Regia di Claudio Bisio – Italia, 2023 – 90′
con Alessio Di Domenicantonio, Vincenzo Sebastiani, Carlotta De Leonardis

 

 

 

 

 

 

UN FILM DA RICORDARE. CLAUDIO BISIO ESORDISCE CON L’URGENZA DI CONDIVIDERE RIFLESSIONI ED EMOZIONI.

Vanda, Italo, Cosimo hanno dieci anni e, nonostante la Seconda guerra mondiale, conoscono ancora il piacere del gioco che condividono con l’amico Riccardo che è ebreo. Il giorno in cui scompare decidono che non si può attendere: i tedeschi, che devono averlo portato via con un treno, debbono essere resi consapevoli del fatto che il loro amico non ha alcuna colpa per cui essere punito. Si mettono quindi in marcia seguendo la strada ferrata. A cercare di raggiungerli ci sono Vittorio, fratello di Italo e milite fascista che ha subìto una ferita, e la suora dell’Istituto per gli orfani che ospita Vanda.

L’esordio alla regia di Claudio Bisio appartiene alla categoria di quelli che non si dimenticano.
Quando un attore famoso si cimenta nella regia i motivi possono essere diversi e, in più di un’occasione, anche legati ad un’esigenza personale e professionale che non necessariamente deve coincidere con l’interesse degli spettatori. Non è così per l’esordio di Claudio Bisio dietro la macchina da presa che ha più di un punto di contatto con quelli di coloro che nascevano come registi e sono diventati noti ed apprezzati nel panorama nazionale ed internazionale. Perché nella storia scelta, nel modo in cui è stata trasposta sullo schermo dalle pagine di un libro (di Fabio Bartolomei) e in quello in cui è stata girata, si sente l’urgenza di condividere pensieri, riflessioni (non solo, si badi bene, sul passato) ed emozioni.

Il romanzo inizia con questa frase: “Cosa stia accadendo di preciso lì fuori, Cosimo non lo sa. È nell’età in cui le risposte si cercano nello sguardo dei genitori o, nel suo caso, del nonno“. Bisio, con il suo co-sceneggiatore Fabio Bonifacci, ha fatto propria questa frase costruendo una favola che, come tutte le favole che si rispettino, abbia in sé innumerevoli elementi di verità. Perché i tre protagonisti, come ogni bambino, hanno mutuato la lettura della realtà da chi li ha educati. Se Cosimo ha un padre al confino e un nonno che vuole evitare ulteriori guai e Italo ne ha uno decisamente fascista, Vanda di padri (e di madri) non ne ha o, meglio, ne ha una che non avrebbe il diritto di esserlo: suor Agnese. A lei si aggiunge il fratello di Italo ‘eroe’ ferito in guerra. Le divisioni degli adulti non riescono però a scalfire l’innocenza dei piccoli. L’amicizia va oltre l’ideologia mettendola in secondo piano. Bisio guarda ai suoi giovanissimi e straordinari protagonisti con il desiderio di fare un film che arrivi al pubblico più vasto senza però scegliere soluzioni facili o scorciatoie narrative anche quando modifica, come è necessario fare, elementi anche importanti del romanzo. Si sente in lui la capacità di creare coesione al progetto che solo i bravi attori riescono ad ottenere da coloro che hanno scelto per trasformare la loro visione in gesti, parole, esternazione di sentimenti.

Si comprende anche come abbia alle spalle una profonda conoscenza della commedia italiana degli anni Sessanta (e non solo) di cui coglie, in alcune scene, lo spirito senza per questo né fare falsi omaggi né realizzare copie conformi. Si consente inoltre anche un paio di battute che lo spettatore più accorto saprà decodificare con divertimento in un’Europa che dal febbraio 2022 è tornata a doversi misurare con la
concretezza di una guerra: in questo senso il film si trasforma in un ammonimento. Lo fa però senza prediche e conservando una struttura binaria decisamente efficace. Se da un lato seguiamo alternativamente l’incedere dei bambini e di chi li vorrebbe raggiungere per riportarli indietro, abbiamo anche l’alternanza tra situazioni divertenti che strappano sorrisi e risate ed altre in cui un profondo senso di umanità si trasforma in commozione senza forzature.
Ognuno di noi ha avuto nella vita il suo momento di passaggio in cui ‘non è stato/a bambino/a’. Qualcuno però sa ancora rinvenire dentro di sé l’innocenza, lo sguardo comunque ancora aperto alla meraviglia che è proprio di quell’età, nonostante tutti i possibili condizionamenti. Bisio c’è riuscito e ha trovato anche il modo migliore per comunicarlo.

Giancarlo Zappoli – MyMovies

L’ultima volta che siamo stati bambini è un’elegia all’amicizia in tempo di guerra e a quella difficile, bellissima lotta che è – in qualsiasi epoca – crescere e diventare adulti. Nel primo film di Claudio Bisio regista, tratto dal libro di Fabio Bartolomei, troviamo
una storia che valeva la pena raccontare.

RECENSIONI
3,3/5 MYmovies
3/5 Movieplayer
3/5 Cinefilos.it

 

LA RAZZIA DEGLI EBREI DI ROMA

Alle 5,30 di sabato 16 ottobre 1943 nelle vie dell’ex ghetto e in altri quartieri di Roma ha inizio la Judenaktion, una delle pagine più terribili della guerra e del fascismo in Italia. L’esplicita richiesta di Hitler e Himmler è il rastrellamento e la deportazione dell’intera comunità ebraica di Roma, la più antica d’Europa e, insieme con quella triestina, la più grande d’Italia.
Alle 14 del «sabato nero» l’operazione è terminata: 1259 fra donne, uomini, vecchi e bambini sono ammassati al Collegio militare della Lungara. Vi restano fino alla mattina di lunedì 18, a eccezione di 237 prigionieri che, classificati come «stranieri» nell’orribile schema persecutorio – vale a dire componenti di unioni fra cristiani ed ebrei, figli di genitori non soltanto ebrei e pochi altri casi – vengono liberati.

 

Dopo più di quattro giorni di viaggio i ventotto vagoni bestiame su cui sono stati caricati giungono ad Auschwitz-Birkenau dove, per l’occasione dell’arrivo degli «ebrei del Papa», è presente sulla Judenrampe il comandante del campo Rudolf Höß.
Per la maggior parte dei prigionieri, 820, i tedeschi decretano la morte immediata nelle camere a gas mentre 149 uomini e 47 donne sono avviati ai lavori forzati.
La deportazione degli ebrei italiani, avviata il 16 ottobre e proseguita in tutto il paese nei mesi successivi, rappresenta l’inevitabile punto d’arrivo del tragico percorso intrapreso dallo stato italiano nel 1938 con l’introduzione delle leggi razziali, grazie alle quali si realizza, tra le altre nefandezze, quel censimento degli ebrei che sarà molto utile ai nazisti per compiere i loro rastrellamenti. Treni carichi di ebrei italiani giungeranno ad Auschwitz-Birkenau, centro di sterminio per i deportati dell’Europa meridionale, fino al 28 ottobre 1944.

 

Fino all’estate 1943 questo scenario era sembrato lontano. L’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica Sociale sono i lampi che squarciano definitivamente le illusioni delle comunità ebraiche italiane di vivere in un paese in cui l’antisemitismo è meno radicato e violento rispetto all’Europa orientale, da cui giungono voci cui nessuno vuole credere, e di risiedere in una città che può contare sull’«ombra» protettiva del Papa.
La gioia per la caduta del regime fascista, il 25 luglio, lascia presto il campo alla preoccupazione e, non appena Roma si riempie di truppe tedesche, l’aria si fa pesante. Il 26 settembre il comandante della Gestapo a Roma, Herbert Kappler, convoca i rappresentanti della comunità ebraica, Foà e Almansi, minacciando deportazioni in caso della mancata consegna di 50 chili d’oro entro due giorni.

 

Grazie alla solidarietà della cittadinanza romana l’oro viene consegnato ma nei giorni seguenti il saccheggio continua: dal Tempio Maggiore, dalle biblioteche della Comunità e del Collegio Rabbinico le SS prelevano antichi manoscritti e incunaboli insieme ad altri oggetti di inestimabile valore culturale, nel totale silenzio delle autorità italiane e cattoliche. I numerosi episodi di coraggio e solidarietà dimostrati da singole persone non bastano a lavare l’onta della complicità italiana nei saccheggi e nelle deportazioni: ufficiali di polizia italiana supportano le operazioni prima, durante e dopo il 16 ottobre, nelle settimane successive si moltiplicano le delazioni e le denunce mentre la RSI ordina l’arresto di tutti gli ebrei e l’internamento nei primi campi di concentramento italiani come quello di Fossoli.

Alla fine della guerra su 2091 deportati da Roma fanno ritorno 78 uomini e 28 donne. In un anno nel lager di Auschwitz-Birkenau arrivano più di 6500 cittadini italiani, 5578 per non fare mai ritorno.

Fonte: Museo Nazionale della Resistenza

 

IL LIBRO DIETRO AL FILM

L’ULTIMA VOLTA CHE SIAMO STATI BAMBINI di Fabio Bartolomei

Per ribellarsi alle leggi della guerra bisogna essere folli. O bambini.
Un romanzo emozionante fino all’ultima pagina, personaggi dalla vitalità contagiosa che vivranno a lungo nel cuore dei lettori di tutte le età.

Un bel libro, con dei personaggi che crescono e prendono consapevolezza della loro vita e mettono in dubbio tutte le loro certezze.

Dall’epilogo:
TRA LE 2091 PERSONE DI RELIGIONE EBRAICA DEPORTATE DURANTE L’OCCUPAZIONE DI ROMA C’ERANO ANCHE 281 BAMBINI. NESSUNO DI LORO È TORNATO.

 

Fabio Bartolomei è nato nel 1967 a Roma, dove vive. Scrittore poliedrico, è un affermato pubblicitario e autore di sceneggiature. Nel 2004 ha vinto il Globo d’Oro con il cortometraggio Interno 9. Nel 2011 si è fatto conoscere dal pubblico dei lettori con il suo romanzo Giulia 1300 e altri miracoli da cui è stato tratto il film Noi e la Giulia, diretto da Edoardo Leo. Insegna scrittura creativa. La banda degli invisibili è del 2012.

Altre sue opere sono We Are Family, Lezioni in Paradiso, La grazia del demolitore, L’ultima volta che siamo stati bambini, da cui è stato tratto un film con la regia di Claudio Bisio, e le novelle che compongono la Quadrilogia della famiglia, ovvero Morti ma senza esagerare, Diciotto anni e dieci giorni, Tutto perfetto tranne la madre, Il figlio recidivo e infine nel 2023 pubblica il romanzo I qui presenti.

 

 

MGF

GLI ASSASSINI DELLA TERRA ROSSA

 

Negli anni Venti la popolazione più ricca d’America erano gli indiani Osage dell’Oklahoma: nel momento in cui gli idrocarburi stavano per diventare la risorsa più importante del pianeta, sotto il loro suolo furono trovati enormi giacimenti. Giravano in auto di lusso, vivevano in case faraoniche, mandavano i figli a studiare nelle migliori scuole d’Europa.
Poi, a uno a uno, iniziarono a morire ammazzati, avvelenati, vittime di agguati e imboscate, sempre in circostanze misteriose. E in questo strascico di ‘vecchio west’  chiunque osasse investigare finiva anch’egli sottoterra.
Quando le morti superarono le due dozzine il caso fu preso in mano dall’FBI, appena nato, diretto da un giovane e ancora inesperto J. Edgar Hoover. Fu messa insieme una squadra di investigatori di origine indiana: si infiltrarono, alcuni finirono male, comunque adottarono tutti i mezzi più o meno leciti a loro disposizione per portare alla luce una cospirazione agghiacciante.
David Grann, dopo anni di ricerche, ci consegna questa vicenda che è riuscito a trasformare in un libro mozzafiato, da leggere come un thriller, una spy story. Un brillante scorcio di una maledetta storia americana.

«Gli assassini della terra rossa è splendido, una storia di avidità, omicidi e razzismo che porta alla luce un episodio rimosso di storia americana. David Grann è uno scrittore eccezionale e questo è il miglior libro che abbia mai scritto.» – Jon Krakauer

«David Grann porta alla luce una serie impressionante di omicidi avvenuti quasi un secolo fa nel racconto potente di un capitolo tragico e dimenticato della storia del west.» – Jon Grisham

«Se Gli assassini della terra rossa fosse un romanzo si resterebbe stupefatti dalla capacità di David Grann di creare una trama così intrigante e ricca di colpi di scena. Ma è una storia vera, scritta dopo anni di meticolose ricerche, ed è proprio questo che lo rende un mystery affascinante e un’indagine nel cuore nero dell’uomo. » – Kate Atkinson

«Un ‘thriller’ sconvolgente. Da grande narratore, David Grann sa come far rivivere epoche e delitti del passato e rivela una vera e propria cospirazione ai danni di una nazione indiana.» – USA TODAY

DAVID GRANN

 

David Grann è una firma della prestigiosa rivista New Yorker e scrive per il New York Times Magazine, The Atlantic, il Washington Post e il Wall Street Journal. Il suo primo libro, Civiltà perduta, è diventato un bestseller da oltre mezzo milione di copie e un film, ed è stato pubblicato in Italia da Corbaccio, che ha pubblicato anche Il demone di Sherlock Holmes, Il vecchio e la pistola (da cui è stato tratto un film con Robert Redford) e Gli assassini della Terra Rossa, che è diventato Killers of the Flower Moon diretto da Martin Scorsese con Leonardo DiCaprio, e L’oscurità bianca.

 

 

 

SUNDOWN

Challenge Windzer, il sangue misto protagonista di questo avvincente romanzo autobiografico, è nato all’inizio del XX secolo “quando il dio dei grandi Osage dominava ancora sulle praterie selvagge e sulle colline del blackjack” del territorio nordorientale dell’Oklahoma. Definito da suo padre come “una sfida ai diseredatori del suo popolo”, Windzer trova difficile realizzare il suo destino, nonostante i soldi del petrolio, l’istruzione universitaria e le opportunità offerte dalla Grande Guerra e dai ruggenti anni Venti. I critici hanno elogiato generosamente Sundown , sia come opera letteraria che come scordio sul passato dei nativi americani.

JOHN JOSEPH MATHEWS

John Joseph Mathews (1894–1979) è uno degli autori del XX secolo più venerati dell’Oklahoma. Un indiano Osage, fu anche uno dei primi autori indigeni a ottenere fama nazionale. Eppure la fama non arrivò facilmente a Mathews e la sua personalità era piena di contraddizioni.

Conosciuto come “Jo” da tutti i suoi amici, Mathews aveva un’identità sfaccettata. Romanziere, naturalista, biografo, storico e ambientalista tribale, era un vero “uomo di lettere”.

Nato nella città di Pawhuska nel territorio indiano, Mathews ha frequentato l’Università dell’Oklahoma prima di avventurarsi all’estero e conseguire una seconda laurea a Oxford. Prestò servizio come istruttore di volo durante la prima guerra mondiale, viaggiò attraverso l’Europa e l’Africa settentrionale e comprò e vendette terreni in California. Orgoglioso Osage che si dedicò a preservare la cultura Osage, Mathews fu anche consigliere tribale e storico culturale per la nazione Osage.

Come molti artisti di talento, Mathews non era privo di difetti. E forse agli occhi di alcuni critici occupa uno spazio nebuloso nella storia della letteratura. La storia raccontata nel suo romanzo semiautobiografico Sundown è anche la storia della nazione Osage, dello stato dell’Oklahoma e dei nativi americani nel ventesimo secolo.

MGF

 

 

 

 

 

 

 

Regia di Martin Scorsese – USA, 2023 – 206′
con Leonardo DiCaprio, Lily Gladstone, Robert De Niro

 

 

 

 

 

 

 

OMICIDIO, TESTIMONIANZA, COLPA

Ispirato al libro di David Grann Gli assassini della terra rossa, Killers of the Flower Moon è ambientato nell’Oklahoma degli anni ’20. Se nel
romanzo il punto di maggior interesse è la nascita dell’FBI, con il personaggio dell’agente Tom White al centro di tutto, a Scorsese invece non interessa molto la legge. E soprattutto non una crime story come tante. No. Il regista di New York vuole il sangue e il sudore, il marcio, le contraddizioni. Non un uomo integerrimo col distintivo.
Ecco quindi che Scorsese sposta il punto di vista al viscido e mediocre Ernest Burkhart. DiCaprio non è mai stato così sgradevole: proprio come chi, per convenienza e mancanza di talento, segue un capo sempre e comunque, non fermandosi di fronte a crimini terribili e negando la verità fino all’ultimo, anche davanti all’evidenza. Perché in realtà sta mentendo a se stesso. Il capo in questione qui è William Hale (Robert De Niro), che, come prima cosa, dice sia a Ernest che agli spettatori: “puoi chiamarmi zio, o puoi chiamarmi re”, mettendo subito in chiaro come stanno le cose.

In gioco c’è il petrolio degli Osage, diventati i più ricchi cittadini americani e per questo destinati a essere sterminati dall’avidità dell’uomo bianco. In Killers of the Flower Moon Robert De Niro e Leonardo DiCaprio, gli attori simbolo di Scorsese, portano su di sé il peso dell’intera filmografia del regista. E anche del peccato originale degli Stati Uniti: il sogno americano non soltanto è un miraggio, ma è un incubo pagato col sangue dei non bianchi. Ernest viene infatti spinto dallo zio a sposare Mollie (Lily Gladstone), ricca Osage che, come le sue tante sorelle, soffre di diabete. Tutte le donne della sua famiglia, non sanno nemmeno loro bene perché, sono attratte da uomini bianchi, che le hanno sposate per interesse in modo da mettere le mani sulla loro eredità.
Quando incontra Ernest, Mollie ammette che ricorda un coyote: “il coyote vuole i soldi”, gli dice.
E anche Ernest ama Mollie, ma non riesce a sottrarsi alla volontà di Hale, dissociando completamente la sua parte legata alla moglie da quella pronta a sterminare un’intera popolazione semplicemente perché “ha fatto il suo tempo”. È questa la complessità che interessa a Scorsese, è questo il più grande dei misteri: le contraddizioni dell’animo umano.
C’è tutto il cinema di Scorsese in Killers of the Flower Moon: è un gangster movie, un film spirituale, un western, un crime. In 3 ore e 30, che scorrono magnificamente, il regista ripercorre tutta la sua carriera, questa volta assumendosi la responsabilità del mondo che ha sempre raccontato. Lui mostra i criminali, gli uomini affamati di potere, ma mai come questa volta ne è lontano: li rappresenta ottusi, senza nessun fascino. Il centro emotivo e morale sono invece Mollie e le sue sorelle: nella dignità della donna, nella sua capacità di rispondere con empatia
alle persone che la circondano, è lei la vera ricchezza della Nazione Osage, sprecata e calpestata da chi non riesce a capirlo. Lì dove Mollie è la speranza, la vita, Ernest è l’autodistruzione. Come un veleno, il capitalismo ha reso malata la società americana.
Killers of the Flower Moon è grande anche grazie al ricco e magnifico cast. De Niro è alla prova migliore da anni, DiCaprio evoca Brando, quello più logoro e decadente, Lily Gladstone è perfetta e già in lizza per una nomination all’Oscar.
“Le persone se ne fregano” dice un personaggio. Una cosa che invece sarà sempre al centro di tutto sono le storie: come nello splendido finale, in cui Scorsese sembra dire “i fatti sono questi, ma c’è sempre un punto di vista interessante da cui raccontarli“. E il suo è sempre stato quello più difficile e scomodo. Scorsese ha il coraggio di essere se stesso, senza paura. Nel bene e nel male.7

Valentina Ariete – Movieplayer.it

Recensioni
9,5/10 IGN Italia
5/5 Cineforum
9,5/10 Everyeye Cinema

GLI OSAGE

Agli inizi del XX secolo, in un territorio desolato e poco ospitale, la vita dura e stentata di un popolo di nativi americani, gli Osage, sembrò trasformarsi in una favola: la scoperta del petrolio sotto il territorio della loro riserva li fece diventare le persone con maggiore ricchezza pro capite al mondo.
Finché non cominciarono a essere assassinati…Fine della favola e inizio di una storia di violenza, soprusi e insabbiamenti che, anche negli Stati Uniti, pochi ricordano. Eppure, quando i morti ammazzati arrivarono a superare le due dozzine, si occupò del caso un’organizzazione anticrimine appena nata, il Bureau of Investigation, che sarebbe poi diventata l’FBI.

 

Gli Osage, che durante il periodo di colonizzazione francese erano diventati una nazione potente grazie al commercio di pellicce e schiavi, si trovarono a essere cacciati dai loro territori, quando questi entrarono a far parte degli Stati Uniti.
Nei primi anni ’70 del XIX secolo, dopo essere stati sempre più sospinti verso ovest, agli Osage venne assegnato un territorio roccioso e poco coltivabile, in quello che oggi è l’Oklahoma.
A cavallo del nuovo secolo, proprio sotto quella sterile terra apparentemente senza valore, furono scoperti dei giacimenti di petrolio. Per estrarre il prezioso oro nero, i petrolieri dovevano pagare i diritti di sfruttamento a ciascuno dei 2000 membri della tribù, e ai loro successivi eredi legali, anche se non appartenenti alla Nazione Osage.
La tribù divenne improvvisamente “la nazione più ricca, il clan o gruppo sociale di qualsiasi razza sulla terra, compresi i bianchi, uomo per uomo”.

Gli Osage viaggiavano per la contea su automobili con autista (bianco), personalizzate con iniziali in oro. Mandavano i loro figli in prestigiosi college, spendevano mille dollari (di allora) al mese per fare la spesa.
Tutti i membri, indistintamente, godevano di quella ricchezza (nel 1923 complessivamente la tribù ebbe un reddito pari a 400 milioni di dollari odierni), anche le donne, che avevano, e hanno, pari diritti tra gli Osage. Il territorio della riserva era stato infatti diviso fra ciascun appartenente alla tribù, bimbi piccoli compresi.

Ritenendo che gli Osage non fossero in grado di gestire tutta quella ricchezza, per via dei pregiudizi razzisti, il Congresso degli Stati Uniti approvò una legge che prevedeva l’assegnazione di un tutore a ogni persona che aveva «almeno il 50 per cento di sangue Osage». Gli altri potevano gestire le proprie finanze autonomamente, a meno che non fossero minori, a cui veniva assegnato un tutore indipendentemente dalla loro discendenza e anche se i genitori erano ancora vivi. I tutori erano di solito avvocati o uomini d’affari bianchi trasferitisi nella zona, che iniziarono ad approfittarsi della legge per arricchirsi a discapito degli Osage. Alcuni tutori però non si limitarono a questo, e iniziarono a uccidere o a ordinare l’omicidio degli Osage che erano stati affidati loro, in modo da ereditarne le terre. Solo fra il 1921 e il 1923 ci furono 13 morti sospette o palesi omicidi di uomini e donne Osage che avevano un tutore, ma entro il 1925 i morti erano diventati diverse decine. Spesso le persone venivano avvelenate o uccise a colpi di pistola, ma in un caso fu anche fatta esplodere una bomba in una casa. A uccidere le donne erano spesso i loro mariti bianchi. Dato che l’eredità di un Osage, prima di andare al tutore bianco, passava ad altri famigliari, furono anche uccise intere famiglie. I giornali del tempo chiamarono questo periodo il “Regno del Terrore”.

Per accedere allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio si tenevano regolarmente delle aste nella città di Pawhuska, e all’ombra di un grande albero (poi chiamato Million Dollar Elm) petrolieri rampanti come JP Getty e Frank Phillips si contendevano le concessioni a suon di milioni di dollari. Insieme ai soldi arrivò anche “il regno del terrore di Osage”. Nel 1921 una donna della tribù, Anna Brown, fu trovata morta in fondo a un burrone; nel 1925, quando l’FBI iniziò le indagini, 60 ricchi indiani erano stati assassinati, e le loro terre erano state affidate, guarda caso, ad avvocati o a uomini d’affari locali.

 

C’erano molti modi per uccidere gli indiani e prendere i loro soldi: stipulare una polizza assicurativa e poi eliminare il contraente, assoldando qualche piccolo delinquente per la modica cifra di 500 dollari e un’auto usata; si poteva mettere del veleno nel liquore che bevevano al pub, contando sulla benevolenza del medico legale, che avrebbe archiviato le morti come accidentali, per uso di whisky contaminato.
Oppure si poteva contrarre un conveniente matrimonio: per mantenere il controllo del territorio all’interno della tribù, le quote di proprietà non potevano essere vendute dagli Osage ai coloni bianchi, che però potevano ereditarle. Questo spiega perché all’epoca ci furono tanti matrimoni misti.
Mollie Burkhart, per esempio, si era sposata con un colono bianco, Ernest Burkhart. Sua sorella, Anna Brown, scomparve in una notte di maggio del 1921, e il suo corpo fu poi trovato in fondo a un burrone. Due mesi dopo morì la madre di Mollie e Anna, probabilmente avvelenata. C’era poi una terza sorella, Rita, che morì nell’esplosione della sua casa, insieme al marito e alla cameriera.
Se qualcuno cercava di indagare sulle morti sospette, veniva fatto fuori, come accadde all’avvocato WW Vaughan, che fu gettato da un treno in corsa. Il petroliere Barney McBride, che aveva accettato di farsi portavoce degli Osage per richiedere l’intervento dell’FBI, fu ucciso con venti pugnalate.

Alla fine, il direttore del Bureau of Investigation mandò a indagare un ex ranger del Texas, Tom White, che si servì di agenti sotto copertura, tra i quali c’erano anche dei nativi. White scoprì che molte delle vittime erano morte in seguito a un orrendo piano ben orchestrato. Ernest Burkhart, marito di Mollie, era nipote di William K. Hale, il “diavolo” che si era autoproclamato “Re delle colline di Osage”, mente del complotto organizzato per impossessarsi delle ricchezze della tribù attraverso gli omicidi.

 

Alla morte della madre e delle sorelle, oltre che di un altro parente, Mollie ed Ernest ereditarono una fortuna. La donna non sarebbe sopravvissuta a lungo (presentava i primi sintomi da avvelenamento) se White, nel 1926, non avesse arrestato Burkhart e Hale, insieme ad altri complici. Burkhart, Hale e altre due persone furono processate per singoli omicidi, e tutti condannati all’ergastolo, nel 1929. Peccato che poi nessuno di loro finì i suoi giorni in prigione…
Purtroppo, rimasero irrisolti numerosi casi di omicidio, in particolare quelli di donne sposate con uomini bianchi, mentre si suppone che molte morti furono archiviate come naturali o suicidi, quando le vere cause erano altre: avidità, invidia e disprezzo. Uno degli accusati si giustificò dicendo che “i bianchi dell’Oklahoma non ci pensavano a uccidere un indiano più di quanto facessero nel 1724”. Secondo il Ministero della Giustizia, quello di Osage fu “il capitolo più sanguinoso della storia del crimine americano”.

GLI OSAGE OGGI

 

Negli anni ‘30 John Joseph Mathews scrisse il romanzo “Sundown” (1934), che affrontava le sfide culturali che la tribù stava affrontando a causa dell’incursione della modernità nelle loro tradizioni. Durante gli anni ’60 e ‘70, molti Osage si unirono alle marce per i diritti civili e divennero attivi nella difesa dei loro diritti tribali.

 

 

 

Negli anni ’90, gli Osage guadagnarono attenzione a livello nazionale quando decisero di riacquistare parte delle loro terre ancestrali.
Nel 2004, la tribù ottenne il controllo diretto delle proprie risorse finanziarie dopo anni di sforzi e trattative. Questo passo segnò un importante passo verso l’autodeterminazione e la sovranità tribale.
Negli ultimi anni, la tribù Osage ha continuato a investire nelle infrastrutture e nei servizi per la comunità, inclusi programmi di istruzione, assistenza sanitaria e programmi culturali.

 

 

 

 

La loro nazione rimane impegnata nella tutela della lingua Osage, promuovendo corsi di apprendimento e iniziative di conservazione linguistica.
Oggi la Nazione Osage è una tribù federalmente riconosciuta negli Stati Uniti. Attualmente la maggior parte degli Osage vive nella Riserva Osage che corrisponde alla Contea di Osage nello stato dell’Oklahoma.

 

 

 

Fonti varie

MGF

 

COMANDANTE
Regia di Edoardo De Angelis – Italia, 2023 – 120′
con Pierfrancesco Favino, Massimiliano Rossi, Johan Heldenbergh

 

 

 

 

 

IL GIUSTO E LO SBAGLIATO NELL’ABISSO DELLA STORIA

Nell’oggettività storica, che resta fondamentale, il film di Edoardo De Angelis potrebbe essere meno controverso di ciò che mette in scena,
prendendosi la briga di raccontare una storia – o meglio un personaggio – estremamente interessante, appartenuto ad un’altra epoca e ad
un’altra Italia. È meno controverso di ciò che sembra, perché dietro l’altisonante titolo, Comandante, viene messo in scena il confine sfocato
tra il giusto e lo sbagliato (dettato dalle gesta, e non dagli ordini militari), in un contesto storico in cui il male imperversava sul bene.

Epoca di guerre mondiali, di ideologie, di popoli gli uni contro gli altri, in cui le leggi del potere incrinavano le leggi divine.
Avvolto da una coltre cupa, quasi horror, e volutamente claustrofobica, Comandante riporta in superficie nobiltà disobbedienti e lo spirito umano, nel bel mezzo di un conflitto terrificante. Ma ogni guerra è fatta dalle storie degli uomini, pedine di uno scacchiere in cui il potere schiacciava qualsiasi bagliore di luce. La stessa luce che De Angelis risucchia nelle profondità dell’Oceano, solcato da un “pesce d’acciaio” pieno di “uomini che vanno a morire”. Uomini che De Angelis tratteggia come se fossero un sunto dell’Italia, pregi e difetti compresi. C’è l’umanizzazione, quindi, ma c’è anche la presa di coscienza di narrare una storia inerente al contesto storico, ma in qualche modo avulsa per
l’umore e le caratteristiche del suo ingombrante protagonista, sorretto da un fascino cinematografico che catalizza l’attenzione. Fascino dovuto anche alla presenza di Pierfrancesco Favino, che indossa la maschera con l’accento veneto di Salvatore Todaro, comandante del
sommergibile Cappellini della Regia Marina.

Siamo nel 1940, e mentre risale l’Atlantico, passando lo Stretto di Gibilterra, si imbatte in un mercantile battente bandiera belga. Scontro a fuoco, missili che fischiano, l’oceano che ribolle. Esperto marinaio, uomo di mare, Todaro affonda la barca e, seguendo le leggi auree del mare, salva i ventisei superstiti, portandoli poi verso il porto sicuro più vicino. Un frammento di storia dimenticata, la parentesi fugace di una Guerra Mondiale portata all’estremo, in cui il gesto umano di un fascista diventa materiale per un film che sfrutta la messa in scena immersiva per addentrarsi nelle caratteristiche di un uomo ancora prima che di un militare: Todaro era un devoto alle leggi del mare, rispondendo prima alla sua coscienza, e solo dopo agli ordini del potere.

L’intento di Edoardo De Angelis in Comandante, dunque, è un pretesto per parlare di umanità, rintracciata anche dove non dovrebbe esserci. Eppure, la bellezza di un gesto compassionevole (e di rottura), soppesando i libri di storia, dovrebbe sempre essere valutato per il gesto in sé, provando – per quanto possibile – a mettere da parte il giudizio. Ciò che viene fuori allora è la moralità di un personaggio, intransigente verso se stesso e incongruente verso gli aberranti dogmi dell’asse Roma-Berlino. La solida e istantanea regia di De Angelis sfrutta l’ottimo sound
design, l’opprimente scenografia d’acciaio, e se il personaggio è chiaramente il traino, Comandante potrebbe però non approfondirlo il necessario nei suoi aspetti più arcani, nei suoi tormenti, nella sue occulte ossessioni. Ma ciò che resta alla fine di Comandante è l’analisi logica del paradigma biforcato: il giusto e lo sbagliato non hanno bandiere, non hanno colori, non hanno confini. Né ieri, né tantomeno oggi.

Damiano Panattoni – Movieplayer

Un’opera piena di significato, che ridefinisce gli equilibri di una guerra, con una straordinaria interpretazione di Favino

Recensioni
3,4/5 MYmovies
7/10 Everyeye Cinema
3/5 Movieplayer

 

SALVATORE TODARO (1908 – 1942)

Nato a Messina nel 1908 da famiglia di origine agrigentina, Salvatore Todaro cresce a Sottomarina di Chioggia, dove sviluppa la passione per il mare. La vicenda di Salvatore Todaro è straordinaria. Entrato all’Accademia navale di Livorno nel 1923, nominato guardiamarina nel 1927 e tenente di vascello l’anno successivo, dopo un corso specifico venne assegnato a un reparto idrovolanti come osservatore. Il 27 aprile 1933, a La Spezia, il suo aereo (un Savoia-Marchetti S.55) ebbe un incidente, e Todaro subì una grave lesione alla colonna vertebrale: chiese e ottenne di restare in servizio attivo, ma da allora fu costretto a portare un busto in ferro che gli causava sofferenze tali da costringerlo in casi estremi a ricorrere alla morfina. Passato ai sommergibili, nel maggio del 1937 gli venne affidato il battello costiero H.4, e poi – sempre durante la Guerra Civile Spagnola – il Macallè e il Jalea, classificati “da piccola crociera”.

 

Il 1° luglio 1940, meno di un mese dopo l’entrata in guerra del Regno d’Italia contro l’impero britannico e la Francia, Todaro fu promosso capitano di corvetta al comando del Luciano Manara; finalmente, dal 26 settembre, gli venne affidato il nuovo sottomarino oceanico  Cappellini, una delle 11 unità della classe Marcello, che rappresentava allora il meglio di cui disponesse la flotta sommergibili della Regia Marina: 73 metri di lunghezza e 1.060 tonnellate di dislocamento in emersione, armato con due cannoni da 100 mm in coperta, due impianti binati di mitragliatrici antiaeree Breda da 13,2 mm e otto tubi lanciasiluri da 533 mm, con una dotazione di 16 siluri.

 

Il Cappellini salpò da La Spezia il 28 settembre 1940 diretto alla nuova base dei sommergibili italiani a Bordeaux (nome in codice Betasom); Todaro riuscì a forzare lo stretto di Gibilterra – sfuggendo ai cacciatorpediniere britannici e ai campi minati – e iniziò la sua prima crociera atlantica il 3 ottobre. Dodici giorni dopo, alle 23:15 del 15 ottobre, navigando in superficie, il Cappellini avvistò una nave che procedeva a luci spente; Todaro decise di attaccarla, benché non fosse certo della sua nazionalità, visto che alle navi neutrali era vietato procedere in oscuramento totale: “È una nave con un cannone che naviga a luci spente in zona di guerra. Io la affondo”.

Ben presto si trovò preso di mira dal pezzo di coperta del mercantile. Il Cappellini manovrò per offrire il minimo bersaglio al nemico, contemporaneamente portando in batteria entrambi i cannoni da 100 mm, che colpirono più volte la nave, incendiandola. Finalmente Todaro poté distinguerne il nome e la bandiera: era il Kabalo, piroscafo belga di 5.186 tonnellate di dislocamento. Un mercantile di un Paese ancora neutrale.

 

Quando il Kabalo andò a fondo, gli uomini del Cappellini avvistarono prima cinque uomini in acqua, prontamente recuperati, poi una lancia con 21 persone a bordo, tra cui il comandante del mercantile, il capitano Georges Vogels. Todaro prese allora una decisione coraggiosa, che andava contro gli ordini cui dovevano attenersi i sottomarini in zona di guerra: non abbandonare i naufraghi, ma rimorchiare la scialuppa fino al porto sicuro più vicino, nelle Azzorre, distante quasi 400 miglia. Per procedere più rapidamente, Todaro fu costretto dopo un giorno di navigazione ad accogliere a bordo tutti i superstiti del Kabalo, molti sistemati nella falsatorre di coperta: da quel momento il Cappellini procedette in condizioni di sovraffollamento tali da impedire l’immersione, una scelta che esponeva il sommergibile alla distruzione certa qualora avesse incontrato unità di superficie o aerei nemici. Cosa che accadde davvero il mattino del 18 ottobre, quando incrociò la rotta di un convoglio inglese: ma Todaro, dopo essere stato bersagliato da una delle navi di scorta, trasmise un messaggio in chiaro in cui spiegava la situazione – aveva naufraghi belgi a bordo, e stava navigando per portarli in salvo, quindi chiedeva… una tregua. Il commodoro britannico si fidò di lui, diede ordine di cessare il fuoco e lo lasciò passare.

Il Cappellini raggiunse le Azzorre all’alba del 19 ottobre; tutti i superstiti del Kabalo vennero sbarcati sani e salvi e sopravvissero alla guerra.

Per questo venne redarguito dal comandante in capo dei sommergibilisti tedeschi, Karl Dönitz, che lo apostrofa con l’epiteto di “Don Chisciotte dei mari”. La replica di Todaro è secca: “Sono un italiano, ho duemila anni di civiltà sulle spalle, e queste cose continuerò a farle”.

Dopo una seconda crociera in Atlantico, durante la quale affondò prima il mercantile armato Shakespeare (5 gennaio 1941) e poi il piroscafo Eumaeus, adibito al trasporto truppe (14 gennaio 1941), entrambi britannici ed entrambi a cannonate (Todaro era uno strano sommergibilista, visto che si fidava poco dei siluri), chiese e ottenne di essere trasferito alla Xa flottiglia MAS. Nonostante i successi, e i pericoli costanti delle operazioni nell’oceano, Todaro cercava un altro tipo di combattimento: era fatto per guidare uomini e mezzi all’assalto in superficie, e poté farlo durante il duro assedio di Sebastopoli, in Crimea, dove si guadagnò la terza medaglia d’argento al valore militare (giugno 1942).

Rientrato brevemente in patria, nel novembre 1942 venne assegnato al comando del motopeschereccio armato Cefalo che operava dall’isola di La Galite, a nord della costa della Tunisia: qui pianificò un audace attacco contro la base nemica di Bona. Al termine della missione, mentre rientrava in porto, nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1942 il Cefalo venne mitragliato a bassa quota da uno Spitfire britannico. Todaro rimase ucciso da una scheggia. Il comandante, cui venne conferita la Medaglia d’oro al Valor militare alla memoria, è sepolto a Livorno, dove abita la seconda figlia, venuta alla luce dopo la sua morte. Il suo ricordo e il suo esempio sono vivi nella Marina militare grazie al sottomarino S-526 Salvatore Todaro, entrato in servizio nel 2006.

Di personalità poliedrica e anticonformista, Todaro era monarchico convinto e cattolico osservante ma aveva anche approfondito pratiche eterodosse ed esoteriche come lo yoga, l’occultismo e lo spiritismo, delle quali si serviva durante le missioni. È stato soprannominato “Mago Baku” dall’equipaggio sul Cappellini a causa delle intuizioni improvvise grazie alle quali è riuscito più volte a salvare l’imbarcazione.
Sposato nel 1933 con Rina Anichini, ha avuto due figli: Gian Luigi(1939-1992) e Graziella Marina (1943), nata pochi mesi dopo la sua morte.

A lui sono intestate una piazza e una scuola primaria di Chioggia. Nel 2023 la Fondazione Gariwo lo ha inserito nell’Enciclopedia dei Giusti dell’Umanità e un olivo sarà piantato in suo onore nel Giardino dei Giusti di Civitavecchia.

Alla sua morte, tra i suoi effetti personali viene rinvenuta la lettera che gli era stata scritta due anni prima dalla moglie di un marinaio dell’equipaggio di una nave nemica: “Esiste un eroismo barbaro e un altro davanti al quale l’anima si mette in ginocchio: il vostro. Siate benedetto per la Vostra bontà che ha fatto di Voi un eroe non soltanto dell’ Italia ma dell’umanità intera”

Morirò quando il mio spirito sarà lontano da me.
S. Todaro

 

Fonti: FOCUS STORIA – MARINA MILITARE – FONDAZIONE GARIWO

MGF

 

 

C’è ANCORA DOMANI
Regia di Paola Cortellesi – Italia, 2023 – 118′
con Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Emanuela Fanelli

 

 

 

 

 

UN ESORDIO AUTORIALE E DIVULGATIVO CHE È PURA EMANAZIONE DEI CODICI ETICI ED ESTETICI DELLA SUA AUTRICE.

Quando, nel 1977, Ettore Scola si intrufolò all’interno di un caseggiato popolare nei primi minuti de Una giornata particolare, lo fece in maniera lenta, calibrata, mostrandoci i dettagli della casa della protagonista, il risveglio della famiglia, le prime faccende domestiche, la colazione, tutti quei riti che sono trasferibili su un piano sociale più grande, gli usi e costumi di un’epoca lontana. Forse Paola Cortellesi aveva in mente la sua lezione quando ha girato il primo atto di C’è ancora domani, l’opera prima dell’attrice romana che ha tutto l’entusiasmo di un debutto cinematografico.
L’ambientazione è simile: le vicende del film di Scola prendono luogo nella Roma fascista, quelle della Cortellesi nella capitale alla vigilia del referendum costituzionale. Ciò che cambia, però, è l’immediata entrata in scena, con la quale Cortellesi intende mettere subito le cose in chiaro: nonostante il bianco e nero e il contesto di povertà, il suo film non vuole essere una mera imitazione dei maestri neorealisti, ma qualcosa di più. Infatti Delia (interpretata da Paola Cortellesi stessa), al risveglio riceve come prima cosa uno schiaffo immotivato dal marito (Ivano, Valerio Mastandrea), più per routine che per altro. Un inizio d’impatto, dunque, il cui effetto però non è drammatico.
Sarà l’unico schiaffo che vedremo per davvero, perché tutti gli altri episodi di violenza saranno mascherati da dei passi a due su note romantiche degli anni ’40 e ’50. È questo il tema portante del film: la violenza domestica che Delia soffre come moglie, la preoccupazione che sua figlia possa affrontare lo stesso destino. Ma anche il diritto allo studio, le piccole e grandi libertà conquistate dalle donne nel corso della storia. Il tutto raccontato con uno spirito moderno e buffo, che cerca di alleviare la drammaticità del personaggio di Delia ma senza renderlo ridicolo.
Quello di C’è ancora domani è un microcosmo di maschere e caricature, in cui ognuno gioca un ruolo ben definito: la figlia maggiore insofferente, il suocero burbero e volgare, il marito orco, le vicine chiassose, l’amica del mercato e così via. Ad essere caricaturali sono soprattutto gli uomini, in particolare il marito-padrone, e ciò forse non è il risultato di una scrittura pigra, ma una scelta ben precisa: se da un lato emerge che anche lui è “vittima”, in un certo senso, dell’educazione di un uomo ben radicato nella cultura patriarcale, dall’altro è chiaro che l’interesse di Paola Cortellesi non è esplorare le radici di una violenza sistemica, ma i suoi effetti. È porre l’attenzione sulle vittime,
insomma.
E, a ben pensarci, è anche il modo di evitare un approccio che, al netto dello spirito leggero del film, rischierebbe di rendere Ivano una figura quasi simpatica. Questo pericolo è largamente evitato, perché il personaggio di Mastandrea ne esce fuori come un uomo sentimentalmente analfabeta e fuori controllo, come l’ostacolo che l’eroina deve superare verso la sua meta finale.
Ad un certo punto, Delia riceve una misteriosa lettera. Chi è il mittente o di cosa si tratta resterà un mistero fino alla fine del film, quando, dopo averci lasciato intendere, sottilmente, che Delia stava tentando la sua fuga, in realtà la protagonista voleva semplicemente andare a votare. Nella sequenza finale, quando Delia viene scoperta dal marito dopo aver votato, un momento musicale dà piena dignità all’importanza di quel momento, al senso di sorellanza tra tutte le donne presenti, alla voglia di rivalsa che no, non porta definitivamente via
Delia da quella prigione domestica. Ma il senso di vincita c’è comunque, per fortuna.
C’è ancora domani ha tutto l’entusiasmo di un’opera prima, tra ispirazioni artistiche e voglia di giocare con diversi linguaggi cinematografici.
Leggero e commovente, una ricetta di evidente successo.
Il segno, questo, che forse c’è ancora tanto bisogno di commozione e di belle storie al femminile.

Carmen Palma – recensione di SentireAscoltare.com

 

LE DONNE DEL ‘900 SONO STATE LE PROTAGONISTE DI UN GRANDE CAMBIAMENTO SOCIALE E POLITICO

Il Novecento è stato definito il secolo delle donne poiché in quel momento storico la vita delle donne ha subito cambiamenti radicali. Il diritto al voto, l’ingresso in politica, l’abolizione del matrimonio riparatore sono state tra le conquiste più importanti per le donne del Novecento.
Nei primi decenni del Novecento accadde qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la vita delle donne: la Prima Guerra Mondiale.

Con lo scoppio della guerra gli uomini dovettero partire per il fronte e nelle città restarono le loro mogli che giocoforza li sostituirono nella società. Quando i soldati fecero ritorno, le donne non vollero riprendere il posto che occupavano prima. Anzi. Le lotte per l’emancipazione femminile conobbero un nuovo impulso e ottennero i primi riconoscimenti.

Nel 1918 il governo britannico concesse alle donne sposate il diritto di votare alle elezioni nazionali. Dieci anni dopo il diritto fu esteso a tutte le donne. Nel 1919 furono le donne tedesche a ottenere il diritto al voto e nel 1920 le donne americane. In Francia le donne poterono votare a
partire dal 1944. In Italia il diritto al voto per le donne fu riconosciuto dalla Costituzione della neonata Repubblica Italiana promulgata nel 1946. Il passo decisivo si avrà nel 1948 quando la Dichiarazione universale dei diritti umani da parte dell’ONU considererà il voto femminile un diritto inalienabile.

La seconda metà del Novecento, segnata dalle grandi contestazioni del Sessantotto, portò alle donne nuove vittorie: l’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto e l’abolizione del matrimonio riparatore.

Le donne del Novecento che ancora oggi ricordiamo perché hanno fatto la storia sono tante in più campi. Ne citiamo solo alcune:


Emmeline Pankhurst, l’attivista e politica britannica a capo del movimento delle suffragette del Regno Unito.

 

 

 

Amelia Earhart, pilota, fu la donna che volò all’altitudine e alla velocità maggiori allora raggiunte,
attraversò in solitaria l’Atlantico nel 1932; icona femminista, scomparve nel Pacifico nel 1937.

 

 

 

Nilde Iotti, la prima donna a ricoprire la carica di presidente della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana.

 

 

 

Tina Anselmi, la prima donna ad aver ricoperto la carica di ministro della Repubblica.

 

 

 

 

 

Marie Curie, la prima scienziata della storia e la prima donna a vincere il premio Nobel.

 

 

Rita Levi Montalcini, alla quale dobbiamo la scoperta e l’identificazione del fattore di accrescimento della fibra nervosa (NGF), ha vinto il premio Nobel per la medicina.

 

 

Margaret Thatcher, soprannominata la Lady di Ferro, è stata una delle donne importanti del 900. Fu la prima donna a guidare il Regno Unito dal 1979 al 1990. Segnò un’epoca, tanto che gli anni ’80 vennero soprannominati “era thatcheriana”.

 

 

Margherita Hack, la prima donna italiana a dirigere l’Osservatorio Astronomico di Trieste dal 1964 al 1987. Oltre la scienza, Hack è ricordata anche per la sua attività sociale e politica e per le battaglie sui diritti civili.

 

 

Coco Chanel, la stilista francese più rivoluzionaria del ‘900

 

 

 

Sally Kristen Ride, la prima astronauta statunitense a raggiungere il 18 giugno 1983 lo spazio.

 

 

 

Frida Kahlo, pittrice messicana, da molti considerata il simbolo del femminismo contemporaneo.

 

 

 

Nel corso dei secoli sono state tantissime le protagoniste femminili che hanno rivoluzionato il mondo, nel campo della politica, della letteratura, della scienza.

Il nostro passato, così come il presente, è ricco di donne che hanno contribuito a scrivere pagine importanti della storia dell’umanità, in molti casi offrendo il loro genio per il progresso sociale e culturale, lanciandosi in imprese davvero titaniche. Il nostro ringraziamento va a tutte loro e al loro coraggio!

Recensioni di C’è ancora domani
3,5/5 Movieplayer
6/10 FilmTV
3,7/5 MyMovies

Paola Cortellesi fa il suo esordio alla regia con un originale dramedy in bianco e nero ambientato nel Secondo Dopoguerra. Il film è stato
premiato al Roma Film Festival ed è campione di incassi al Box Office in Italia

https://www.radiozeta.it/notizie/articoli/cortellesi-ancora-da-record-c-e-ancora-domani-supera-barbie-al-botteghino-italiano/

 

MGF