Regia di Thaddeus O’Sullivan – USA, 2023 – 91′
con Maggie Smith, Laura Linney, Kathy Bates

 

 

 

 

 

UN FILM PIACEVOLE COME UNA TAZZA DI TÈ IRLANDESE. CON UN CAST DI ESPERTE CHE CI FA SORRIDERE E COMMUOVERE.

Dublino, 1967. A quarant’anni di distanza dalla sua partenza per gli Stati Uniti, Chrissie Limey torna alla casa dove è nata e ha trascorso la sua adolescenza, per partecipare al funerale della madre Maureen. La comunità la accoglie con sorpresa, in particolare Lily, la migliore amica di Maureen, ed Eileen, che è stata la migliore amica di Chrissie. Il grande assente è Declan, il figlio di Lily, morto da giovane per annegamento – lui che sapeva nuotare come un pesce. Quando erano ragazzi Chrissie, Eileen e Declan erano inseparabili, e Chrissie e Declan erano una coppia innamorata.
Poi però è successo qualcosa che ha creato divisioni insanabili all’interno del gruppetto, e che ha determinato la partenza di Chrissie per gli Stati Uniti. Il funerale di Maureen è anche l’occasione per assegnare un premio ad alcuni membri della comunità: un pellegrinaggio a Lourdes, che potrebbe ridare la parola ad un bambino e la speranza ad Eileen. Quel viaggio diventerà soprattutto un’occasione di perdono e di riconciliazione – se coloro che l’hanno intrapreso sapranno accoglierle.
The Miracle Club ha un titolo fuorviante, perché fa presupporre una commedia scanzonata, di quelle in cui un gruppo di attrici âgée gigioneggiano per suscitare l’ilarità del pubblico.
Qui il gruppo centrale di attrici è effettivamente âgée, ma la storia non è comica, anche se non mancano i siparietti divertenti. La trama ha parecchie fragilità e l’ambientazione irlandese fa leva su molti stereotipi cinematografici, che il regista dublinese Thaddeus O’Sullivan cavalca senza esitazione, ma il gruppetto di interpreti formato da Kathy Bates, Laura Linney, Maggie Smith e un quasi irriconoscibile Stephen Rea riesce a tenere alta l’attenzione del pubblico. A rubare la scena, come sempre, è la quasi nonagenaria Smith nel ruolo di Lily, una madre gravata dal lutto e dal senso di colpa che però non ha perso l’ironia e la capacità di dimostrarsi affettuosa e fedele.

Kathy Bates ritorna in gran forma (anche fisica) per calarsi nel ruolo complesso di Eileen, madre di famiglia che non ha mai lasciato il suo quartiere, con un marito brontolone (l’irresistibile Stephen Rea) ad incarnare un certo maschilismo d’antan. Laura Linney dà alla sua Chrissie reticenza e misura, raccontando una donna che ha imparato l’empatia pur non avendone ricevuta alcuna nel proprio passato, custode di un lontano rancore di cui vorrebbe liberarsi.

La ricostruzione d’ambiente è attenta anche se un po’ stucchevole, e l’intera confezione è piacevole, nonostante (o grazie a) l’adesione a molti cliché: una rassicurante tazza di tè irlandese servita da un cast di professioniste esperte nel far commuovere e sorridere.

Paola Casella – MyMovies


“Questo è un road movie, un viaggio di scoperta dove non sai cosa troverai alla fine. Tutto ciò che le protagoniste sanno è che si stanno lasciando la vita alle spalle.“ Thaddeus O’Sullivan


Recensioni
3,2/5 Movieplayer
4/5 Ciak Magazine
2,7/5 MyMovies

 

MAGGIE SMITH: 89 ANNI E UNA LUNGA CARRIERA RICCA DI SUCCESSI

Dame Maggie Smith (28 dicembre 1934 – Londra) è una vera e propria luce verde speranza (ancora oggi e nonostante l’età) nella cinematografia mondiale, una delle migliori attrici inglese che il panorama della Settima Arte abbia avuto. Una voce, un volto e delle movenze che non usciranno mai dalla testa dello spettatore. Irresistibile, mai sottovalutata, una vera pietra rara da incastonare nella memoria collettiva e che tutti, nel nostro piccolo, vorremo possedere.

 

 

 

GLI INIZI – Nel 1958 ottiene il primo ruolo da protagonista nel film Senza domani di Seth Holt, che le vale una candidatura ai BAFTA Awards come miglior attrice debuttante.

LA CONSACRAZIONE – Il ruolo che la consacra come icona del cinema è quello di Desdemona in Otello, film del 1965 con Laurence Olivier. Smith ottiene una candidatura ai Golden Globe come migliore attrice e una all’Oscar come miglior attrice non protagonista

 

 

 

IL PRIMO OSCAR – Nel 1969 Maggie Smith è la protagonista assoluta de La strana voglia di Jean di Ronald Neame. Nella pellicola interpreta l’anticonformista professoressa Jean Brodie. Per quel ruolo le viene assegnato il BAFTA Awards e vince il primo Oscar come miglior attrice protagonista nel 1970

 

 

 

ANNI D’ORO – Gli anni Settanta per Smith proseguono nel segno del successo con In viaggio con la zia (1972), dove interpreta l’eccentrica zia Augusta, che le vale una candidatura ai Golden Globe e all’Oscar come migliore attrice protagonista. Nel 1976 recita poi in Invito a cena con delitto di Robert Moore, dove prende la parte dell’investigatrice Dora Charleston, e nel 1978 in Assassinio sul Nilo tratto dal romanzo di Agatha Christie

 

 

 

IL SECONDO OSCAR – Nel 1979 fa parte, con Michael Caine e Jane Fonda, del cast di California Suite di Herbert Ross. Smith, che nella commedia interpreta un’attrice lunatica, vince il suo secondo Oscar, stavolta come miglior attrice non protagonista. Riceve inoltre il Golden Globe e una candidatura ai BAFTA

 

 

 

GLI ANNI OTTANTA – Nel 1985 Smith intepreta Charlotte, dama di compagnia di Helena Bonham Carter, in Camera con vista di James Ivory. Grazie a questo ruolo vince il secondo Golden Globe con miglior attrice e ottiene una candidatura all’Oscar Gli anni Ottanta proseguono con La segreta passione di Judith Hearne (1987) di Jack Clayton. Per l’interpretazione della protagonista, una cinquantenne insegnante di pianoforte, Smith riceve il BAFTA alla miglior attrice

 

ANNI NOVANTA – Negli anni Novanta, l’attrice britannica trova l’ennesima ondata di successo grazie alla sua doppia partecipazione nel film Sister Act (1992) e nel suo sequel (1993). In entrambi interpreta la Madre Superiora del convento a fianco della “suora scatenata” Whoopi Goldberg. Maggie Smith è protagonista anche di Un tè con Mussolini (1999). Grazie all’ennesima magistrale interpretazione, per la regia di Franco Zeffirelli, l’attrice britannica chiude un altro fortunato decennio ottenendo il suo settimo BAFTA Award

 

 

ANNI DUEMILA – Smith si fa conoscere anche ai più giovani lungo tutti gli anni Duemila, nei quali viene ricordata per l’interpretazione della (severa ma buona) professoressa Minerva McGranitt nella serie Harry Potter

 

 

 

 

ANNI DUEMILADIECI – Tra i ruoli iconici di Smith non si può non citare quello di Violet, Contessa Madre di Grantham, nella serie televisiva Downtown Abbey. Per la sua intepretazione riceve due premi Emmy (2011 e 2012), una candidatura come miglior attrice non protagonista ai BAFTA (2012) e ottiene una vittoria al Golden Globe come miglior attrice non protagonista in una serie (2013)

 

 

 

 

MGF

 

 

Regia di Matteo Gagliardi

con Luigi Diberti, Benedetta Buccellato

Docu-fiction – Italia, 2023 – 90′

 

 

 

L’ANALISI INTERPRETATIVA DI UN CLASSICO ATTRAVERSO LA DIMENSIONE CONTEMPORANEA

Mirabile visione: inferno, il documentario diretto da Matteo Gagliardi, è un percorso documentaristico che riprende i grandi temi della Divina Commedia e li adatta nei “se” della contemporaneità. Ciò che colpisce è l’intreccio della filmografia in cui sembra risiedere una misteriosa e dettagliata perfezione che invita a delineare aspetti che riprendono il contesto sociale odierno, una simulazione sperimentale che inscena il progresso e il regresso sociale costruendo un racconto di elevata calibratura dal punto di vista culturale, politico e morale. Infatti, si legge nel documentario la denuncia provocatoria nei confronti di una modernità pigra e immobile. Attraverso lo sguardo della professoressa Argenti interpretata da Benedetta Buccellato, si analizzerà l’interpretazione che i suoi studenti faranno nel conoscere la figura di Dante Alighieri e soprattutto la capacità che dimostreranno nell’inserirlo nei loro contesti quotidiani come rappresentazione di eterni valori.
Mirabile visione: inferno offre una ripresa documentaristica che non sacrifica la parola ma la restituisce alla metafora personificata, attraverso l’essenzialità di personaggi che inscenano il paradosso umano. Padre Guglielmo, interpretato da Luigi Diberti, darà l’indicazione d’apertura verso l’indagine, restituendo al suo personaggio, in parte, l’onere di rappresentare Virgilio, importante portavoce di un messaggio trascendentale che giunge negli oscuri abissi infernali.
I gironi danteschi diventano allegoria e inscenano un esasperato contesto planetario in rivolta, metafora di un mondo che ha vissuto le più tristi calamità umane, il crollo di ideali, la caduta di una umanità che ha sfidato la natura ed ingannato lo stesso uomo. Una metafora che rigurgita gli estremi di una umanità moderna in cui prevalgono rabbia e risentimento nelle loro forme più estreme.
In 90 minuti, cerchio per cerchio, ripercorrendo la strada immaginata da Dante, si ripercorre una realtà attuale di cui sembra non comprendiamo i rischi e il pericolo muovendoci senza consapevolezza tra nuove guerre mondiali digitalizzate, tra comportamenti arroganti ed abusi di potere, tra dittature religiose e razzismi smisurati, l’un contro l’altro armato dalla sete di individualismo e sopraffazione, assuefatti o sottomessi ad ogni forma di violenza.
Matteo Gagliardi, con grande abilità illustrativa pone in essere la storia di un secolo, il Novecento, senza risparmiare nulla; documenti, analisi, immagini di grandi e piccoli eventi; tematiche climatiche ed ambientali, povertà, sfruttamento, piaghe sociali ed eccessi consumistici.
Dante potrebbe realmente vivere nel nostro mondo? L’intero documentario sembra rimarcare uno stretto legame tra ieri ed oggi; la selva oscura del peccato che sopravvive nell’uomo moderno.
Mirabile Visione: inferno è un lavoro scenografico eccellente, un’interpretazione che teoricamente convince ma che in parte si contraddice.
93 minuti indubbiamente sono sufficienti per porre delle domande ma non abbastanza per esprimere le dovute risposte. Un esperimento documentaristico di grande valore e di grande impatto culturale che semina una speranza: “E uscimmo a riveder le stelle”!

Giulia Massara – Cinematographe.it


La Divina Commedia di Alighieri, a cui il film rende un denso, meticoloso e intelligente tributo per i suoi settecento anni di storia, rappresenta ancora una delle opere più contemporanee che siano mai state scritte.


Oltre che viaggio attraverso la “Infima lacuna”, Mirabile Visione: Inferno è anche e soprattutto una potente radiografia dei mali che affliggono il mondo di oggi. Alla radice dei quali sono le colpe e le umane debolezze, di cui il capolavoro dantesco è una straordinaria allegoria.


Recensioni
3,9/5 ComingSoon
4,3/5 MyMovies
3/5 Cinematographe.it

 

FRANCESCO SCARAMUZZA

Francesco Scaramuzza nasce a Sissa (Pr) il 14 Luglio 1803 da Nicolò e Marianna Benedetta Frondoni.
Sin dai primi anni di studio, il giovane dimostrò una spiccatissima predisposizione al disegno tanto da indurre i genitori ad iscriverlo al corso di pittura della Regia Accademia di Belle Arti, dove in seguito ottenne anche una cattedra che mantenne fino al 1877.
Vinse nel 1820, durante gli studi, vari premi e nel 1826 un corso di perfezionamento a Roma, dove realizzò i suoi primi lavori.
Nel 1836 partecipò all’Esposizione di Milano con un quadro rappresentante l’episodio dantesco del Conte Ugolino. L’opera suscita interesse e ammirazione sia tra il pubblico che tra i critici, cosa che dà al pittore la sicurezza e la spinta per cimentarsi nello studio dell’intera opera dantesca.

 

 

Il 18 gennaio 1837, però, le condizioni economiche del pittore non sono delle più felici: a quella data, infatti, risale un autoritratto che raffigura il pittore nel suo studio. Alla base del disegno si legge: “Ho moglie, ho tre figlie e non ho un soldo!!! … Buon proseguimento d’Anno!…”.
Tra il 1842 e il 1857 si occupa degli affreschi della Sala Dante e della sala di Lettura della Biblioteca Palatina. Nel 1853, contattato dal Dittatore delle Province Parmensi Carlo Farini, Francesco inizia la realizzazione di un impegnativo progetto: creare una serie completa di immagini relative all’Inferno per le celebrazioni legate al sesto centenario della nascita di Dante Alighieri. A causa di problemi economici del committente, l’ambizioso progetto viene ufficialmente fermato, anche se Scaramuzza continuerà i suoi studi privatamente.

 

 

 

L’illustrazione della Divina Commedia, la sua opera più importante, consta di 243 cartoni: 73 per l’inferno, 120 per il Purgatorio e 50 per il Paradiso. Fu esposta per la prima volta a Parma nel 1870, non ancora compiuta ma già a buon punto per poter essere giudicata un capolavoro.
Purtroppo però il suo lavoro subì una sosta proprio nel momento in cui Gustave Dorè (disegnatore, incisore, scultore francese), a conoscenza del programma dello Scaramuzza, pubblicò le proprie illustrazioni dantesche che gli procurarono un grande successo. Dopo la pubblicazione delle tavole del suo antagonista, Scaramuzza comprese che una sfortunata concomitanza di eventi aveva tarpato le ali alla supremazia della sua opera e questo fu il dramma della sua vita.

 

 

Francesco Scaramuzza – Madonna col bambino – Pinacoteca di Parma

 

Gli encomi, le lodi, i riconoscimenti per quadri ad olio e le decorazioni murali lo lasciavano indifferente.
Il prolungato e continuo contatto con il capolavoro dantesco, porta l’artista sissese a cimentarsi anche nella poesia: influenzato dalle opere di Ludovico Ariosto compone un “Poema Sacro”, XXVI canti in ottave. Con gli amici e con i colleghi letterati Francesco è solito definirsi “poeta per procura”, sostenendo di avere poteri medianici e di riuscire a scrivere grazie ai suoi poteri paranormali.
Di idee liberali, travestito da contadino partecipò alle lotte politiche del tempo e rischiò la vita per portare in Piemonte, a Camillo Cavour, l’adesione di Parma allo Stato Sardo.
Parallelamente all’impegno di illustratore di Dante, Francesco Scaramuzza svolse un’attività pittorica di cui restano valide testimonianze nella Pinacoteca di Parma, in diverse Chiese e in collezioni private sparse in Italia ed all’estero.
Francesco Scaramuzza morì a Parma il 20 Ottobre 1886.

 

 

Fonte:

https://prolocosissa.jimdofree.com/personaggi/scaramuzza-francesco/

MGF

 

 

Regia di Wim Wenders – Giappone, Germania, 2023 – 123′
con Kôji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano

Il film è stato premiato al Festival di Cannes

 

 

 

 

IL RITRATTO DELLA SERENA E COMPOSTA SOLITUDINE DI UN UOMO CHE HA FATTO PACE CON I SUOI ERRORI DEL PASSATO

Tokyo, oggi. Hirayama è un sessantenne giapponese che pulisce i bagni pubblici della città con attenzione meticolosa ai dettagli e dedizione certosina al suo lavoro. Ogni giorno segue la stessa routine: un’attenta pulizia personale prima e dopo quella dei bagni altrui, un’innaffiata alle piante che ha salvato dalla disattenzione cittadina, un panino al parco all’ora di pranzo. Lungo il suo percorso talvolta si ferma a osservare le piante che lo sovrastano scattando foto alle chiome, o fa uno spuntino presso qualche tavola calda. E ogni tanto fa qualche incontro: con Takashi, il ragazzo che rileva il turno pomeridiano di pulizia dei bagni, con una ragazza al parco, con un senzatetto scollato dalla realtà, con la proprietaria di un ristorante che gli riserva piccoli trattamenti di favore. E quando sale a bordo del suo furgone ascolta Lou Reed (con e senza i Velvet Underground) e Patti Smith, The Animals e Van Morrison, Otis Redding a Nina Simone, così come quando è a casa legge William Faulkner e Patricia Highsmith, ma anche la “sottovalutata” Aya Koda.
Perfect Days racconta le “giornate perfette” di Hirayama come una quieta affermazione di dignità quotidiana. L’uomo svolge il suo lavoro con gesti precisi ed essenziali, accogliendo l’occasionale contatto umano (anche nella forma anonima di una partita a tris proposta su un foglietto) con generosità e rispetto. Tutto in lui è rimasto analogico, come le musicassette che ascolta o la macchina fotografica i cui rullini vanno fatti sviluppare, e le fotografie vengono collezionate in scatole numerate che archiviano la nostalgia del tempo che passa.
Wim Wenders, in veste di regista e sceneggiatore (con Takuma Takasaki), mette a frutto la sua grande familiarità con il documentario per creare un film di finzione che segue le giornate del suo protagonista come una camera nascosta, e poi però racconta i sogni di Hirayama come un’elaborazione artistica del giorno appena vissuto.
La concezione architettonica di Wenders incastona la figura umana in spazi ben squadrati e confinanti (a cominciare dal formato 4:3 che ad un certo punto diventa quello ancora più ristretto dell’inquadratura da cellulare), e in una Tokyo in cui il sole sorge (non a caso siamo nel Paese del Sol Levante) accompagnato dalla canzone perfetta (The House of the Rising Sun). La fotografia nitida e precisa di Franz Lustig accompagna il ritratto della serena e composta solitudine di un uomo che sa di appartenere ad un’altra epoca e che ha fatto pace con i suoi errori del passato.
Koji Yakuso, che alcuni ricorderanno in Babel di Alejandro Inarritu ma anche ne Il terzo omicidio di Hirokazu Kore’eda o The Eel di Imamura Shohei, è lo straordinario interprete di questo film quasi muto che si snoda in purezza attraverso uno sguardo contemplativo ma mai artefatto.
Il suo Hirayama è il baluardo di un passato recente che è già modernariato, e conserva un afflato poetico persino attraverso il lavaggio di bagni frequentati da persone per cui è invisibile. Hirayama continua la sua metodica affermazione di sé all’interno di un universo per molti versi indifferente, consapevole che “il mondo è fatto di molti mondi” e solo alcuni sono connessi, ricordandoci che esiste un “ora” che va rispettato in quanto tale senza correre dietro al futuro, perché “il futuro succederà la prossima volta”.

Paola Casella – MyMovies.it


Parole quasi nessuna, solo qualche fotografia di rami che si stagliano sul cielo alla ricerca di una pace che non è rinuncia né moderazione ma piuttosto una silenziosa forma di empatia universale. Per invitarci a pensare che la felicità può essere anche la cancellazione dei desideri.


Wim Wenders ha spiegato che Perfect Days nasce come una serie di documentari brevi chiamati a testimoniare la riqualificazione di diciassette bagni pubblici, realizzati da alcuni celebri architetti giapponesi nell‘ambito del “Tokyo Toilet Project”; presumibilmente, si trattava anche di un pretesto per raccontare la vita nei parchi o sui marciapiedi circostanti, poi evolutosi strada facendo in un film di finzione scritto con Takuma Takasaki e incentrato sull’addetto alle pulizie dei servizi igienici, un personaggio di fantasia del quale la pellicola ricostruisce la routine giornaliera con meticolosa attenzione.


Recensioni
4/5 MyMovies
5/5 Sentieri Selvaggi
8,5/10 IGN Italia

 

IL PROGETTO “THE TOKYO TOILET”

Sebbene il Giappone sia universalmente riconosciuto come uno dei paesi più puliti al mondo, con bagni pubblici che mantengono uno standard di igiene superiore rispetto ad altri luoghi, l’uso di tali strutture è limitato a causa degli stereotipi noti in giapponese come i ‘4 K’ (kusai – maleodoranti, kurai – buio, kowai – spaventosi e kitanai – sporchi).

         

Per abbattere questi pregiudizi, la Nippon Foundation ha intrapreso un progetto ambizioso: il Tokyo Toilet, partito nel 2020, che rientra nella grande opera di abbellimento urbano della metropoli – che tra tutti ha interessato anche la costruzione del New National Stadium – finalizzata ad ospitare la XXXII edizione dei Giochi Olimpici di Tokyo nel 2021.

La collaborazione tra funzionari locali, ente del turismo e The Nippon Foundation ha portato quindi al compimento di nuove unità di servizio igienico. Obiettivo dichiarato dell’iniziativa è smentire il luogo comune dei 4 K per farne invece nuovi simboli di ospitalità, spazi all’insegna dell’accessibilità e dell’inclusione. Sono in tutto sedici le firme prestigiose che hanno curato il restyling delle diciassette toilette pubbliche a Shibuya, uno dei quartieri più colorati, frenetici e caratteristici della capitale nipponica.

                                          

Il risultato è una perfetta sintesi tra estetica, funzionalità e, soprattutto, accessibilità.  Queste strutture non sono solo visivamente piacevoli ma anche funzionali, promuovendo così una visione più positiva e accogliente dell’uso dei bagni pubblici. I progettisti e designer coinvolti sono Kengo Kuma, Shigeru Ban, Tadao Ando, Toyo Ito, Tomohito Ushiro, Masamichi Katayama / Wonderwall, Junko Kobayashi, Takenosuke Sakakura, Kashiwa Sato, Kazoo Sato, Nao Tamura, NIGO®, Marc Newson, Shigeru Ban, Sou Fujimoto, Miles Pennington / UTokyo DLX Design Lab, Fumihiko Maki. Questi visionari hanno trasformato i bagni pubblici in autentiche opere d’arte accessibili a tutti, rappresentando un passo verso una società che abbraccia la diversità.

 

MGF

 

THE HOLDOVERS – LEZIONI DI VITA
Regia di Alexander Payne – USA, 2023 – 133′
con Paul Giamatti, Da’Vine Joy Randolph, Dominic Sessa

 

 

 

 

ALEXANDER PAYNE RITROVA PAUL GIAMATTI IN UN FILM DOLCE-AMARO,  INTELLIGENTE E CAUSTICO QUANTO BASTA PER ELUDERE IL SENTIMENTALISMO

Il cinema di Alexander Payne, sempre in bilico tra commedia esistenziale e dramma intimista, trova nella scrittura dei personaggi, nelle loro psicologie, nella quadratura degli spazi e degli ambienti il punto di forza. The Holdovers – Lezioni di vita non solo non fa eccezione, ma si pone come una delle migliori e più ispirate opere del regista statunitense.

Ambientato durante le vacanze natalizie del 1970 in un istituto scolastico privato per rampolli dell’alta borghesia, segue le vicende del professore di civiltà antica, Paul Hunham (Paul Giamatti, vincitore del Golden Globe), e di un gruppetto di studenti di varie età – tra questi il brioso e scapestrato Angus Tully (il debuttante Dominic Sessa) – impossibilitati a tornare a casa dalle famiglie. Insieme a loro la responsabile della mensa, Mary Lamb, in lutto per la prematura morte in guerra del figlio 20enne. Sono personaggi complessi, stratificati, segnati dalla vita. Il tono è brillante, pieno di humor e colmo di battute pungenti e sagaci, marchio di fabbrica del cinema verboso di Payne.

Il film inizia con il campo lungo della scuola circondata dalla neve. Luogo di passaggio per eccellenza che, giocoforza, conduce alla vita adulta e alla scoperta di sé. Il coming of age, diventato ormai un vero e proprio (sotto)genere, con tutto il corollario di azioni e situazioni che portano alla crescita (sviluppato quasi sempre all’interno di un arco temporale ridotto), copre soltanto una porzione del racconto.
Il rapporto contrastante e conflittuale tra il professore integralista e il giovane Tully e il viaggio on the road dal New England a Boston – che cambierà la vita di entrambi – sta al centro del racconto, ma non è l’unico.

Payne fa i conti con la storia e la politica. Rievoca il fantasma del Vietnam e riflette in controluce sulle sperequazioni sociali, sul classismo, la rabbia e il senso di frustrazione della working class (il figlio di Mary Lamb è chiamato alle armi perché impossibilitato a pagarsi il college). La malattia mentale, l’elaborazione del lutto e la solitudine sono temi che Payne tratta senza ingolfare e appesantire la storia, mantenendosi in perfetto equilibrio tra dramma e commedia. Paul Giamatti è bravissimo a dare corpo allo scorbutico (dal cuore d’oro) professore Hunham. La sua mimica e l’espressività sono ormai pienamente mature. Ma intensa è anche la performance di Da’Vine Randolph (vincitrice dell’Oscar come miglior attrice non protagonista), mater lacrimarum, spezzata e resiliente. Il décor e la patina vintage rendono facile l’adesione e l’empatia. È un film semplice, emozionante, a tratti programmatico The Holdovers, e non dice nulla di nuovo. Riuscendo tuttavia ad essere contemporaneo e universale, rassicurante e non banale.

Mario Tudisco – Spietati.it


The Holdovers – Lezioni di vita: il Natale, la rabbia, la ribellione, il cinema che si fa letteratura, toccando il cuore e la testa. Quello di Alexander Payne è tra i migliori film del 2023. Protagonisti gli strepitosi Paul Giamatti, Dominc Sessa e Da’Vine Joy Randolph.


Il regista Alexander Payne dirige uno dei film natalizi più belli che siano arrivati in sala negli ultimi anni. Una divertente commedia sull’educazione reciproca: solo imparando ad appoggiarsi sull’altro si può rendere il processo di accettazione di sé meno doloroso.


Quello che Payne mette sullo schermo, attraverso le belle immagini fotografate da Eigil Bryld, è una vicenda di scoperta, di un viaggio che non è tanto fisico, verso Boston, ma più lungo, complesso e tortuoso dentro sé stessi. Quel che Payne propone, insomma, è l’esperienza di un’introspezione, di una migliore e più sincera e completa conoscenza di sé stessi allo scopo ci conoscere meglio e più sinceramente il mondo.

Recensioni
7,8/10 Spietati.it
4,5/5 Movieplayer
4/5 Cinefilos.it

CURIOSITA’ SU THE HOLDOVERS

Molte delle scene sono state girate alla Fairhaven High School di Fairhaven, Massachusetts, nel febbraio 2022 durante le vacanze di febbraio (Mid Winter Break) della scuola. In quel momento sull’area si è abbattuta una tempesta di neve per la gioia della troupe. Non sono stati utilizzati set cinematografici poiché hanno sfruttato appieno il tempo, e la neve che si vede nel film proviene da una vera tempesta di neve.

 

 

Il giorno in cui è stata girata la scena in cui Angus chiama a casa, Dominic Sessa ha sbagliato una ripresa perché non sapeva come telefonare e hanno dovuto mostrargli come fare. Nessuno aveva pensato che, vista la giovane età, non avesse mai usato prima un telefono a disco.

Anche se il film presenta un look cinematografico che ricorda gli anni ’70, è stato interamente girato in digitale con una ARRI Alexa Mini. Tutti i tratti distintivi della pellicola di celluloide, come la grana, l’alone e la tessitura del film sono stati aggiunti in post-produzione.

La canzone che viene suonata durante le scene iniziali e che ricorre più avanti nel film è “Silver Joy” del cantautore americano Damien Jurado, uscita nel 2014.

Dominic Sessa e Paul Giamatti sono entrambi fan delle serie tv animate e le guardavano durante le pause delle riprese.

Da’Vine Joy Randolph, una non fumatrice, ha scoperto che fumare sigarette finte sembrava irrealistico. Randolph ha scelto di fumare vere sigarette sullo schermo e ha optato per le American Spirit poiché era una marca che non amava e che le avrebbe permesso di smettere facilmente una volta terminate le riprese.

L’occhio pigro di Paul Hunham è stata un’idea di Paul Giamatti ed è iniziata come uno scherzo fatto al co-protagonista Dominic Sessa, prima di essere incorporato nella sceneggiatura.

 

Il trailer riporta la scritta “Copyright MCMLXXI” che è 1971 in numeri romani. Normalmente questa è la data di produzione del film, ma non in questo caso.

 

Alexander Payne ha avuto l’idea per il film dopo aver visto  Vacanze in collegio (Merlusse) del 1935 diretto da Marcel Pagnol.

In un’intervista del 2023 Alexander Payne ha parlato dei film che ha proiettato per la troupe allo scopo di trarne ispirazione: Il laureato (1967), Il padrone di casa (1970), Harold e Maude (1971), L’ultima corvè (1973), Una squillo per l’ispettore Klute (1971), Paper Moon – Luna di carta (1973) e Tutti gli uomini del presidente (1976).

Il film che il signor Hunham e Angus vedono al cinema è Il piccolo grande uomo (1970), con Dustin Hoffman.

 

Le frasi in latino del film: “Non nobis solum nati sumus” (il signor Hunham in conversazione con il preside all’inizio del film). Dal “De Officiis” di Cicerone, si traduce in: “Non siamo nati solo per noi stessi, ma una parte della nostra vita la dob­biamo alla patria, e un’altra parte ai nostri amici.” – “Omnia ex scrineis prater stilum” (Il signor Hunham in classe dopo la pausa invernale). Si traduce solo in modo molto approssimativo in “Tutto via dai banchi tranne la matita”

 

 

MGF

Regia di Michael Mann – USA, 2023 – 130′
con Adam Driver, Penélope Cruz, Shailene Woodley

 

 

 

 

 

 

MANN SI MISURA CON IL GENIO, LE OSSESSIONI E LA COMPLESSITÀ DI ENZO FERRARI, IN UN SOLO ANNO DELLA SUA VITA.

C’è sempre, nel cinema di Michael Mann, un momento che rimane impresso, per il modo in cui la sua pregnanza emotiva va di pari passo con una certa irrilevanza narrativa, quasi che il regista ci invitasse a cercare il senso profondo della vicenda in qualcosa che sta ai suoi margini.
In questo film il momento arriva nella prima parte, quando la moglie di Ferrari si reca in cimitero, alla tomba del figlio scomparso prematuramente. Non è una scena fondamentale, potrebbe tranquillamente essere espunta dal tessuto del film, oppure avere la concisione necessaria a segnalare al pubblico che la morte del ragazzo ha lasciato una scia profonda di dolore in entrambi i genitori (subito prima della madre, al cimitero abbiamo visto il padre). E invece Mann si dilunga, attraverso un lunghissimo, ininterrotto primo piano di Penelope Cruz, la cui durata è tale da registrare con puntualità la tempesta emotiva che le attraversa il volto. Prova di talento dell’attrice, che deve fronteggiare la continuità del primo piano e la conseguente necessità di lavorare sulla transizione e la gradualità fra i diversi stati d’animo che segnano la presenza in cimitero del personaggio. Ma anche una spia, la scena, dell’umanesimo che caratterizza in modo profondo il cinema di Mann, al di là, forse persino a dispetto, della griglia di genere entro la quale si collocano abitualmente i suoi film, e delle storie che è “obbligato” a raccontare.
Ferrari, da questo punto di vista, ne è un esempio perfetto. In linea di principio dovrebbe collocarsi all’intersezione di due generi, un sempreverde del cinema americano (il film sportivo) e uno, il biopic, che gode oggi di una straordinaria popolarità. Mann segue invece con ammirevole coerenza la sua traiettoria umanista, noncurante degli effetti di disgregazione che produrrà sui generi di riferimento. In questo modo Ferrari diventa, al contempo, un anti-film sportivo – a fargli difetto sono il dettaglio della performance agonistica del protagonista, che non è un campione e addirittura non pratica alcuno sport, e il motivo dell’affermazione finale, qui macchiata da un evento luttuoso che la spoglia di ogni enfasi – e un anti-biopic, poiché il personaggio del titolo non rappresenta una figura eccezionale, sotto nessun punto di vista. Quello della straordinarietà del personaggio è, nel biopic, la ragione prima del film (perché dovremmo narrarvi questa storia, se non ha al suo centro una figura fuori dal comune?) e il suo punto di approdo (prima o poi vi racconteremo tempi e modi della sua eccezionalità); un diktat al quale nemmeno Nolan in Oppenheimer ha saputo sottrarsi.
Mann invece scolora Ferrari sino a renderlo un uomo ordinario, schiacciato da pressioni familiari (moglie, amante e figlio illegittimo) ed economiche (l’azienda è in perdita), sociali (obbligato ad andare in chiesa per farsi vedere dai suoi operai) e manageriali (motivare i piloti, sovraintendere alla meccanica e alla manutenzione delle auto). Un imprenditore qualunque in un mondo qualunque, la cui unica ragione di eccezionalità sta nel fatto di avere perso un figlio, con tutto il carico di dolore che ne consegue.
Nessuna Formula 1, nessuna vittoria, né Villeneuve né Schumacher: solo un uomo che prova a difendersi dalla disperazione. Per un cineasta umanista come Mann, basta e avanza: sarà per questo che nel film a prendere gradualmente il sopravvento è la vena melodrammatica, la messa in scena del dolore, lo spettacolo di una elaborazione del lutto perennemente differita.

Leonardo Gandini – Cineforum.it


Michael Mann ha lavorato a lungo sulla figura di Ferrari, che nelle sue mani diventa un Saturno capace di divorare i propri figli (i due naturali e le sue stesse creazioni di metallo), padrone di sé e delle proprie ossessioni solamente nella dimensione della velocità estrema.


Riprese in Italia, troupe di eccellenza (fotografia di Erik Messerschmidt, costumi di Massimo Cantini Parrini, hair & make-up Aldo Signoretti, montaggio del due volte premio Oscar Pietro Scalia), non si tratta di un biopic, bensì di una tranche de vie portata su schermo: le corse automobilistiche degli Anni Cinquanta, la leggenda traballante di Ferrari e le sue vicissitudini familiari, l’all-in sulla Mille Miglia, nell’estate modenese e italiana del 1957.


Recensioni
3/5 Cineforum.it
3,1/5 MyMovies
4,8/5 Sentieri selvaggi

 

LA MILLE MIGLIA

Enzo Ferrari la definì “la corsa più bella del mondo”. La competizione, conosciuta anche come Freccia Rossa e nata come gara di velocità per poi diventare gara di regolarità, dal 1977 si svolge in tarda primavera lungo l’asse Brescia-Roma-Brescia. Il suo nome deriva dalla lunghezza del percorso, che si snoda per 1.600 km (ovvero mille miglia).

La Mille Miglia è nata nel 1927 ed è stata interrotta tra il 1957 e il 1977 per ragioni di sicurezza. La partecipazione è limitata alle vetture, prodotte non oltre il 1957, che avevano partecipato (o risultavano iscritte) alla corsa originale.
La prima edizione della Mille Miglia si tiene nel marzo del 1927 con il nome di Coppa delle 1.000 Miglia e con la partecipazione di 77 equipaggi. A organizzarla i piloti bresciani Aymo Maggi, Renzo Castagneto e Franco Mazzotti insieme al giornalista Giovanni Canestrini.

 

 

Inizialmente era costituita da una gara unica, in un percorso a forma di otto. Solo 51 auto raggiungono l’arrivo. Dopo 21 ore, 4 minuti, 48 secondi alla guida su strade non asfaltate, Ferdinando Minoia e Giuseppe Morandi tagliano il traguardo da vincitori a bordo della loro Om 665 Sport Superba. Velocità media: 78 km/h.

La gara del 1930 entra negli annali. A vincerla, con l’Alfa Romeo di Enzo Ferrari, è Tazio Nuvolari. Resta nella storia il sorpasso notturno al rivale Achille Varzi: per fargli credere di essere stato vittima di un guasto, il pilota mantovano spegne i fari della propria auto e prosegue al buio, seguendo le luci di coda dell’avversario, per poi superarlo di sorpresa e andare a vincere la corsa.

La Mille Miglia viene sospesa nel 1939 per un grave incidente avvenuto a Bologna l’anno prima e poi viene interrotta negli anni della Seconda guerra mondiale.

 

Riprende nel 1947 e dura per dieci anni: l’ultima Mille Miglia di velocità si corre nel 1957. Vince Piero Taruffi che, all’arrivo a Brescia, tenendo fede a una promessa fatta alla moglie Isabella, annuncia il suo ritiro dalle competizioni. Il suo trionfo conquistato con la Ferrari passa però sotto silenzio: a fare notizia sono i nove morti tra gli spettatori che a Guidizzolo, in provincia di Mantova, mentre stanno assistendo al passaggio della carovana di bolidi a lato della strada vengono falciati da un’altra Ferrari, “impazzita” per una gomma scoppiata. Muoiono anche i piloti Alfonso De Portago e il suo compagno, Nelson. Il mondo dello sport si ribella e dice basta. Per quella tragedia Enzo Ferrari viene messo sotto processo dalla magistratura e poi, anni dopo, assolto.

 

 

 

Quell’incidente a Guidizzolo cancella la Mille Miglia di velocità, che però torna a essere organizzata vent’anni dopo, nel 1977, con la formula di gara di regolarità: percorso di trasferimento da Brescia fino a Roma e quindi risalita a Brescia, intervallato da prove cronometrate, alcune con tempo imposto. La prima riedizione viene vinta dall’Alfa Romeo RL SS di Hepp-Bauer: è l’inizio di un successo andato via via aumentando. Nel novembre 2004 l’Automobile Club di Brescia e alcuni appassionati della corsa danno vita a Sant’Eufemia (in provincia di Brescia) al Museo della Mille Miglia. Al suo interno sono presenti le macchine storiche utilizzate dai vari piloti nel corso degli anni. La gara, a cui ogni anno partecipano molte personalità famose della politica, della cultura e dello spettacolo, ha un grandissimo seguito.

 

 

MGF