Regia di James Hawes – USA, 2023 – 110′

con Anthony Hopkins, Helena Bonham Carter, Johnny Flynn

 

 

 

 

 

UN’OPERA CHE SI METTE AL SERVIZIO DELLA STORIA NON SPRECANDO UN SOLO MOMENTO. È UNO DEI FILM PIÙ BELLI SULL’OLOCAUSTO.

1938. Vigilia della Seconda Guerra Mondiale, Nicholas Winton, londinese, 29 anni, agente di borsa, avvertendo la minaccia dell’invasione della Germania di Hitler organizza un piano di salvataggio, noto come “Operazione Kindertransport” per centinaia di bambini, molti di religione ebraica, prima dell’inizio del conflitto. Grazie a Martin Blake, che gli aveva chiesto di andare a Praga per aiutarlo a coordinare le operazioni del Comitato Britannico per i rifugiati della Cecoslovacchia e altre figure centrali come Doreen Warriner e di sua madre Babette che intanto collaborava da Londra, Winton riesce a far partire otto treni con a bordo centinaia di bambini che raggiungono la Gran Bretagna dove vengono ospitati da famiglie affidatarie. Nella seconda metà degli anni ’80, l’impegno di Winton viene finalmente riconosciuto pubblicamente quando ha avuto l’occasione di incontrare quei bambini ormai adulti nel corso della trasmissione della BBC That’s Life!. Alla fine ne ha salvati 669 dai campi di concentramento e verrà denominato come lo “Schindler britannico”.
Proprio come in Schindler’s List di Spielberg, c’è un elenco di nomi da salvare. E come in quel film, anche in questo caso i volti restano subito impressi, dai bambini nel campo di rifugiati in Cecoslovacchia sotto la neve che chiedono la cioccolata a Nicholas, alla dodicenne che porta con sé un neonato, ai genitori che sono costretti a separarsi dai loro figli.
Il primo piano in One Life ha una forza espressiva dirompente proprio perché racchiude la storia di ognuno dei personaggi. James Hawes è al suo primo lungometraggio per il cinema ma sembra che ne ha già girati dieci dopo aver già mostrato le proprie capacità per circa trent’anni come solido regista televisivo.
One Life ridefinisce autonomamente il proprio posto all’interno del “cinema sull’Olocausto”, si sofferma su dettagli fondamentali e inquietanti (la cartina con il piano temporale di espansione di Hitler nel corso degli anni) ma soprattutto ci sono i momenti delle partenze e degli arrivi, tra le stazioni della Cecoslovacchia e di Praga, che sono pagine di grande cinema.
Possono essere un po’ più lunghi (l’affidamento dei bambini alle famiglie inglesi) o anche brevissimi ma che lasciano il segno (l’attesa al binario di un treno che non arriverà mai). Ma già da qui si vede in James Hawes la mano sicura ma al tempo stesso coinvolta dalla storia che racconta, dove le tracce della memoria sono già in quella stanza incasinata della casa di Winton nel 1987.
In più, colpiscono contemporaneamente le prove di Anthony Hopkins e Johnny Flynn (rispettivamente Winton anziano e giovane). Il primo con una maestria e un’intensità che diventa esplosiva nella trasmissione That’s Life! in cui rivede molte delle persone che ha salvato. È una scena cruciale e sconvolgente di cui è già presente un filmato su YouTube. Hopkins sembra riprodurlo con una lezione di tecnica di recitazione mentre in realtà lo reinventa facendo vivere sulla propria pelle quello che il suo personaggio stava provando. Flynn invece è vero in ogni inquadratura e sembra quasi uscire dal documentario di un personaggio.
Non c’è un momento sprecato, ogni inquadratura arriva e colpisce direttamente. Quella di One Life è una storia emozionante raccontata benissimo, con rispetto, pudore e passione, rabbia. Quando il cinema sa mettersi al servizio della Storia. Proprio per questo One Life è già, in qualche modo, un film indimenticabile.

Simone Emiliani – MyMovies


Anthony Hopkins giganteggia nel ruolo di Nicholas Winton, che salvò 669 bambini ebrei prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale: un period drama che inizia in modo scolastico per poi rivelarsi semplice e commovente


La dimensione epica della generosità è una di quelle cose che al cinema funzionano meravigliosamente: la quadratura tra lo sforzo del singolo e la salvezza dei molti trova subito la misura giusta dello schermo, la magnitudo della scossa emotiva necessaria a collocare la Storia nella sua bella cornice da appendere nel salotto della vita quotidiana.


Recensioni
3/5 Cinematografo.it
3,7/5 MyMovies
3,6/5 Sentieri selvaggi

 

NICHOLAS WINTON (1909 – 2015)

Nicholas Winton nasce in Inghilterra nel 1909 da una famiglia ebrea di origine tedesca.
Lavora in diverse banche a Berlino e Parigi. Nel 1938 diventa operatore di Borsa a Londra. Nel mese di settembre dello stesso anno Hitler invade la regione cecoslovacca dei Sudeti. Un amico, che lavora all’ambasciata inglese a Praga, lo coinvolge nell’assistenza ai profughi.
A Praga sono già presenti numerosi volontari che prestano servizio per lo più per militanza politica antinazista, ma Winton non si fa illusioni sul futuro che attende gli ebrei e non intende limitarsi a un’attività di primo soccorso.

 

Trevor Chadwick

 

Operando nella Praga occupata, a continuo rischio di essere arrestato, porta avanti un progetto più ampio: vuole trovare famiglie britanniche che consentano almeno ai bambini di salvarsi, espatriando in Inghilterra. Inizia a cercare famiglie che ospitino questi bambini e ottiene l’approvazione del progetto dal Ministero degli Interni inglese. Mentre rientra a Londra, da dove dirigerà le operazioni nottetempo dopo il lavoro, il suo collaboratore a Praga Trevor Chadwick compila una lista di bambini pronti a partire.

 

 

 

 

È l’inizio dei Kindertransport, otto viaggi in treno attraverso tutta l’Europa che permetteranno il salvataggio di 669 bambini. I salvataggi si interrompono il 3 settembre 1939, quando il nono treno in partenza da Praga viene bloccato perché è scoppiata la guerra. Durante il conflitto Winton combatte nella Royal Air Force conseguendo il grado di Ufficiale aeronautico. In tempo di pace osserva il più stretto riserbo sulla sua vicenda finché, nel 1988, la moglie Greta non scopre un suo taccuino con annotati tutti i nomi dei bambini salvati e i dati delle famiglie che li hanno accolti.

 

 

Da quel momento Winton diventa un personaggio molto popolare ed è candidato diverse volte al Premio Nobel per la Pace. Nel 2003 è stato nominato cavaliere dalla regina Elisabetta II per i suoi “servizi all’umanità”. Nel 2009 a Praga è stato organizzato un viaggio in treno attraverso l’Europa per commemorare i Kindertransport. In questa occasione Winton ha dichiarato: “La vera sfortuna è stata che nessun altro Paese abbia fatto altrettanto. Ho provato a sensibilizzare gli americani, ma non hanno preso con sé alcun bambino. Se l’avessero fatto avrebbero fatto la differenza”.
Molti dei bambini salvati costituiscono per Winton una sorta di grande famiglia allargata. Sir Nicholas si spegne nel sonno nella notte tra il 1° e il 2 luglio 2015, nell’anniversario del Kindertransport più numeroso.
Sir Nicholas Winton è onorato nel Giardino dei Giusti di Bergamo.

 

 

Praga ha dato l’ultimo saluto a questo grande uomo il 3 luglio 2009. Nella stazione centrale, intitolata al presidente americano Woodrow Wilson, per i cechi uno dei simboli della Cecoslovacchia libera e indipendente del periodo interbellico, circa 800 persone si sono radunate intorno alla statua di bronzo di Flor Kent che lo ritrae insieme a due bambini sulla piattaforma numero uno da dove partirono gli otto kindertransport, i viaggi in treno attraverso tutta l’Europa. Un’opera, posizionata in un luogo frequentato, che ricorda ai viaggiatori il diritto alla vita e alla libertà di ogni essere umano.

 

 

Fonte: Associazione Gariwo

Vi suggerisco a questo link un approfondimento sulla sorte dei bambini durante l’Olocausto:

https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/children-during-the-holocaust

..e ancora:

https://www.shalom.it/europa/a-85-anni-dal-kindertransport-i-sopravvissuti-si-riuniscono-in-una-cerimonia/

 

MGF

 

 

Docufilm
Regia di Michele Mally.

CON LA PARTECIPAZIONE STRAORDINARIA  DEL PREMIO OSCAR® JEREMY IRONS

 

 

 

 

 

Un film evento alla scoperta dei tesori del museo di antichità egizie più antico al mondo che accoglie oltre 900 mila visitatori all’anno.

L’ANTICO EGITTO: UN AFFASCINANTE MISTERO

L’Antico Egitto non ha ancora smesso, e forse mai smetterà, di affascinare ogni nuova generazione.
Un’epoca lontana, ma quanto? Più di quanto immaginiamo. Basti dire che la data della fondazione di Roma è più vicina a quella della creazione degli smartphone piuttosto che alla data della costruzione delle Piramidi di Giza.

 

Pensando a questo dato, e alle opere immense dell’Antico Egitto, non meraviglia che ancora oggi restiamo attoniti di fronte alle testimonianze di questa splendida civiltà, la più longeva di tutta la storia. E le continue scoperte che non smettono di essere dissotterrate testimoniano quanto poco ancora sappiamo degli Egizi, della loro cultura, della vita di tutti i giorni.

 

 

 

 

Sappiamo dei loro dèi, delle credenze principali, abbiamo un’idea di come fosse la loro struttura sociale e possiamo comprendere almeno una parte del loro metodo di scrittura, ma siamo ben lontani da avere di loro una conoscenza approfondita; e anche se ottenere questa conoscenza è un’impresa veramente pantagruelica, abbiamo la fortuna di avere degli egittologi appassionati e impavidi, che ogni giorno scavano sotto la sabbia per liberare un pezzettino in più di storia.

 

 

A ben pensarci, è quasi schiacciante l’idea di quanto ancora ci manchi da sapere: come venivano costruite le piramidi? Le ipotesi che sono state fatte nel corso dei secoli sono una più assurda dell’altra, e anche le più razionali implicano il coinvolgimento di un tale dispiego di manovalanza da far girare la testa, soprattutto se consideriamo che, contrariamente a quanto siamo spinti a credere, gli schiavi avevano più o meno gli stessi diritti di un comune operaio edile dei giorni d’oggi: di recente è stata ritrovata una tavoletta in cui veniva preso nota delle assenze degli schiavi e del motivo.
Le ragioni andavano dalla malattia al dopo-sbronza, finanche all’impegno nel campo di un familiare, o addirittura le mogli che avevano bisogno di assistenza durante il periodo mestruale: richieste di permesso che oggi meriterebbero almeno un’alzata di sopracciglia da parte del datore di lavoro, mentre allora sembravano essere più che comuni.

 

Non sembrava esserci nemmeno una distinzione così netta come al giorno d’oggi tra uomini e donne: sappiamo di regine e sacerdotesse che sono state amate e stimate allo stesso modo in cui venivano amati e stimati gli uomini nelle stesse posizioni sociali. Le donne nell’antico Egitto erano considerate al pari degli uomini ed erano una parte complementare della società, indispensabili per l’equilibrio del Paese. A dispetto di quello che si può pensare oggi, le donne egiziane dell’antichità avevano infatti un ruolo importante e contribuivano al mantenimento dell’equilibrio sociale, religioso, civile e politico; promuovevano la pace nella popolazione e rappresentavano un baluardo contro il caos.

 

 

E che dire delle tecniche di mummificazione dei corpi? Ancora oggi non sappiamo inventare un sistema più efficace per conservare una salma, e disponiamo di un livello tecnologico avanzatissimo. Per non parlare della devozione dei vivi nei confronti dei defunti: oggi amiamo tenere con noi qualche oggetto come ricordo della persona cara che non c’è più, mentre allora il defunto era la priorità. La maglietta preferita del mio papà non sarebbe nel mio armadio, ma sarebbe con lui, per permettergli di vestirsi come gli piaceva anche nell’aldilà.

 

È questa una dimostrazione di amore che va al di là della normale concezione: è un amore puro, privo di egoismo, e forse è l’unico vero segreto dell’Antico Egitto, quella conoscenza che stiamo cercando di ricostruire un pezzetto alla volta dissotterrando i segreti del passato.
L’amore per i defunti, l’amore per il prossimo, l’amore per tutto ciò che è bello e luminoso: tutto questo è ciò che ha portato a creare opere grandiose come le tombe dei faraoni, i templi, i palazzi. E tutto ciò, sembra di capire, in un’atmosfera molto più sana ed equilibrata di quella a cui siamo abituati al giorno d’oggi, dove ognuno veniva considerato in quanto se stesso, non in quanto donna o uomo, schiavo o faraone: nel proprio ruolo, ognuno era importante.

Come millenni dopo dirà Martin Luther King, non importava se fossero cespugli nella valle o pini sulla vetta delle montagne, ognuno era necessario a mantenere l’equilibrio della società.

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

MGF

 

Regia di Kenneth Branagh – USA, 2023 durata 103′
con Kenneth Branagh, Tina Fey, Kelly Reilly

 

 

 

 

 

“UN BELGA, UN’INGLESE  E UN ITALIANO ENTRANO IN UN PALAZZO INFESTATO…”

Arrivati al terzo film della “trilogia di Poirot”, Kenneth Branagh e Michael Green decidono di maneggiare i codici del cinema horror con esiti decisamente buoni. Per entrare nel merito di Assassinio a Venezia forse converrebbe prima passare dal titolo originale del film, “A Haunting in Venice”: il termine “haunting” evoca un’infestazione, spettri, case stregate e quella roba sovrannaturale lì, il cui conflitto con la ragione rappresenta la principale dicotomia di quest’opera, oltre a sintetizzarne alla perfezione temi e stile. Assassinio a Venezia si svolge durante la festa delle zucche, Halloween, probabilmente aliena alla città almeno fino ai giorni nostri, ma giustificabile con l’internazionalità della medesima, dallo sbocco portuale e, magari, pure dall’anno in cui si svolgono le vicende, il 1947, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale: sai mai che c’erano ancora inglesi e americani nei paraggi… L’atmosfera tirata su da Branagh è perfetta: internazionale il giusto, non eccessivamente turistica e, soprattutto, incredibilmente efficiente nell’assecondare la più strana tra le indagini di Poirot. Venendo alla trama, all’inizio del film troviamo il detective belga (Kenneth Branagh) ormai anziano, ritiratosi dalle scene ed esiliatosi a Venezia, dove conduce un’esistenza abitudinaria con l’unica compagnia della sua guardia del corpo (Riccardo Scamarcio). A dargli una spintarella fuori dalla porta ci penserà la sua vecchia amica giallista Ariadne Oliver (Tina Fey), sventolando l’opportunità di assistere a una seduta spiritica condotta dalla sedicente medium Joyce Reynolds (Michelle Yeoh) e, magari, di smascherarla. Ovviamente le cose finiranno presto col complicarsi, costringendo il nostro baffone a tornare in azione. In termini strutturali il film ripercorre i suoi predecessori, schierando in ordine sparso l’ambientazione esotica, l’immancabile delitto, i sospettati interpretati ancora una volta da un cast all-star, ma soprattutto l’indagine e relativi interrogatori condotti in una bolla impenetrabile.
L’elemento dominante è l’acqua, la cui fluidità sottolinea i movimenti d’animo di un protagonista mai così insicuro, incerto, che parte per smascherare il sovrannaturale con l’inconfessabile desiderio di sbagliarsi, una volta tanto, forse per ritrovare qualche tipo di fede dopo una vita a mollo nella logica. Non è caso se l’investigatore e la medium vengono proposti come due facce della stessa medaglia, entrambi impegnati a parlare per conto dei defunti a prescindere da metodi e intenti.
In ottica di trilogia siamo di fronte a un secondo movimento di antitesi, anziché a una più convenzionale sintesi. Un’antitesi formale e ideologica coerente con i problemi di un personaggio che, dopo due conflitti mondiali e altre grane, non sembra più una divinità onnipotente, apparendo incrinato, incapace di trovare la proverbiale simmetria nelle cose, figlia di un esercizio della giustizia di natura ossessivo compulsiva, certamente, ma anche rassicurante. Qui, invece, ormai tutto quanto poteva andar male ci è andato, e al nostro tocca accettare una coppia di uova sbilenca, per prendere in prestito una metafora dal film.
Un film può arrivare subito, dopo un po’, a visione ultimata e persino non arrivare affatto. Assassinio a Venezia appartiene nettamente alla prima categoria, e questo dipende da tante cose: cast, sottotesti, scelte di regia, ma soprattutto dalla capacità, da parte di Branagh, di gestire alla grande gli spazi veneziani, consegnando un’esperienza piacevolmente sbilenca, a tratti persino horror. Sfoggia delle soluzioni davvero intriganti, spesso catturando lo spettatore più per il “come” che per il “cosa”.
Adorerete questo Poirot attempato e disilluso mentre cerca risposte a delle domande che non avrebbe mai voluto porsi.

Andrea Peduzzi – IGN Italia

Recensioni
8,5/10 IGN Italia
7.3/10 Spietati
3,5/5 Movieplayer

Questa volta anche Poirot dubita della realtà. Tre delitti, una chiromante e una bambina evanescente smontano la lucidità del grande detective di Agatha Christie. E Venezia, città onirica, realtà inafferrabile, lo inghiotte.

Sullo sfondo di una Venezia tanto affascinante quanto spettrale, Kenneth Branagh allestisce il suo adattamento di Poirot e la strage degli innocenti di Agatha Christie, ritraendo l’investigatore sotto una luce diversa dal solito e prendendosi delle libertà stilistiche e narrative che contribuiscono a fare di quest’opera un film da non perdere.


L’ HERCULE POIROT di KENNETH BRANAGH

L’Hercule Poirot di Kenneth Branagh funziona. Il regista britannico ha dato freschezza al personaggio di Agatha Christie, riuscendo a coinvolgere il pubblico contemporaneo con storie tratte da romanzi gialli cult del Novecento.

 

L’esordio della trilogia di Kenneth Branagh su Poirot è avvenuto con Assassinio sull’Orient Express, uno dei titoli di punta della carriera letteraria di Agatha Christie. L’aspetto intrigante di questo adattamento è stato il riuscire a mantenere l’ispirazione classica, ma, allo stesso tempo, il dare nuova linfa al personaggio di Poirot. In Assassinio sull’Orient Express di Kenneth Branagh vediamo lo stesso regista interpretare il personaggio protagonista, utilizzando alcune delle caratteristiche tipiche di Poirot (la sua immancabile arguzia), ma inserendo anche qualcosa di innovativo, come un’animosità ed un vigore praticamente inediti. All’epoca della sua uscita il Poirot di Kenneth Branagh venne descritto come una sorta di supereroe (del resto eravamo nel 2017, in piena ondata cinecomics). Durante il film vediamo Poirot correre, inseguire personaggi, ma anche tirare fuori rabbia ed emotività.

 

 

 

Ed a riprova dell’impatto emotivo che Kenneth Branagh intendeva fin dall’inizio dare al personaggio, troviamo in Assassinio sul Nilo il Poirot più sentimentale di sempre. Il character viene mostrato nelle fasi iniziali in una scena prequel, che racconta anche il segreto dei suoi immancabili baffi. Ma c’è di più in quel momento: c’è la nascita di un sentimento. Si tratta del lungometraggio più emotivo della trilogia, che racconta di triangoli amorosi, e di sentimenti mai sopiti, anche in negativo. In tutto questo Poirot, lavorando al proprio caso, troverà un modo per rievocare ed esorcizzare il suo amore sopito, e, in qualche modo, andare avanti. Con Assassinio sul Nilo possiamo dire che Kenneth Branagh ha tirato fuori in maniera chiara e nitida tutte le carte che intendeva giocare riguardo al personaggio, che si è rivelato nella sua accezione più contemporanea, offrendosi sullo schermo con una fragilità mai vista prima.

 

 

Ma, del resto, stiamo parlando di una figura che ha modernizzato l’ideale del detective alla Sherlock Holmes. Mentre il personaggio creato da Arthur Conan Doyle si caratterizzava per il suo acume e per il suo essere al di fuori dei sentimenti e delle emozioni vissute all’interno dei suoi casi, per quanto riguarda Poirot stiamo parlando di una figura fortemente Novecentesca.
Il 1900 è stato l’anno in cui Sigmund Freud esplose come personalità intellettuale. A fine 1899 lo psicologo pubblicò l’opera L’Interpretazione dei Sogni, iniziando a scavare all’interno dell’inconscio umano. In tutto ciò Hercule Poirot rappresenta una perfetta incarnazione della figura freudiana: un personaggio nevrotico, ossessionato dalla ricerca della verità, al punto tale da arrivare ad un tragico epilogo nel suo ultimo romanzo pubblicato da Agatha Christie, Sipario.

 


Assassinio a Venezia, tratto da La Strage degli Innocenti, mette a confronto Hercule Poirot con il soprannaturale, ovvero la confutazione di tutto ciò a cui il personaggio crede. Si tratta di un film in cui l’emotività e la nevrosi di Poirot potrebbero arrivare al tracollo totale. I personaggi alla base delle storie di Agatha Christie sono delle figure alla ricerca della verità, capaci di restare turbate, ma anche di trovare un nuovo sé in ciò che la deduzione li porta a scoprire. E Kenneth Branagh sembra aver colto in pieno questa lezione. Il suo Poirot è un personaggio in continuo mutamento, una figura di saldi principi, ma, allo stesso tempo, pronta a sconvolgersi una volta entrata dentro le profondità ed i lati oscuri dell’animo umano. I precedenti film della saga di Poirot realizzata da Kenneth Branagh hanno messo a dura prova l’investigatore belga, ma Assassinio a Venezia potrebbe considerarsi il titolo capace di farlo vacillare del tutto.

 

 

La figura di Poirot non sarebbe potuta nascere senza l’acume e la sensibilità di Agatha Christie. Stiamo parlando di un’autrice che ha realizzato opere capaci d’innovare il genere (passando da Assassinio sull’Orient Express, a Dieci Piccoli Indiani, all’Assassinio di Roger Ackroyd). Il seme della capacità di Hercule Poirot di innovarsi e di stare al passo coi tempi sta tutto nella genialità e nello spirito innovativo di Agatha Christie, che già nei primi decenni degli anni Venti del Novecento, riuscì a guardare oltre la propria epoca.

Davide Mirabello – Leganerd.it

 

MGF

 

Regia di Micaela Ramazzotti

Italia, 2023 – 104′

con Max Tortora, Anna Galiena, Micaela Ramazzotti.

 

 

 

 

 

UN TITOLO CHE PARLA DI SENSAZIONI POSITIVE PER NASCONDERE LA REALTA’ DI UNA FAMIGLIA CHE LA STESSA AUTRICE DEFINISCE “STORTA”.

È una Felicità ambita, inseguita, cercata, quasi un miraggio per la famiglia protagonista del film della Ramazzotti, fatta di genitori egoisti e manipolatori che hanno minato le esistenze dei propri figli, Desirè e Claudio. Se la prima però è riuscita a costruirsi una propria vita come acconciatrice in ambito cinematografico, più difficile e tortuosa è l’esistenza del fratello. Un’esistenza che sembra arrivare finalmente a una svolta quando il ragazzo viene spinto dal padre a intraprendere una carriera da NCC (noleggio con conducente), ma che subisce l’ennesima battuta d’arresto, rischiando di trascinare con sé tutta la famiglia.
Micaela Ramazzotti interpreta una figlia che si è salvata in qualche modo, che è riuscita a tirarsi fuori dalle manovre manipolatorie dei genitori, anche grazie al sostegno del compagno interpretato da Sergio Rubini e l’alternativa di vita che le ha mostrato. Una fuga solo parziale, frenata dall’affetto che le impedisce di tagliare i ponti e allontanarsi una volta per tutto. Pur “storta”, come dice la stessa regista, è pur sempre la famiglia di Desiré e lei non riesce a non voler bene ai suoi cari, soprattutto perché sa che il fratello Claudio ha bisogno di lei e del suo supporto.
Sono dinamiche complesse che Felicità mette in scena e c’è forse qualche eccesso nel raccontarle, calcando un po’ troppo la mano su alcune derive manipolatorie e alcune vicende che definiscono i diversi membri della famiglia, ma non tanto da rendere poco credibili o eccessive alcune svolte della storia.
È soprattutto evidente e concreta la situazione in cui si trova il fratello di Desirè, vera vittima di tutto il contesto familiare che ci viene raccontato. È lui infatti il motore del racconto di Felicità, lui con i suoi problemi e un percorso psichiatrico da portare avanti. Micaela Ramazzotti non si tira infatti indietro dal parlare di un tema delicato come quello della depressione, quel nemico invisibile contro il quale così tante persone si trovano a combattere quotidianamente, sottolineando come il contesto sociale in cui ci muoviamo e le derive della nostra realtà si riflettono sulle persone meno attrezzate per sostenerle. E lo fa con la giusta misura e il giusto equilibrio: se ci è parso che calcasse un po’ la mano nel mettere in scena alcune dinamiche familiari, risulta puntuale e accorta quando si concentra su Claudio, la sua condizione e i passi necessari a uscirne.
È un buon esordio alla regia quello di Micaela Ramazzotti, è un film che non si tira indietro nell’affrontare un tema delicato come quello della depressione e nel mettere in scena una famiglia problematica che si trova a fare i conti con le difficoltà e le problematiche che sta vivendo la nostra realtà contemporanea.
Buona anche la prova d’attrice della Ramazzotti, coadiuvata da un cast che accompagna e completa la sua visione autoriale.

Antonio Cuomo – Movieplayer.it


 

Dietro la famiglia Mazzoni, Felicità racconta un’Italia in cui le conseguenze della noncuranza, del calcio alla lattina, dell’ignoranza innalzata a baluardo di libertà iniziano a farsi sentire e hanno effetti disastrosi sulle nuove generazioni, soprattutto sulla percezione del sé e del proprio ruolo sociale. La Ramazzotti è perfettamente nel ruolo e la regia è delicata e al servizio dei personaggi con una scrittura capace di scuotere gli animi senza forzature. Qualche volta sceglie la strada della stilizzazione dei personaggi, scelta consapevole dettata dal fatto che nessuno di loro sarebbe in grado di reggere una reale profondità, perché è proprio la piattezza la cifra del contesto etico in cui è ambientata la vicenda. Siamo un Paese di macchiette incapaci di costruirsi un pensiero consapevole e strutturato, non riusciamo a direzionare le nostre vite perché viviamo di apparenza, di sentito dire e di emulazione. Siamo strutturalmente pigri e superficiali: chi per mancanza di cultura, come la famiglia di Desirè, chi per snobismo, come Bruno e la borghesia intellettuale e classista a cui si accompagna.

Jacopo Conti – Hotcorn.it


 

“Dedicato a tutte le donne che lottano per emanciparsi e a chi deve accettare le proprie peculiarità (non malattie) mentali per farne un punto di forza.”
“L’emancipazione non avviene sempre subito per tutte. C’è chi è fortunato e già a 18-19 anni ha la forza e anche la maturità interiore. Non lo so, da cosa dipende. C’è chi è più aggrappato agli altri, al giudizio degli altri, in continua richiesta di come si è andati. Poi c’è invece chi non riesce a emanciparsi mai. Quindi dedico Felicità a chi sta lottando per trovare un centro, una solidità”.
“La famiglia ideale non esiste, le famiglie perfette non esistono mai…”.
Micaela Ramazzotti


 

“Ho scelto il titolo Felicità perché è una parola che sta sulla bocca di tutti noi, quasi sempre durante la giornata, sia ai bambini che ai grandi, è una parola che mi piaceva, è facile. La felicità per quanto riguarda il mio film viene dal meraviglioso termine greco eudaimonìa che è il percorso che una persona fa per arrivare a quella famosa felicità, salire su quel benedetto treno. Perché la felicità insomma, oggi come oggi, è difficile trovarla, bisogna quasi inventarsela. Invece l’eudaimonìa è una conquista, un percorso che uno fa, uno stile di vita, è un andargli incontro. E una volta che la conosci, tenersela stretta, nutrirla, volerle bene, avere cura anche delle persone che ti rendono felice perché poi la felicità è l’amore, la tenerezza”.

Micaela Ramazzotti


UN FILM AMARO DI GRANDE GENEROSITÀ IN CUI MICAELA RAMAZZOTTI SI PORTA DIETRO LA SPONTANEITÀ DEI SUOI PERSONAGGI PASSATI.

Il film d’esordio alla regia di Micaela Ramazzotti, “Felicità”, è il vincitore del Premio degli spettatori – Armani Beauty al Festival di Venezia. L’attrice al pubblico: “L’infelicità può durare a lungo ma bisogna lottare tanto, lottare sempre per la felicità”.

Recensioni
3/5 MyMovies
2,5/5 Sentieri selvaggi
3/5 Movieplayer

 

MGF

 

Regia di Wes Anderson – USA, 2023 – 104′
con Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks

 

 

 

 

 

UN FILM SUL DESERTO DEL NOSTRO SCONTENTO

Asteroid City, località sperduta nel deserto americano con una sola strada che la attraversa, un diner, una base militare, un complesso di case, un osservatorio astronomico e tutt’attorno una gigantesca distesa di terra da vendere e occupare, è un’immagine funerea – per quanto come al solito coloratissima e vintage – della nazione americana e dello stesso cinema di Wes Anderson.
Una sovrapposizione non casuale. Uno spazio insulare, tagliato fuori dal mondo, che nel corso del film viene ulteriormente chiuso da una quarantena, quando agli sparuti abitanti della cittadina (militari, astronomi, viaggiatori di passaggio, amanti della scienza, una scolaresca, un’attrice con la figlia, un padre vedovo con i figli al seguito e la macchina in panne) appaiono nientemeno che gli alieni. Siamo a metà anni ’50, i funghi dei test nucleari decorano lo sfondo come le mese e i crateri e l’avventura spaziale nasconde desideri di fuga e paura del diverso, con i ragazzi che sognano di fuggire nello spazio e gli adulti che restano inchiodati alle responsabilità da cui sfuggono inutilmente.
Asteroid City, la città, non esiste, così come non è mai esistito il mondo di Wes Anderson, nonostante sia forse la creazione cinematografica più identificabile (e commercializzabile) degli ultimi decenni. Un mondo sempre più pieno di cose – nomi di persone, luoghi e città, oggetti, colori, animali, piante, vestiti, musiche, canzoni, libri, giornali: un gigantesco gioco di società, insomma – nel quale il suo creatore ha finito per chiudere gli spettatori e pure sé stesso.
Asteroid City, il film, è in questo senso il film più cupo di Anderson, quasi un’operazione mortuaria, costruito come una scatola cinese da cui è impossibile uscire. Il film si apre con un narratore (Bryan Cranston) da show televisivo anni ’50 in bianco e nero che introduce la storia di un commediografo di fantasia (Edward Norton) che sul palcoscenico di un teatro scrive la commedia inesistente Asteroid City, in cui in un mondo a colori alcune persone si ritrovano un po’ per volontà e un po’ per caso in una cittadina nel deserto attorno a una base militare… Il film è dunque la creazione inesistente di un autore anch’egli inesistente, diretto in scena da un regista (Adrien Brody) costretto a vivere dietro il palcoscenico, in cui a volte gli interpreti escono dal ruolo e dal set per parlare del loro ruolo, in cui il narratore può entrare per sbaglio nel racconto e le scene possono ripetersi e replicarsi su piani paralleli e sfasati.
In una serie anch’essa ripetitiva e potenzialmente infinita e unica di scene e scenette, nozioni da nerd e invenzioni buffe, luci colorate e soluzioni da cinema classico, Anderson non solo ingolfa il suo cinema oltre la saturazione, ma arriva addirittura a contemplare l’idea di distruggerlo, inserendo in maniera clamorosa la possibilità della quarta parete. Con un controcampo che potrebbe annientare tutto quanto ha fatto fino a ora, rompe egli stesso l’incantesimo frontale del suo mondo di bambole e fa scontrare il colore e il bianco e nero, il set del film e il palcoscenico della finzione, l’attore e lo scrittore.
E se, in fondo, questo film di Anderson fosse inaspettatamente l’unica risposta al mistero dell’universo, ai limiti della scienza, all’insignificanza dell’uomo nell’enormità del tutto?
E se alla fine del cinema non ci fosse, ancora e ancora, nient’altro che cinema?

Roberto Manassero – Cineforum.it

Recensioni
7/10 IGN Italia
3,3/5 Cineblog.it
3,4/5 Mymovies

Wes Anderson firma il suo capolavoro. Il consueto racconto a episodi è contenuto nei barocchismi e organizzato nel montaggio interno, scatole dentro scatole di precisione millimetrica, generose di invenzioni, personaggi pittoreschi e dialoghi da manuale.


 

IL CINEMA DI WES ANDERSON: UNA PALETTE DI COLORI

Quando si parla del cinema di Wes Anderson, le persone tendono ad associare alle sue pellicole colori pastello, inquadrature maniacalmente simmetriche e personaggi stravaganti in contesti vagamente realistici.
I colori e le loro combinazioni svolgono, a livello inconscio, un ruolo fondamentale nella visione di un film. Si spiega, dunque, il grande successo del regista Wes Anderson che unisce a trame particolari delle scene cromatiche forti che influiscono molto sull’atmosfera dei film e quindi sul coinvolgimento del pubblico. È rosso, viola o rosa. Il modo in cui descrive il mondo cinematografico è attraverso i colori.

 

Il regista Wes Anderson utilizza la sua tecnica estetica dell’uso del colore non al solo fine estetico, ma cercando nella forma la vera sostanza. Le sue storie raccontano di personaggi limite, adulti troppo bambini incapaci a stare in un mondo che non li comprende a causa delle loro nevrosi. I personaggi andersoniani tentano di evadere da queste gabbie di conformismo e il regista riporta le loro storie e la loro eccentricità, senza giudicarli negativamente ma anzi invita gli spettatori ad amarli ed imitarli.
Non esistono antagonisti, i buoni e i cattivi non esistono; i buoni non sono mai davvero buoni e i cattivi non sono mai davvero cattivi. Non bisogna però mai farsi ingannare dall’atmosfera leggera, la quale cela le fragilità e le debolezze dei personaggi. Anderson usa minuziosamente le tecniche cinematografiche, come i colori, le inquadrature e le simmetrie con lo scopo di sottolineare gli aspetti interiori e tutti gli aspetti di questa fragilità. Ogni scenario costruito dal regista è in funzione della psicologia facendo in modo che le caratteristiche dei protagonisti si riflettano nell’estetica che li rappresenta.
Alla base di ogni suo film vi è un elenco rigido di regole: le inquadrature sono sempre frontali, fisse da far notare una forte maniacalità della composizione dello scenario filmico. Si trova inoltre la simmetria bilaterale, presente in ogni scena, nulla di fronte alla telecamera è fuori posto, il punto di fuga è sempre al centro per creare una prospettiva centrale, utilizza inoltre lo scorrimento laterale e la panoramica dall’alto. Queste tecniche e soprattutto l’uso del colore creano una narrazione artefatta e una sensazione di surreale. Anderson ci fa vedere il mondo reale ma soprattutto quello interiore dei personaggi, enfatizzando gli umori e emozioni degli stessi.
I film come Grand Budapest Hotel, I Tenenbaum e Moonrise Kingdom fanno emergere al massimo queste caratteristiche: le tonalità di colori presenti in ogni scena si armonizzano come in un dipinto e a ogni momento ripreso viene abbinata una palette cromatica. Un esempio di questa sua intenzione cromatica è la scena, in Grand Budapest Hotel, in cui il consierge Monsieur Gustave H. e il lobby boy Zero Moustafa si trovano in ascensore con la ricca Madame D.: le scelte cromatiche di Anderson si orientano verso un rosso intenso e un viola stridente. Anche ne I Tenenbaum le scene emotivamente più forti si tingono di colori molto accesi. Altra tipologia di scena è quello in cui una cromia emerge in modo più netto sulle altre, scene prettamente monocromatiche. Per esempio, infatti, le scene tra il lobby boy e Agatha sono quasi sempre rosa.

                                                                  
Momenti comici si uniscono a commozione e ironia, creando un gioco perfetto di sfumatura.
Ciò che colpisce del regista è proprio la volontà di trasformare il cinema in una composizione.
Un dipinto di un pittore con colori complementari e allo stesso tempo sfumati.
Il lavoro sui colori, sulla simmetria e sulle inquadrature risultano protagonisti quanto la storia del film. Le scelte cromatiche diventano un modo per far relazionare i personaggi allo spazio che li circonda e un modo per enfatizzare le sensazioni e le emozioni degli stessi.

Giulia Notari – Cimoinfo.com

 

MGF