IL PROFESSORE E IL PAZZO

Regia di Farhad Safinia – Irlanda, 2019 – 124′
con Mel Gibson, Sean Penn, Eddie Marsan

1879. Al Professor James Murray (Mel Gibson) viene affidata la redazione del primo dizionario al mondo che racchiuda tutte le parole di lingua inglese. Per far ciò il Professore avrà l’idea di coinvolgere la gente comune, invitandola a mandare via posta il maggior numero di parole possibili. Arrivato però ad un punto morto, riceve la lettera di William Chester (Sean Penn) un ex professore ricoverato in un manicomio. Le migliaia di parole che il Dr. Chester sta inviando per posta risultano fondamentali per la compilazione del dizionario. I due formeranno un’insolita alleanza.
Farhad Safinia, già collaboratore di Mel Gibson, allestisce un affesco classico, a partire da una intrigante storia vera, in cui due grandi star (Mel Gibson e Sean Penn) si sfidano, a distanza, in una gara di recitazione.

Paolo Castelli

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IL VOCABOLARIO REGISTICO NON BRILLA PER ORIGINALITÀ, MA LA VICENDA (VERA) È COSÌ BELLA CHE È IMPOSSIBILE NON FARSI ENTUSIASMARE.

Marianna Cappa – Mymovies.it

Dopo anni di stallo, nel 1879, la grande impresa di redazione dell’Oxford English Dictionary trovò nuova linfa, e vide più tardi la luce della pubblicazione, grazie al lavoro infaticabile del professor James Murray e dei volontari di tutto il mondo a cui si era appellato, nella ricerca di individuare e spiegare ogni parola della lingua inglese. Tra questi, il più solerte e affidabile mittente di schede, era un uomo che si firmava W.C. Minor, che Murray scoprì risiedere nel temibile manicomio di Broadmoor. Anni prima, infatti, vittima di una gravissima paranoia, Minor aveva ucciso per errore un passante, scambiandolo per il suo persecutore immaginario, e lasciando la moglie di lui vedova con sei figli da sfamare.


Il “professore”, James Murray, non aveva una laurea, era figlio di un sarto e autodidatta. Il “pazzo” era un uomo di cultura, medico chirurgo, traumatizzato dagli orrori della guerra e dal più accanito dei nemici: se stesso, il suo senso di colpa.
L’uno era scozzese, l’altro americano. Più simili, cioè, di quanto si potesse immaginare, accomunati dall’estraneità alla convenzione, e poi, dopo anni di scambio epistolare, legati tra loro, esattamente come sono legate tra loro le entrate di un dizionario. Non a caso, i loro primi incontri, nel film, sono raccontati attraverso un dialogo singolare, un gioco di lemmi, che è sfoggio di passione e erudizione, e riesce, insieme alle scene quotidiane di lavoro nello scriptorium di Murray, nella sfida più intrepida, quella che dà carattere al film e al libro di partenza prima di lui: rendere appassionante il mestiere del lessicografo.

Anziché guardare solo al passato, così facendo, Il professore e il pazzo incarna un paradigma narrativo, uno di quelli che al cinema funzionano meglio di tutti: la devozione di un uomo ad un’impresa abissalmente più grande di lui, mai concepita prima, “pazza” furiosa come Minor (il linguaggio del film lo dice con le ripetute incursioni della carrozza del professore oltre le porte del manicomio), ma luminosa come un sogno.
Non stupisce che sia nata da Mel Gibson la richiesta di adattamento del libro del giornalista Simon Winchester: l’attore, per il tramite del suo personaggio, insiste sulla fede religiosa di Murray, sottolinea come miracoloso l’incontro con Minor, e trasforma la tragica vicenda umana di quest’ultimo in una storia di redenzione. P. B. Shemran, dal canto suo, applica a questa visione una struttura cinematografica ultra classica e restaurativa, che nella seconda parte del film non riesce ad evitare le lusinghe del didascalismo e del patetico (e Sean Penn in questo senso ci mette del suo, con una performance altalenante).

Il professore e il pazzo, in fondo, è dunque un film di costumi e scenografie, di personaggi secondari spesso unidimensionali (eccezion fatta per il Mr Muncie di Eddie Marsan), il cui “vocabolario” registico non comprende voci particolarmente originali, ma racconta una storia (vera) così bella che è impossibile non farsi entusiasmare da essa e dai suoi tanti risvolti.

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IL BIOPIC VOLUTO DA MEL GIBSON RACCONTA LA STORIA DIETRO LA CREAZIONE DI UNO DEI PIÙ GRANDI DIZIONARI DELLA STORIA.

Giuseppe Grossi – Movieplayer.it

Mai come in questo caso bisogna stare attenti a ogni parola. Rileggere ogni frase, calibrare qualsiasi definizione. È un atteggiamento necessario quando ci si appresta a scrivere la recensione de Il professore e il pazzo, un film devoto al valore di ogni singolo termine, un’opera appassionata in cui riscopriamo il fascino spesso nascosto, sopito e dato per scontato del significato delle cose. Ed è proprio dalla passione che nasce questo biopic dedicato alla grande impresa e alle enormi fatiche dietro la creazione dell’Oxford English Dictionary, ovvero uno dei più ricchi e fondamentali dizionari della storia. Succede tutto vent’anni fa quando Mel Gibson si imbatte in un libro chiamato L’assassino più colto del mondo, dedicato all’incredibile amicizia tra due uomini agli antipodi: il filologo scozzese Sir James Murray e William Chester Minor, ex chirurgo rinchiuso in un manicomio criminale. I due, improbabili ma solidali alleati, gettarono sangue e inchiostro pur di dare vita al primo grande dizionario in lingua inglese (avviato nel 1879 e concluso nel 1928). Una storia vera, che ha solleticato le fantasie cinematografiche di Gibson, da sempre innamorato di uomini capaci di fare la storia. Condottieri, esempi, simboli: la sua poetica si fonda su umanità eccezionali. Ecco perché, nonostante la regia sia stata poi affidata al suo fidato collaboratore P.B. Sherman (al suo esordio dietro la macchina da presa), è davvero impossibile non scovare ne Il professore e il pazzo quella lucida scintilla di follia da sempre presente nello sguardo di Mel.
Non vi aspettate, però, un film bizzarro, strambo e innovatore come i suoi visionari protagonisti, perché la mano con cui viene messa in scena questa incredibile storia è cauta, volutamente classica nel tono e nel ritmo. Quello che rende davvero straordinario Il professore e il pazzo è proprio la vicenda poco nota quanto sbalorditiva a cui si ispira. Una storia di amicizia, dolore, perdono, redenzione e vocazioni. E no. Non è un caso se in questo elenco abbiamo rispettato l’ordine alfabetico. Il professore e il pazzo, calzante titolo interscambiabile (capace di insinuare nello spettatore il dubbio su chi sia davvero folle tra i due), racconta questa avventura editoriale con una coraggiosa ma sbilanciata miscela di melodramma e thriller, epico eroismo intellettuale e intima redenzione. Forse troppe emozioni “da definire” per un film che non può contenerle tutte. Ambizioso negli intenti e canonico nella messa in scena, Il professore e il pazzo dà il meglio di sé quando preferisce soffermarsi sulla commovente dedizione di due uomini lontani, ma vicini nelle vocazioni. Simili nello sguardo cristallino, Mel Gibson e Sean Penn appaiono affiatati nelle poche sequenze in cui condividono la scena. Il primo con un’interpretazione misurata, implosa ma non per questo poco generosa. Il secondo sposando l’anima tormentata di un uomo per cui le parole erano l’unica forma di libertà possibile e immaginabile. È dai medievali tempi in cui infervorava le coscienze dei suoi soldati che Mel Gibson è capace di scegliere le parole giuste. Dai monologhi di William Wallace alle definizioni di James Murray il passo è breve. Con richiami ammiccanti (e assai gustosi) al suo mitico passato da eroe scozzese in Braveheart – cuore impavido, la trama de Il professore e il pazzo vuole molto bene al personaggio di Gibson: invidiabile, senza macchia, supportato da una grande donna al suo fianco. In maniera forse troppo squilibrata, questo biopic dedica a Penn la parte più debole di una trama tracotante, in cui non manca persino una dolente relazione amorosa di cui è difficile apprezzare le sfumature. Il grande merito del film, però, risiede nell’aver colto la natura più intima dell’impresa dietro la creazione del dizionario inglese: un profondo atto d’amore nei confronti delle parole. Senza di loro il mondo non avrebbe forma, la realtà non avrebbe senso. Fissare su un vocabolario il significato delle cose significa andare a caccia dell’infinito, lottare contro il caos, pur consapevoli di maneggiare una materia mutevole, destinata a cambiare e ad arricchirsi. Questo Il professore e il pazzo lo sa bene e soprattutto riesce a raccontarlo con grande tatto, ricordando che non esiste lingua che si possa ingabbiare o cristallizzare dentro un dizionario definitivo. Se David Fincher ci ha regalato una pagina fondamentale della nostra società con The Social Network, P.B. Sherman, pur non sfiorando quelle vette di cinema, ci mette davanti ad un’altra pagina di una storia fondamentale della nostra cultura: il primo ipertesto. Con quel vocabolario che fa saltare da un termine all’altro gli spiriti più assetati e curiosi. Per una volta le immagini sono al servizio delle parole. La settima arte non si offenderà mica.

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LA STORIA DI “BONDMAID”, LA PAROLA CHE FU DIMENTICATA DALL’OXFORD DICTIONARY

 

Una delle prime edizioni dell’Oxford English Dictionary

Erano tutti felici quando nel 1928 uscì l’Oxford English Dictionary, la più grande opera sulla lingua inglese, dopo un lavoro durato 70 anni. Buonumore facile da comprendere, perché il percorso per realizzarlo aveva visto avvicendarsi disastri su disastri, con tanto di parole scomparse e fogli fantasma. La fine delle fatiche coronava quasi un secolo di inadempienze e avventatezze.

 

 

Sir James Murray al lavoro col suo team

La storia dell’ OED è un catalogo di tutte le disgrazie possibili: segnata da ritardi, mesi di confusione, disorganizzazione, errori, tragedie. L’avvicendarsi di direttori diversi, con conseguenti modifiche editoriali e nuovi schemi organizzativi, ha provocato danni di ogni genere. In cantiere dall’inizio del XIX secolo, ha visto la parvenza di un ordine nel 1879, quando al timone è salito il barbuto James Murray, con il suo metodo draconiano.

 

Fino a quel momento era tutto nel caos. Gli uffici, pur lavorando con impegno, non riuscivano (un esempio per tutti) a venire a capo delle cosiddette “quotation slip”, cioè striscioline di carta piene di frasi ricopiate da libri il cui scopo era fornire esempi per tutte le accezioni di ogni parola. Venivano scritte da volontari e poi inviate all’ufficio centrale, qui un solerte linguista le avrebbe esaminate, una per una, scegliendo le migliori per pregnanza e completezza. Un processo certosino e ad alto rischio di confusione: ogni giorno ne arrivavano a migliaia, l’ufficio centrale ne veniva sommerso e centinaia venivano perdute.

Alcune vennero ritrovate, anni dopo, ammassate in valigie e scatoloni in cantina, in mezzo alle ragnatele e ai topi. Per 12 anni sono sparite tutte le parole che cominciavano con “Pa”, per essere riscoperte a County Canavan, in Irlanda (come ci erano finite?), usate come innesco per il fuoco. Altre, quella della “G”, quasi finirono nel fuoco. Nel 1879 venne ritrovata l’intera sezione della “H” in Italia (anche qui: come hanno fatto?).

Per salvare la baracca ci volle il pugno di ferro di Murray. Impose un rigido sistema di classificazione, costruì un nuovo edificio, lo Scriptorium (una sorta di capanno degli attrezzi pieno di nicchie e colombaie per organizzare tutte le strisce e le citazioni necessarie) e mise tutti al lavoro. I risultati si videro subito: nel 1888 uscì il primo volume, con le lettere A e B. Un successo. Tranne per un particolare: mancava una parola, “bondmaid” (termine del 1600 per indicare la “ragazza schiava”). Murray pensò a uno scherzo. Poi controllò e vide che era vero. Quasi gli venne un colpo.

Negli anni successivi le nuove edizioni ritornarono sulla questione, ricompresero la parola e andarono avanti, fino ad arrivare al 1928, quando le 414.825 parole della lingua inglese, catalogate e spiegate, erano tutte lì. Ma Murray era rimasto traumatizzato: nel 1901, incredulo, scriveva: “Nessuno, tra le 30 persone che hanno seguito il lavoro nei suoi diversi stadi tra manoscritto e stampa ha notato l’omissione. Un fenomeno inspiegabile. Con la nostra organizzazione minuta, poi, si sarebbe detto impossibile”. Non ci credeva ancora, non ci avrebbe mai creduto. Del resto, va capito: erano lontani gli anni in cui l’OED avrebbe, per scelta, deciso di tralasciare alcune parole desuete per inserire, ad esempio, youthquake e covfefe.

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UNA STORIA DI FOLLIA E AMORE PER I LIBRI NELL’INGHILTERRA VITTORIANA

Il libro: L’ASSASSINO PIU’ COLTO DEL MONDO

di Simon Winchester – ed. Mondadori

Perché il geniale William Chester Minor continua a rifiutare cortesemente i ripetuti inviti del professor James Murray, fondatore e anima di quella colossale impresa ottocentesca che fu l’Oxford English Dictionary? Perché Minor, che è di gran lunga il più importante dei collaboratori di quell’impresa letteraria, si limita a corrispondere con Murray dall’anonima località di Broadmoor, in Cornovaglia? E quale singolare mistero si cela dietro l’infinita erudizione di Minor?
L’assassino più colto del mondo (The Professor and the Madman) è un saggio di Simon Winchester del 1998.

Il libro parla della nascita dell’idea di un dizionario per la lingua inglese, e dello sviluppo nel corso di vari decenni di quell’opera editoriale che attualmente si chiama Oxford English Dictionary. Ma soprattutto è la storia del suo più famoso direttore editoriale, il dottor James Murray della Philological Society di Londra, e del suo più famoso collaboratore, William Chester Minor. Nel 1915 il giornalista Hayden Church, sulla rivista Strand, narra la storia dell’incontro fra Murray e Minor. Il saggio di Winchester si divide nel raccontare la storia del dizionario e quella dei suoi creatori (o collaboratori, nel caso di Minor), per poi focalizzarsi completamente, nell’ultima parte, sulla persona di Minor.

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MGF