Regia di Bobby Farrelly
USA, 2023 – 123′
con Woody Harrelson, Kaitlin Olson, Ernie Hudson

 

 

 

 

 

 

DELLA CATTIVERIA DEI FARRELLY NON È RIMASTO NULLA: IL FILM È UN REMAKE PIENO DI BUONE INTENZIONI CHE ESALTA I PERDENTI E LA CREAZIONE DI UN GRUPPO

Il remake dello spagnolo Non ci resta che vincere è rassicurante e affettuoso, ma Bobby Farrelly non è banale nel far incrociare lo sguardo scorretto con il feel-good movie.
Non è il caso di riesumare l’antico adagio su come chi nasca incendiario alla fine muoia pompiere, ma è interessante osservare la parabola di Peter e Bobby Farrelly, assurti alla gloria grazie a una serie di commedie grevi e di rottura come Tutti pazzi per Mary e Amore a prima svista.
Al di là delle facili letture, la carriera dei fratelli è abbastanza interessante e segna una via inedita al racconto delle turbolenze sentimentali, incrociando in modo piuttosto spericolato l’afflato demenziale e il sottotesto malinconico, l’attenzione alle minoranze e la scorrettezza che tracima nella volgarità.

Dopo alcune esperienze non proprio fortunatissime, superati i sessant’anni, i due si sono messi in proprio. È evidente che Farrelly abbracci la quintessenza del feel-good movie, una storia ottimista che fa stare meglio chi la vede (pur con tutto ciò che ne consegue, in primis una temperatura emotiva che rende tutto fin troppo rassicurante), ma la cosa più interessante di Campioni è come il regista riesca a mettere il suo sguardo “scorretto” all’altezza di un racconto così sfacciatamente “corretto”.
Per una volta segnaliamo l’ottima decisione della distribuzione italiana che per il doppiaggio dei protagonisti ha scelto otto non professionisti, affetti da sindrome di down e dello spettro autistico. L’inclusione si fa anche così. Peter ha indovinato un furbo buddy movie nostalgico che gli è valso addirittura un Oscar (Green Book), Bobby si lancia ora nell’avventura solista con un remake di Non ci resta che
vincere (titolo originale: Campeones), commedia spagnola del 2019 che non solo ha portato in sala oltre tre milioni di spettatori in patria, ma ha anche offerto uno di quei concept che funzionano a tutte le latitudini.
All’origine c’è il ricordo di una storia vera (quella dell’Aderes Burjassot, squadra di basket che ha vinto i campionati per disabili in Spagna dal 1999 al 2014) e lo schema narrativo è risaputo e prevedibile: un coach di una serie minore, insoddisfatto (Woody Harrelson), che, dopo una lite in campo con il suo superiore, viene affidato ai servizi sociali per novanta giorni, periodo in cui deve occuparsi di una squadra formata da giocatori con disabilità intellettive e difficoltà di apprendimento.: lui gli insegna le regole del basket, loro a vivere meglio.

Lorenzo Ciofani – Cinematografo.it

 

IL REGISTA BOBBY FARRELLY

Regista, produttore, produttore esecutivo, coproduttore, scrittore, sceneggiatore, è nato il 17 giugno
1958 a Cumberland, Rhode Island (USA).
Fratello del regista Peter Farrelly e dell’attrice Cynthia Farrelly Gesner, dopo essersi laureato al Rensselaer
Polytechnic Institute, sposa l’attrice Nancy Farrelly, dalla quale avrà  due figli. Fin dal principio, lavora in
coppia con il fratello Peter, scrivendo, dirigendo e producendo a quattro mani commedie politicamente
scorrette.
Firmano il loro film cult nel 1998 con Tutti pazzi per Mary, che vede nel cast Cameron Diaz, Matt Dillon e
Ben Stiller. I fratelli Farrelly imbastiscono una commedia esilarante che è un po’ la presa in giro di tutte le commedie sentimentali statunitensi, passando alla cronaca per esilaranti gag ancora inedite nella storia del cinema.

Nel 2000 tornano alla carica dirigendo ancora una volta Carrey in Io, me & Irene, nella storia di un poliziotto dalla doppia personalità, e l’anno dopo fanno ingrassare Gwyneth Paltrow in Amore a prima svista, che racconta di come un uomo, sotto l’effetto dell’ipnosi, veda le donne per la bellezza interiore e non per quella esteriore. Da quel momento in poi, passano alle gag slapstick di gemelli siamesi (Fratelli per la pelle) e alle commedie romantiche rosa confetto dai dialoghi alla Woody Allen (L’amore in gioco), ma sempre con uno sguardo acuto, beffardo, discreto, cinico e spiritoso, riuscendo a cogliere perfettamente anche le figure di contorno. Nel 2011 tornano, dirigendo Owen Wilson, nell’ennesima commedia sboccata: Libera Uscita, e nel 2012 riscoprono il talento comico de I tre marmittoni. Sarcastici e divertenti, beceri e sboccati, leggermente trucidi, viene da chiedersi contro quale altro tema si scaglieranno: famiglia, sesso, razzismo o anima?

 

L’ATTORE PROTAGONISTA WOODY HARRELSON

(Midland, 23 luglio 1961),
Figlio di Charles Harrelson, killer professionista morto in carcere nel 2007, e di Diane Lou Oswald. Nato in
Texas, subito dopo aver frequentato il college Hanover in Indiana, si trasferisce a New York, dove entra a far
parte nel cast della serie televisiva Cin cin. La sua apparizione in questa sit-com, durata 8 anni, nel 1989
gli regala un Emmy come miglior attore non protagonista.
Il debutto sul grande schermo ha inizio nel 1986, a fianco di Goldie Hawn, con il film Una bionda per i
Wildcats.
È un crudista vegano, ed è inoltre un accanito sostenitore della depenalizzazione e legalizzazione
della canapa e della marijuana, oltre ad essere un attivista ambientale e sociale. Definitosi un anarchico,
l’attore nel 2002, in un articolo da lui stesso scritto sul quotidiano britannico The Guardian, condannò
duramente l’intervento militare statunitense in Iraq da parte dell’allora presidente George W. Bush.
Harrelson è stato sposato, dal 29 giugno 1985 al gennaio 1986, con Nancy Simon, figlia del drammaturgo
Neil Simon. Nel 2008 sposa Laura Louie, cofondatrice di “Yoganics” (un servizio a domicilio di prodotti biologici), nonché sua ex-assistente, con la quale è fidanzato dal 1987 e dalla quale ha avuto tre figlie: Deni Montana Zoe Giordano e Makani Ravello . Tutta la famiglia risiede sull’isola hawaiiana di Maui.
Nel 1982 Harrelson venne tratto in arresto dalla polizia di Columbus (in Ohio) per disturbo della quiete pubblica ed intralcio al traffico.
Nel 2002 Harrelson, a bordo di un taxi, rimase coinvolto in un incidente stradale a Londra, che si tradusse in uno spericolato inseguimento da parte della polizia. Tale evento sarà poi fonte d’ispirazione per il film, diretto dallo stesso Harrelson, Lost in London (2017)

 

RECENSIONI
3/5 Sentieri Selvaggi
3,5/5 Ciak Magazine
4/5 Movieplayer

 

MGF

 

Regia di Nida Manzoor – Gran Bretagna, 2023 – 103′
con Priya Kansara, Ritu Arya, Nimra Bucha
Commedia – Azione

 

 

 

 

 

 

UNA STORIA DI SORELLANZA, VERA E IDEALE, AL CENTRO DI UNA COMMEDIA PRODOTTO PERFETTO DEL NOSTRO TEMPO

Polite Society. Operazione matrimonio è il primo film della regista e sceneggiatrice britannica Nida Manzoor, che mescola abilmente la
commedia adolescenziale di crescita, il vivace cinema di Bollywood e le spettacolari sequenze di arti marziali. Nonostante le influenze
riconoscibili, il suo stile emerge in modo immediato e i primi minuti del film, frutto della creatività di Manzoor, già nota per la serie TV We Are Lady Parts (2018), offrono una prima parte fresca e ricca di potenzialità. La trama ruota attorno alle fantasie egoistiche di una giovane ragazza in piena adolescenza e alle autentiche preoccupazioni di due sorelle riguardo all’impatto del fidanzamento della sorella maggiore, sul loro legame e sui loro sogni.
Ria, la sorella minore interpretata dalla debuttante Priya Kansara, è una ragazza musulmana di origine pakistana, che vive a Londra
coltivando il grande sogno di diventare una delle migliori stuntwoman britanniche. La sua figura è strettamente legata a quella di Lena,
sorella maggiore interpretata da Ritu Arya di The Umbrella Academy (2008), in una tipica dinamica di sostegno reciproco tra due sorelle che
affrontano insieme le sfide del mondo. Lena è appena tornata a casa dopo aver abbandonato l’accademia d’arte ed è un punto di
riferimento importante per Ria, che può contare su di lei per girare i video amatoriali delle sue acrobazie sul canale YouTube. Questa
collaborazione, però, è oggetto di disapprovazione da parte dei loro genitori tradizionalisti, i quali cercano per le loro figlie una carriera più
convenzionale.
I primi 20 minuti del film sono un incantevole mix di melodrammi adolescenziali e sciocchezze esagerate, arricchito da una spruzzata di arti
marziali. È un vero piacere osservare l’angoscia e l’energia incontenibile dell’adolescenza che si trasformano in una battaglia immaginaria di
arti marziali, soprattutto quando Ria percepisce la minaccia esistenziale che si materializza in Salim (Akshay Khanna), un affascinante medico e unico figlio della ricca e premurosa matriarca Shah (Nimra Bucha). Salim conquista Lena e promette di sposarla, sconvolgendo così il mondo di Ria.

Nida Manzoor crea un affascinante contrasto tra le due sorelle che offre momenti divertenti, come i piani di Ria per compromettere la reputazione di Salim con l’aiuto delle sue fedeli amiche. Magistralmente realizzate anche le ripetute scene in cui Ria lancia sguardi furiosi dalla finestra al piano superiore nel tentativo di sabotare gli appuntamenti di Salim e Lena. Molto vivace il sound design del film, che contribuisce a creare un equilibrio tra le scene d’azione e le emozioni autentiche, così come la sceneggiatura tagliente di Manzoor, insieme alla genuina connessione tra Kansara e Arya, conferiscono autenticità alla paura di Ria che veste al meglio i panni della protagonista femminile forte e indipendente in un contesto sociale restrittivo.
Soltanto in procinto del terzo atto viene meno l’equilibrio straordinario del tono e l’originalità costruiti precedentemente. Il contrasto piacevole tra le fantasiose macchinazioni di Ria e la banalità spaventosa dell’età adulta svanisce, rendendo la trama meno divertente e
meno distintiva, tuttavia, Polite Society. Operazione matrimonio rimane un film divertente dall’inizio alla fine, dall’atteggiamento ribelle e con scene d’azione vivaci. La Manzoor è così piena di energia da far pensare già ad un possibile sequel.

Dietro alle arti marziali un po’ goffe e molto da ridere (la Manzoor è grande fan di Jackie Chan), dietro alla pur blanda critica sociale, Polite Society è e rimane un film su due sorelle e sul loro legame, un legame che chiunque abbia una sorella, o un fratello, può comprendere bene. Due sorelle accompagnate da un cast di contorno tutto da ridere.
Un film su due sorelle, i loro sogni, e i sogni infranti di certe donne del passato, che si sono tramutati in mostri della mente,
per tanto dolorosa è stata quella rottura. Due sorelle, un hamburger da addentare, e una vita tutta da vivere. Con irriverenza punk.

Matteo di Maria – Sentieri Selvaggi

LA REGISTA

NIDA MANZOOR

E’ una scrittrice, interprete e produttrice britannica. È meglio conosciuta per la sua mostra personale autobiografica Burq Off! e per la sua serie web Shugs & Fats.
Se c’è una cosa che so fare bene, è mentire. Crescendo nel Regno Unito, in una famiglia pakistana musulmana e tradizionalista, ho fatto un sacco di pratica. Mentivo agli Inglesi, perché volevo essere come loro, ma ho anche mentito
alla mia famiglia. Ho vissuto intrappolata tra libertà e limitazione. Avevo passato la maggior parte della mia vita a fingere.
A volte dietro un burqa, altre in un bikini, provando allo stesso tempo a trovare e nascondere me stessa, ma fondamentalmente sempre di corsa. È solo quando sono salita sul palco per raccontare la mia storia, che la mia finzione è diventata autentica. Condividendo la verità del mio passato, mi sono liberata della necessità di mentire.

 

 

LE ATTRICI PROTAGONISTE

PRIYA UDAY KANSARA

E’ un’attrice britannica. È sconosciuta ma ha un aspetto familiare. Dove l’abbiamo vista? È
Miss Eaton di Bridgerton, una delle candidate che il visconte Anthony intervista per trovare la futura moglie. E sì, è quella che sa anche cucire i cappellini a mano. Incredibile ma vero, ha conquistato la parte al primo provino della carriera, il che la dice lunga sulla sua determinazione. Dal carattere solare, travolge tutto con la sua energia. L’attrice, con radici ben profonde in India, è al primo ruolo da protagonista in Polite Society che parla di inclusione e stereotipi in un modo nuovo. «Il mondo può essere ancora un posto crudele, soprattutto per le donne, ma credo che possiamo cambiarlo. Quindi meritiamo di credere in noi stesse e di credere nel potere che abbiamo»
“È stato fantastico recitare in Polite Society.. Penso che la bellezza del raccontare storie sia proprio questa: poter mostrare l’esperienza umana a 360 gradi. Abbiamo lo stesso spettro di emozioni degli uomini: proviamo anche noi rabbia, quindi perché non farlo vedere? È stato catartico anche per me essere così arrabbiata e prendere a calci qualcuno! È stato bellissimo”.

 

RITU ARYA

E’ nata a Guildford, nella contea del Surrey, si è laureata all’Università di Southampton e
successivamente ha frequentato l’Oxford School of Drama.
Ha raggiunto la notorietà prendendo parte, tra il 2007 e il 2013 alla soap opera Doctors, recitando il ruolo della psichiatra Megan Sharma. Dopo alcuni ruoli minori in singoli episodi di serie TV, nel 2020 è stata scritturata per il ruolo di Lila Pitts nella seconda e terza stagione di The Umbrella Academy. Nel 2021 è tra i protagonisti del colossal Red Notice, al fianco di Dwayne Johnson, Ryan Reynolds e Gal Gadot.
Dal 2019 è legata sentimentalmente all’attore David Castaneda, conosciuto sul set di The Umbrella Academy.

 

 

Recensioni
3,6/5 Sentieri selvaggi
3/5 Movieplayer
3,5/5 Coming Soon

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MGF

Regia di Sam Mendes –USA, 2022 – 119′
con OliviaColman, MichealWard,Tanya Moodie
Drammatico,sentimentale

 

 

 

 

 

SAM MENDES CERCA LA VIA DI UN CINEMA PIÙ INTIMO E PERSONALE, TORNA AGLI ANNI ‘80 E COSTRUISCE UN DRAMMA ROMANTICO

Dopo un trittico di film spettacolari (i bondiani Skyfall e Spectre, e il virtuosistico 1917), Sam Mendes ha deciso di riconciliarsi con un cinema più intimo e personale, pur senza sfociare nell’autobiografia, come hanno fatto recentemente molti suoi colleghi, daCuaróna Spielberg.

Empire of Light infatti è ambientato negli anni ’80 e ha come fulcro, sia perché ne è lo sfondo principale, sia perché è uno dei temi cardine dell’intero film, un cinema, quello in cui lavora Hilary (Olivia Colman) e dove – sfidando la relazione clandestina ma noiosa con il proprietario della sala (Colin Firth) – si innamora di Stephen (Micheal Ward), giovane commesso afro-discendente, da cui oltre il colore dell’incarnato la divide anche una notevole differenza d’età.

Da una parte l’arte popolare e l’emozione, luoghi simbolici in cui poter essere se stessi e amarsi senza paura, dall’altra “il mondo fuori”, che ci opprime e ci costringe a nasconderci: quella di Mendes è una visione romantica della questione, come se il cinema proprio in quanto arte
popolare non rispecchiasse quel mondo, non ne fosse eco o conseguenza, però fa parte del gioco di un film pensato per titillare i ricordi e le emozioni di un pubblico di riferimento chiaro.

 

Quello che invece fa meno parte di questo gioco è la forma che il regista gli ha dato, come se avesse intenzione di riesumare i fantasmi decadenti dell’accademia britannica che 40 anni di cinema britannico avevano spazzato via con risolutezza: scrittura scolastica nel procedere della passione, perfetta per garantire a Colman premi e candidature, costruita col bilancino dei ricatti emotivi (non manca la follia), una regia poco sentita, troppo corretta e impostata, ad altezza di emotività senile e con pochissimi tocchi ironici (meno che mai quelli sorprendenti).

È uno di quei film per cui si finisce col dire “bravi gli attori (vero), bella la fotografia”: verissimo, perché Roger Deakins (ennesima candidatura all’Oscar) è un maestro e qui, dentro questo film tiepido e prevedibile come un centrino di lana sulla cassettiera della nonna, può far cantare in maniera magnifica le sue immagini, può cullare lo spettatore dentro la bellezza del cinema e delle sue luci.

Ecco dov’è l’impero della luce di cui parla il titolo, nel lavoro visuale di un genio del colore e delle ombre cinematografiche, perché se lo cercassimo dentro questo film intessuto di solitudine, repressione e un po’ di mestizia, che fa fatica ad animarsi e ad accendersi come invece vorrebbe, rischieremmo di trovarci delusi.

EmanueleRauco -Cinematografo.it

 

 

IL REGISTA SAM MENDES

Sir Samuel Alexander “Sam” Mendes (Reading, 1º agosto 1965) è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico britannico. Dopo gli esordi a teatro e la direzione artistica della Donmar Warehouse di Londra, Mendes ha fatto il suo debutto alla regia cinematografica con il film American Beauty (1999), per cui ha vinto il Premio Oscar come miglior regista. Nel 2020 gli è stato conferito il cavalierato per i suoi servizi all’arte drammatica.

 

 

 

 

OLIVIA COLMAN

Pseudonimo di Sarah Caroline Colman (Norwich, 30 gennaio 1974), è un’attrice britannica.
Considerata una delle migliori attrici del mondo, ha ricevuto il plauso della critica per la sua interpretazione della Regina Anna di Gran Bretagna nel film biografico La favorita, grazie a cui si è
aggiudicata il Premio Oscar per la miglior attrice. Nel 2021 ha ricevuto la sua seconda candidatura
all’Oscar per la migliore attrice non protagonista per la sua interpretazione nel film The Father – Nulla è
come sembra, mentre nel 2022 viene nuovamente candidata all’Oscar alla miglior attrice per La figlia
oscura.

Molto attiva in campo televisivo, dove possiamo trovarla nella serie Broadchurch (2013-2017), nella miniserie The Night Manager (2016) e nella serie Netflix The Crown (2019-2020), per cui ha vestito i panni della regina Elisabetta II nella terza e quarta stagione; quest’ultimo ruolo le ha anche garantito la vittoria del Premio Emmy nel 2021.

 

 

MICHAEL WARD

Rimasto orfano di padre a due anni, Micheal Ward si è trasferito con la famiglia a Londra dalla Giamaica nel 2001.
Dopo aver lavorato qualche anno come modello ha fatto il suo esordio sul grande schermo nel 2016 nel film Brotherhood, mentre due anni dopo ha interpretato il ruolo principale di Brendan in The A List. Nel 2020 ha vinto il BAFTA perla miglior stella emergente e nel 2022 è stato diretto da Sam Mendes nel film Empire of Light, per cui ha ricevuto una candidatura al BAFTA al miglior attore non protagonista.

 

 

COLIN FIRTH

Colin Andrew Firth (Grayshott, 10 settembre 1960) è un attore britannico naturalizzato italiano.
Ha recitato in numerosi film di successo quali La fidanzata ideale, Il diario di Bridget Jones, La ragazza con l’orecchino di perla, Love Actually – L’amore davvero, L’importanza di chiamarsi Ernest, A Single Man, Mamma Mia!, Orgoglio e pregiudizio, Un matrimonio all’inglese e Il
discorso del re.
Attore versatile e pluripremiato, vince nel 2009 la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e il Premio BAFTA al miglior attore per A Single Man di Tom Ford, ricevendo la sua prima candidatura all’Oscar al miglior attore.
Nel 2011, grazie all’interpretazione di Giorgio VI del Regno Unito ne Il discorso del re di Tom Hooper vince il Premio Oscar come miglior attore protagonista, il Golden Globe per il miglior attore in un film drammatico, il Premio BAFTA e due Screen Actors Guild. Nel 2000 debutta da scrittore con The Department of Nothing.

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EMPIRE OF LIGHT ha ottenuto 1 candidatura a Premi Oscar, 1 candidatura a Golden Globes, 4 candidature aBAFTA,1 candidatura a Critics Choice Award, In Italia al Box Office ha incassato 393 mila euro

Recensioni
6/10 IGN Italia
3/5 Movieplayer
3/5Comingsoon

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MGF

CHIARA

Biografico
Regia di Susanna Nicchiarelli – Italia, Belgio, 2022 –
Durata 106′
con Margherita Mazzucco, Andrea Carpenzano, Carlotta Natoli, Paola Tiziana Cruciani

UN’ODE AL SAPER VIVERE FEMMINILE, QUASI UN MUSICAL DALLE TINTE SFUMATE

Dopo Nico, 1988 e Miss Marx, Susanna Nicchiarelli torna a raccontare di una donna in grado di segnare la storia.
La regista e sceneggiatrice affronta una figura femminile centrale giustapponendola alla sua epoca e contestualizzandola all’interno della società patriarcale.
Chiara viene considerata proprietà del padre e le viene vietato (inizialmente) il privilegio della povertà perché “senza possessione non c’è protezione”, sua sorella biologica trova rifugio in convento per sottrarsi ad un matrimonio combinato, e alle Clarisse sarà vietato uscire dal convento per viaggiare verso i luoghi sacri della religione, perché “sono femmine, non frati”.
L’accento di Nicchiarelli è anche sulla dimensione comunitaria e solidale che si crea intorno a Chiara, che rifiuta ogni impostazione gerarchica all’interno del suo ordine proclamando “qui non ci sono serve” e rifiutando di definirsi badessa. Ma la ragazza resta una figura carismatica che raccoglie e galvanizza l’energia femminile che la circonda (bella la scena in cui, cantando il suo nome, donne di ogni età e provenienza vengono attirate verso il convento), e la sua quieta determinazione conquista cardinali che diventeranno Papi, opera prodigi, cura gli infermi e le anime.

Paola Casella – MyMovies

LA STORIA DI CHIARA D’ ASSISI

Agli inizi del Duecento, una giovane ragazza nobile di nome Chiara scappa con una cara amica dalla casa paterna per seguire le orme di Francesco.
Francesco ha fondato un ordine di frati basato sulla vita in povertà che prontamente accoglie le ragazze. Chiara, spogliata delle sue nobili vesti, non avrà però vita semplice: le opposizioni paterne, quelle del pontificato e infine anche gli scontri con Francesco, ostacoleranno il desiderio della ragazza di servire il popolo. D’altronde, ricordiamolo, a vivere tutto ciò è una donna diciottenne del XIII Secolo.

 

L’UMBRIA PROTAGONISTA

A livello paesaggistico, la protagonista del film è l’Umbria. La terra d’origine non solo di Santa Chiara, ma anche di Nicchiarelli. La location principale è la Chiesa di San Pietro a Tuscania (ambientazione di film come Uccellacci e Uccellini), ampia pietra immersa nel verde che è luminosa di giorno e angosciante di notte, ma sempre credibile. Infine, una nota di merito va alle scene conviviali: in Chiara i banchetti non
mancano e, a seconda della situazione e dei personaggi, sono ricchi, scarni o esotici.

 

LA MUSICALITA’ DI CHIARA

Chiara è un film che viaggia indietro nel tempo ma che porta con se il presente, soprattutto a livello sonoro. La lingua in cui i personaggi
parlano è un volgare dialettale dalle cadenze umbre, che si alterna al latino dei testi e al francese delle canzoni che pervadono le scene. L’utilizzo di queste tre lingue collabora a trasmettere l’atmosfera del XIII Secolo: Chiara parlava in volgare, predicava in volgare perché era la lingua del popolo, un parlato distante dal latino ecclesiastico. Francesco inoltre amava il francese, il suo nome deriva proprio da quella lingua, quella delle chanson. La modernità di Chiara non è tanto nelle parole utilizzate, quanto nel montaggio sonoro: pur non essendo un musical, nel film i personaggi ballano e cantano interrompendo l’azione e venendo pervasi dalla musica e si coglie la volontà della regista di realizzare un film che possa parlare dei giovani di allora e che sia allo stesso tempo in grado di comunicare ai giovani di oggi.

 

IL DUO MAZZUCCO – CARPENZANO

Le scene più belle sono quelle in cui Chiara e Francesco sono fianco a fianco. La forza dei personaggi nella storia è resa dal potente duo attoriale Mazzucco e Carpenzano. Lei, una ragazza di diciotto anni reduce dalla serie di successo L’amica geniale. Lui, un attore promettente del cinema indipendente italiano (soprattutto con i Fratelli D’Innocenzo). I volti di pietra, gli sguardi persi che hanno contraddistinto i personaggi precedentemente interpretati dalla coppia di attori, questa volta vengono adattati allo scenario religioso e pittorico di Chiara. Mazzucco e Carpenzano sanno alternare spiritualità e pathos religiosi ai tipici sentimenti dei giovani: l’entusiasmo, l’idealismo, la voglia di cambiare il mondo.

 

MGF

IL SOGNO DI FRANCESCO

Biografico
Regia di Renaud Fely, Arnaud Louvet – Francia, Belgio, Italia, 2016
durata 90 minuti.
con Elio Germano, Jérémie Renier, Yannick, Renier, Éric Caravaca, Marcello Mazzarella

 

CON UNO STIE CHE SI POTREBBE DEFINIRE QUASI BRESSONIANO, IL FILM SEGUE LE VICENDE DI FRATE ELIA, UNO DEI PIU’ FEDELI COMPAGNI DI FRANCESCO D’ ASSISI

Assisi 1209. Francesco ha appena subito il rifiuto da parte di Innocenzo III di approvare la prima versione della Regola, che metterebbe i fratelli al riparo dalle minacce che gravano su di essi. Intorno a lui, tra i compagni della prima ora, l’amico fraterno Elia da Cortona guida il
difficile dialogo tra la confraternita e il Papato: per ottenere il riconoscimento dell’Ordine, Elia cerca di convincere Francesco della necessità di abbandonare l’intransigenza dimostrata finora, accettando di redigere una nuova Regola. Ma che cosa resterebbe del sogno di Francesco?

Nel libro “I Papi. Storia e segreti” di Claudio Rendina a proposito di Innocenzo III si legge: “Poco poteva essere lo spazio lasciato a certi movimenti pauperistici; si salvarono soltanto quelli che seppero mantenersi nei limiti dell’idealizzazione di una virtuosa vita cristiana, senza atteggiarsi troppo a condannare chi stava in alto, finendo per concordare una Regola e il riconoscimento del loro movimento come vero e proprio ordine religioso in seno alla Chiesa“. La sequenza di apertura, con il pontefice che ritiene utile per i porci la prima stesura della Regola francescana, chiarisce in modo efficace quanto sopra descritto.
Fely e Louvet sono assolutamente consapevoli di essere stati preceduti nel raccontare la figura del poverello di Assisi da nomi come Rossellini, Cavani, Zeffirelli e forse proprio per questo focalizzano la loro attenzione sul rapporto con frate Elia in cui si sviluppa il processo di trasformazione dello spirito originario del francescanesimo. Con uno stile che si potrebbe definire quasi bressoniano ci viene proposta la vicenda dal punto di vista dello stesso Elia del quale si mostra l’adesione allo spirito del fondatore nonché un’amicizia sincera che entrano in conflitto con l’esigenza ‘politica’ di ottenere un riconoscimento ufficiale. Il quale può essere ottenuto solo attenuando la radicalità evangelica ed accettando compromessi che Francesco non può fare propri.
La sceneggiatura, suddividendo la narrazione in capitoli dedicati a personaggi diversi della prima comunità francescana e grazie a una sentita adesione di Elio Germano e di Jeremie Renier ai reciproci personaggi, ci pone di fronte ad un dilemma che attraversa i secoli e si ripropone costantemente sia in movimenti religiosi che laici. Quanto la spinta iniziale può stemperarsi nel corso del tempo con la convinzione che il fine resti immutato ma che i mezzi per raggiungerlo debbano adattarsi alle contingenze?
Non è poi affatto casuale che un film come questo, che riflette sullo spirito evangelico, veda la luce degli schermi nel momento in cui a Roma siede il primo pontefice che abbia assunto il nome del santo di Assisi mandando un segnale preciso alla Chiesa universale.

Giancarlo Zappoli – MyMovies.it

LE RECENSIONI

“San Paolo è la Dottrina, Sant’Agostino il Pensiero, ma San Francesco è qualcosa di più: un’Utopia incarnata la cui forza ha attraversato i secoli concretizzandosi ora nel mandato di Papa Bergoglio, che simbolicamente ne ha assunto il nome. Parte da quest’assunto il film dei francesi Renaud Fély e Arnaud Louvet (…). Bressoniana, e quindi « francescana» nello stile, la pellicola è divisa in capitoletti di esile ordito e tuttavia, anche grazie agli interpreti, le figure dei due protagonisti emergono vivide e convincenti: Elio Germano è un Francesco poetico e sognatore, Jérémie Renier conferisce a Elia una qualità molto umana di dubbio e crisi di coscienza.”
(Alessandra Levantesi Kezich, ‘La Stampa’, 6 ottobre 2016)

 

“Le attenzioni del cinema per il Poverello di Assisi sono state tante: da Rossellini a Zeffirelli alle tre rivisitazioni compiute da Liliana Cavani.
Questo nuovo film francese, recitato in francese anche dagli italiani del cast a partire da Elio Germano, concentra il suo misuratissimo svolgimento su un dilemma di natura politica. (…) La riscrittura della Regola, dice il film, condusse sì al riconoscimento pieno ma a prezzo di rinunce: soprattutto al principio che ci si debba ribellare alla gerarchia se lo si ritiene giusto.”
(Paolo D’Agostini, ‘La Repubblica’, 6 ottobre 201)

 

“Nuova incursione del cinema nelle vicende del Poverello d’Assisi, questa volta scritta e diretta da due registi francesi, Renaud Fély e Arnaud
Louvet, che hanno voluto ‘essere con lui’ nella più spoglia delle autenticità possibili, con un minimo di mediazione artistica, prendendo assai più a modello la lezione didascalica di Roberto Rossellini, piuttosto che le interpretazioni tormentate e radicali di Liliana Cavani o l’elegante spettacolarità di Franco Zeffirelli. Non hanno voluto seguire alcuna biografia e nemmeno legarsi ai testi ufficiali del francescanesimo ma avvicinarsi il più possibile alla figura umana di Francesco, sempre attuale (…). Sogno e realtà, utopia e storia: dal 1209 agli ultimi giorni terreni del santo, il film approccia con un rigore ‘francescano’ la dialettica tra la visione del fondatore e la necessità di incarnarla in una
Regola – il cui cammino fu realmente tribolato – approvata dalla Chiesa, per mantenere una purezza teologica e assicurare una correttezza dottrinale, quando in quell’epoca il pauperismo assumeva anche derive ereticali.
(Luca Pellegrini, ‘Avvenire’, 7 ottobre 2016)

 

“Non è un biopic su San Francesco l’esordio in regia del duo francese Fély-Louvet, bensì una riflessione profonda sul peso di un’utopia
rivoluzionaria di fronte allaV mediocrità e all’ipocrisia del Potere.
La figura e le gesta sempre attuali di Francesco si prestano alla perfezione, per credenti e non, all’obiettivo così come l’obiettivo dei registi è solido dentro a un’arte povera e ‘naturale’. Germano e Renier incantano.”
(Anna Maria Pasetti, ‘Il Fatto Quotidiano’, 6 ottobre 2016)

MGF