strofe composte di versi liberi e dalla struttura molto diversa, a tratti incoerente: alla lunghezza fluviale della prima strofa si oppone l’arguta brevità della seconda che in soli due versi ci offre una risposta fulminante. Nell’accezione finale di “verso” Walt Whitman racchiude l’irrepetibilità della vita, di ogni vita, e richiama ciascuno a esserne testimone. Alle incertezze dell’esistenza, al vuoto, alla sensazione vertiginosa di precarietà, l’autore oppone il ruolo attivo dell’essere umano che è chiamato a essere attore, costruttore, poeta.


WALT WHITMAN

Walter Whitman nasce nel 1819 a Long Island, vicino a New York, da genitori di fede quacchera (una setta protestante inglese). Secondo di nove figli, a undici anni Walt deve lasciare la scuola per aiutare la famiglia. La sua prima occupazione è quella di stampatore, che gli consente di accostarsi alla letteratura grazie alla lettura dei classici di cui si trova a pubblicare le opere.

Nel 1836 inizia la carriera di insegnante, adottando un rivoluzionario metodo didattico fondato sul coinvolgimento e sul rispetto delle esigenze dei bambini.

Nel 1841 diventa giornalista a tempo pieno, e nel 1848 fonda a New York il Brooklyn Freeman, giornale dalle posizioni democratiche e antischiaviste. Dopo un romanzo in cui denuncia la piaga sociale dell’alcolismo (Franklin Evans, 1842), la carriera letteraria di Whitman si orienta verso la poesia, culminando nel 1855 con la pubblicazione, a spese dell’autore, di Foglie d’erba. Questa raccolta, che Whitman ripubblicherà in altre otto edizioni, aggiungendo continuamente nuove composizioni e modificandone profondamente altre, è uno dei momenti più alti del cosiddetto Rinascimento americano, la stagione che segna, per la letteratura statunitense, il definitivo raggiungimento della maturità.

Nel 1871 Whitman pubblica la raccolta di scritti in prosa Prospettive democratiche, in cui espone con chiarezza le proprie idee sulla democrazia, in parte anche in reazione alle accuse di oscenità che gli costano il posto di lavoro presso il Dipartimento degli Interni. Queste accuse continuano a inseguirlo fino agli ultimi anni di vita, quando prepara l’edizione definitiva di Foglie d’erba, pubblicata nel 1891-92 e nota come edizione del letto di morte.

Walt Whitman si spegne nel 1892 a Camden. La sua è un’eredità inestimabile di coraggio politico e spericolatezza linguistica, e soprattutto una testimonianza di amore sconfinato per l’America e la sua umanità.

 

MGF

 

 

 

 

 

Se riesci a tenere la testa a posto quando tutti intorno a te
l’hanno persa e danno la colpa a te,
se puoi avere fiducia in te stesso quando tutti dubitano di te,
ma prendi in considerazione anche i loro dubbi.
Se sai aspettare senza stancarti dell’attesa,
o essendo calunniato, non ricambiare con calunnie,
o essendo odiato, non dare spazio all’odio,
senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo da saggio;

 

Se puoi sognare, senza fare dei sogni i tuoi padroni;
se puoi pensare, senza fare dei pensieri il tuo scopo,
se sai incontrarti con il Successo e la Sconfitta
e trattare questi due impostori allo stesso modo.
Se riesci a sopportare di sentire la verità che hai detto
Distorta da imbroglioni che ne fanno una trappola per gli ingenui,
o guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,
e piegarti a ricostruirle con strumenti usurati.

 

Se puoi fare un solo mucchio di tutte le tue fortune
e rischiarlo in un unico lancio di una monetina,
e perdere, e ricominciare daccapo
senza mai fiatare una parola sulla tua perdita.
Se sai costringere il tuo cuore, nervi, e polsi
a sorreggerti anche quando sono esausti,
e così resistere quando in te non c’è più nulla
tranne la Volontà che dice loro: “Resistete!”

 

Se riesci a parlare alle folle e conservare la tua virtù,
o passeggiare con i Re, senza perdere il contatto con la gente comune,
se non possono ferirti né i nemici né gli amici affettuosi,
se per te ogni persona conta, ma nessuno troppo.
Se riesci a riempire ogni inesorabile minuto
dando valore a ognuno dei sessanta secondi,
tua è la Terra e tutto ciò che contiene,
e – cosa più importante – sarai un Uomo, figlio mio!

 

La poesia Se è dedicata al figlio John e contiene una serie di suggerimenti su come affrontare la vita e su come trovare un equilibrio. Il testo si configura come una lettera al figlio, nella quale sono presenti indicazioni che intendono aiutare il bambino a tracciare il suo percorso di crescita, affinché egli possa diventare un Uomo.
Nella poesia Kipling sostiene che si diventa davvero uomini quando si raggiunge una stabilità tale da non perdere la calma quando intorno è il panico e quando vengono apprese virtù importanti come la fiducia in se stessi, l’autocontrollo, il coraggio, la tenacia, la pazienza, l’amore e la capacità di credere nei propri sogni, pure non facendosi dominare da essi. Insomma, si diventa uomini prendendo coscienza di se stessi attraverso le esperienze, mantenendo la fiducia in ciò che si fa e dando valore a ogni singolo istante che si vive.
Scritta all’incirca nel 1895 è un esempio letterario dello stoicismo dell’Età Vittoriana. Pubblicata in Rewards and Fairies (1910), una raccolta di poesie e racconti.

 

RUDYARD KIPLING

 

Joseph Rudyard Kipling (Bombay, 30 dicembre 1865 – Londra, 18 gennaio 1936) è stato uno scrittore, poeta e giornalista britannico, vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1907 a 41 anni, il più giovane e il primo scrittore di lingua inglese. Dopo la sua morte, le sue ceneri furono interrate nel Poets’ Corner, una sezione del transetto meridionale dell’Abbazia di Westminster.

Egli nacque nell’India britannica, che ispirò molta della sua produzione. Le sue opere narrative più note, subito acclamate fin dal loro apparire e ancor oggi considerate dei classici senza tempo, includono: la dilogia dei racconti Il libro della giungla (The Jungle Book, 1894; The Second Jungle Book, 1895); i romanzi Capitani coraggiosi (1897), Kim (1901); le Storie proprio così (1902); moltissimi i racconti, di incomparabile talento e straordinaria bellezza, tra cui L’uomo che volle essere re (1888). Copiosa anche la produzione di poesie, tra le quali si segnalano le seguenti: Mandalay (1890), Se (If, circa 1895), Il fardello dell’uomo bianco (The White Man’s Burden: The United States and the Philippine Islands, 1899), Gli dei delle intestazioni del quaderno (The Gods of the Copybook Headings, 1919).

Uno dei più popolari scrittori dell’Impero britannico tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, di lui Henry James disse: «Kipling mi colpisce personalmente come il più completo uomo di genio, come distinto da fine intelligenza, che io abbia mai conosciuto». Candidato alla carica di Poeta laureato (British Poet Laureateship) e molte volte al cavalierato, rifiutò entrambi i titoli.

 

MGF

 

 

E’ MAGGIO

 

 

A maggio non basta un fiore.
Ho visto una primula: è poco.
Vuol nel prato le prataiole:
è poco: vuole nel bosco il croco.
È poco: vuole le viole; le bocche
di leone vuole e le stelline dell’odore.

 

 

Non basta il melo, il pesco, il pero.
Se manca uno, non c’è nessuno.
È quando è in fiore il muro nero
è quando è in fiore lo stagno bruno,
è quando fa le rose il pruno,
è maggio quando tutto è in fiore.

 

 

È maggio è una poesia di Giovanni Pascoli contenuta nella raccolta Poesie varie, pubblicata postuma nel 1912.
La lirica si configura come un vero e proprio inno alla natura primaverile, celebra la fioritura e il rigoglio del mese di maggio.

Pascoli compone la sua personale ode al periodo più luminoso della primavera in un canto lirico connotato da un’insolita sfumatura positiva che non conosce alcun margine d’ombra. Con lo sguardo limpido e innocente del “fanciullino” il poeta osserva la natura che si rivela innanzi a lui in una foresta di simboli fatta di corrispondenze e analogie quasi baudelairiane. L’autore cerca l’identificazione con la natura in rinascita, cogliendo in essa il senso stesso del mistero dell’esistenza.

 

GIOVANNI PASCOLI

Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. Il padre, tenutario dell’importante famiglia Torlonia, ha una vita politica complessa e articolata prima di fede repubblicana, poi monarchica. Svolge diversi incarichi pubblici e diventa anche sindaco della città, prima di morire vittima di un omicidio, mai risolto, quando il poeta ha soltanto 12 anni.

Pascoli ha spesso spinto i suoi critici a letture di tipo psicoanalitico, nelle quali viene attributo un grande peso al rapporto genitoriale. E’ indubbio, infatti, che la figura del padre abbia avuto un ruolo decisivo nell’elaborazione del suo immaginario poetico e onirico. Per reagire al trauma della sua scomparsa, Pascoli costruì l’immagine del nido, dove i pulcini superstiti resistono alla perdita del capofamiglia. Altri lutti segnano la vita adolescenziale del poeta: la morte della madre e della sorella Margherita (1868), quella del fratello Luigi (1871) e del fratello Giacomo (1876).

All’età di 17 anni Pascoli si avvicina al socialismo, tramite un movimento fondato da Andrea Costa, ma ne darà col tempo un’interpretazione sempre più riduttiva e deludente. Per aver elogiato pubblicamente l’anarchico Giovanni Passannante, il giovane poeta conosce un paio di mesi di carcere nel 1879. Si laurea con ottimi voti (1882), identificando nello studio il luogo dove trovare rifugio ai suoi stati di angoscia e tentare una strada indipendente. Comincia ad insegnare in diverse città d’Italia, fino ad ottenere nel 1905 la cattedra di Letteratura italiana all’Università di Bologna, appartenuta prima di lui a Giosuè Carducci.

Muore il 6 aprile 1912 nella sua casa di Bologna, ucciso da un cancro al fegato.

 

fonti: SoloLibri.net/WeSchool.com

MGF