L’ULTIMA FOGLIA

Come un’ultima foglia
su un ramo d’autunno,
io resisterò a questo male

ed i miei occhi bagnati di lacrime
continueranno a vedere la tua bellezza,
anche se tu mamma non ci sei più,

perché io ne sono certa
che tu continuerai
a vivere in me

e ci terremo per sempre per mano
come due foglie di primavera
sullo stesso ramo.

 

E’ questa la poesia con la quale la giovane poetessa Inna Viieru vinse l’anno scorso la sezione Ragazzi del nostro Concorso di Poesia Sole D’Autunno. Ma Inna non si è fermata qui e con nostra grandissima gioia apprendiamo in questi giorni che la sua poesia si è classificata prima anche al Premio Internazionale Agenda dei Poeti 2023 e che sarà insignita del Trofeo Città di Milano il prossimo 26 novembre.

 

La giovanissima poetessa, dodicenne di nazionalità ucraina e in Italia solo da pochi mesi, frequenta l’Istituto Comprensivo N. Tommaseo di Busto Arsizio.

In questa poesia dalla straordinaria potenza, l’addio alla madre commuove chi legge, il dolore del distacco è espresso con parole forti e sentite e le parole dolcissime e di affetto profondo aprono a una maturità espressiva e di sentimento notevole e non comune.

 

La forza di questi versi sta proprio nella capacità di esprimere il dolore, ma anche la speranza di ritrovarsi in quel tempo, fuori dal tempo reale, in cui i cuori rinascono l’uno nell’altro per sempre.

Brava Inna! E grazie per averci fatto capire con pochi versi la forza dell’amore!

MGF

 

Regia di James Mangold – USA, 2023
142′ – Avventura, Azione
con Harrison Ford, Antonio Banderas, John Rhys-Davies

 

 

 

 

 

 

GUARDI INDIANA JONES, MALINCONICO, E PENSI: NON SONO GLI ANNI, AMORE, SONO I CHILOMETRI

Di tempo ne è passato da quando Indy saltava tra i treni e si lanciava da ponti traballanti. E che gli anni siano trascorsi ce lo dice proprio il prologo del film, diviso tra passato e presente, a ricordarci com’era un tempo e com’è oggi il professor Jones. Ce lo ricorda l’ormai celebre sequenza ambientata negli anni trenta, in cui un Harrison Ford ringiovanito da un eccellente lavoro di digitalizzazione prende a schiaffi orde di nazisti mentre tenta di riappropriarsi dell’ennesimo oggetto che meriterebbe di stare in un
museo: la leggendaria Lancia di Longino.
Un’avventura che segnò una svolta cruciale per il protagonista: la scoperta di una sola metà di un’antichissima reliquia, il Quadrante di Archimede, che divenne una vera e propria ossessione per il suo caro amico Basil Shaw. Un lungo incipit che immerge nelle atmosfere classiche della saga prima che la storia ci riporti al presente: tre decenni dopo, nel 1969, in una situazione contrapposta alle gesta atletiche di Indiana Jones.
Ormai anziano, ancora più burbero, che litiga con i vicini perché vuole silenzio. Che fatica a farsi rispettare e seguire, in un’aula di ragazzi che sbadigliano e che non lo guardano più con gli occhi innamorati di chi osserva un dio greco. È un Henry sconfitto, stanco, disilluso. Anche quando Helena (Phoebe Waller-Bridge), figlia del caro amico Basil, si presenta alla sua porta per portare avanti le ricerche del defunto padre, affamata di avventura, di pericolo, di soldi, l’unica a possedere le informazioni necessarie a trovare la metà perduta del Quadrante di Archimede, un oggetto grazie al quale il celebre pensatore ellenico poté fare cose incredibili, come prevedere il futuro e… viaggiare nel tempo.
E Jones non ce la fa: è invecchiato, è goffo, non combatte e non scatta più come una volta.
Ma in nome dell’amicizia e dell’affetto che prova per Helena, sua figlioccia, ritrova la forza per indossare il cappello e riappendere la frusta alla cintura. In un ultimo viaggio alla riscoperta di se stesso, una riflessione su cos’è stato, cos’è adesso e cosa sarà
Indiana Jones. Cosa ci lascia davvero Indiana Jones 5? La consapevolezza, forse, che Indy può essere davvero immortale, pur sentendosi fallibile, fuori posto, fuori tempo.
Che passano gli anni, i capelli diventano bianchi, le rughe si appesantiscono, ma che Harrison Ford sarà sempre e comunque Henry Jones. E lo è ancora oggi, con ogni fibra del suo essere. Col suo grugno sarcastico, con gli occhi imbronciati. Vale ancora il prezzo del biglietto vederlo con giacca, cappello e frusta. Ed è per questo che, credendoci con forza, Indiana Jones e il Quadrante del Destino può soddisfare chi non desiderava altro: rivedere lui, per un’ultima volta.

Gabriele Laurino – Everyeye.it

 

CURIOSITA’ su Indiana Jones

  • Il suo nome completo è Henry Walton Jones Jr.. “Indiana” è un soprannome che gli ha dato il padre, ed era il nome del suo cane.
  • I suoi genitori si chiamano Henry Walton Jones Sr. e Anna Mary Jones. Nella serie si scopre che la mamma di Indiana Jones ha avuto una breve relazione clandestina con nientemeno che Giacomo Puccini.
  • George Lucas spiegò la sua idea per Indiana Jones a Steven Spielberg alle Hawaii,dove si era rifugiato temendo che Star Wars diventasse un flop
  • Tom Selleck fu la prima scelta per interpretare il celebre archeologo, ma i suoi impegni con la serie Tv Magnum P.I. gli impedirono di partecipare al progetto.
  • Il locale di Shanghai in cui si svolge la prima scena di Indiana Jones e il tempio maledetto si chiama Club Obi-Wan, chiaro riferimento al maestro Jedi Kenobi
  • Sul set del secondo film della serie Steven Spielberg ha conosciuto l’attrice Kate Capshaw, ancora oggi sua moglie.
  • Nella sequenza flashback che apre Indiana Jones e l’ultima crociata, il giovane Indy interpretato da River Phoenix si colpisce al mento con una frusta, giustificando così la vera cicatrice di Harrison Ford
  • Sean Connery, che in L’ultima crociata interpreta il padre di Indiana, era in realtà soltanto dodici anni più vecchio di Harrison Ford.
  • Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo è l’unico dei film della saga in cui il protagonista non spara mai con la sua pistola.
  • Indiana Jones ha fatto talmente tanto per l’archeologia che ora anche Harrison Ford è un archeologo. Indiana Jones ha contribuito a un boom di iscrizioni a queste facoltà almeno quanto l’ha fatto Jurassic Park per la paleontologia. Nel 2008 Ford fu eletto membro della Board of Directors dell’Archaeological Institute of America.
  • Il cappello viene da Londra, ma è australiano. Indiana Jones non sarebbe Indiana Jones senza il suo cappello. La costumista Deborah Nadoolman ha rivelato di averlo preso a Londra, da Herbert Johnson, noto negozio di cappelli. Si tratta di un modello australiano, modificato fino a diventare il celebre fedora di Indy.
  • Veri serpenti, insetti e topi. Oggi probabilmente si farebbe tutto in computer grafica, ma negli anni ’80 Spielberg ha usato veri serpenti (8mila!) per I predatori dell’arca perduta, veri insetti nella scena della cena di Il tempio maledetto e veri topi per le catacombe di L’ultima crociata.

MGF

Prosegue la collaborazione con l’Istituto Cinematografico Michelangelo Antonioni, il BAFF e il nostro Teatro.

Domenica 29 ottobre, prima della proiezione del film, sarà nostra ospite Noemi Bertoldi, che interpreta Anna (la figlia di Franco Amore) nel film L’ultima notte di Amore. Ma chi è questa nuova promessa del cinema italiano?

Noemi Bertoldi è un talento emergente del panorama cinematografico italiano.
E’ nata a Busto Arsizio nel 1997 e dal 2016 al 2019 ha frequentato l’ Istituto Cinematografico Michelangelo Antonioni (ICMA) sempre a Busto Arsizio, dove tutt’ora vive. Tra il 2016 e il 2019, durante gli anni degli studi, ha recitato in alcune pièce teatrali e a numerosi cortometraggi. E’ un volto conosciuto anche per i molti spot pubblicitari a cui ha preso parte.
Nel 2019 recita nel road-movie Mi chiedo quando ti mancherò di Francesco Fei, nel 2021 in Security di Peter Chelson, nel 2022 in Terry’s show di Matteo Ballarati, nel 2023 in Quello che gli altri non vedono di Matteo Ballarati e Federica Crippa.

 

Non perdetevi quindi l’incontro con Noemi domenica 29 ottobre, prima della proiezione del film L’ultima notte di Amore.

Vi aspettiamo numerosi!

MGF

 

Regia di Andrea Di Stefano – Italia, 2023
120′ – Thriller
con Pierfrancesco Favino, Linda Caridi,
Antonio Gerard

 

 

 

 

 

 

UN POLIZIESCO CHE PROCEDE CON GRANDE CONOSCENZA DEGLI STILEMI DEL GENERE NON TRALASCIANDO MAI IL FATTORE UMANO.

Franco Amore è un poliziotto all’ultimo giorno di lavoro dopo trent’anni di integerrimo servizio nelle forze dell’ordine. Ha già anche a lungo meditato il discorso d’addio in cui ricorda di non avere mai sparato a nessuno anche se gli incarichi pericolosi non gli sono mancati. La sua nuova moglie, la figlia che studia all’estero e gli amici hanno organizzato una festa a sorpresa per lui quando, all’improvviso, viene richiamato in servizio perché è accaduto un fatto grave.
Andrea Di Stefano ha realizzato un film di genere nel quale ci si occupa del mondo del crimine e per il quale sarebbe un crimine rivelare anche pochissimo di più di quanto esposto nella breve sinossi.
Perché, dopo il breve prologo, lo spettatore deve seguire passo dopo passo, decisione dopo decisione, incontro dopo incontro, quella che il regista stesso definisce come una discesa agli inferi del protagonista. Insieme a lui si è chiamati a giustificare o meno delle scelte, a cercare di capire come sia possibile conservare l’integrità e come si riesca a uscire da tunnel apparentemente chiusi sul fondo.
Di Stefano è arrivato a girare il film dopo un lungo e serissimo approfondimento di conoscenza sia del lavoro (e dell’usura che spinge ai
prepensionamenti) del lavoro di poliziotto sia del sottobosco criminale milanese. Questo è un film a cui la comunità cinese di Milano ha dato il suo contributo non solo attoriale ma anche di conoscenza di quanto avviene sul territorio.
Poi c’è Milano, una metropoli prevalentemente ripresa di notte (a partire dai lunghi ma efficaci titoli di testa) che diventa teatro di una vicenda che come plot di base poteva essere ambientata ovunque ma che come mood trova in quelle vie, in quella piazza Duomo deserta, in quel contesto di mix di attività più o meno borderline sul piano della legalità, il suo giusto contesto.
E poi c’è Pierfrancesco Favino.
Nella terza stagione di Boris un personaggio diceva: “Una volta c’erano i ruoli, per gli attori. Adesso li fa tutti Favino”. Tutti certamente no ma quelli che accetta sa come gestirli. Come questo Franco Amore di cui sa cogliere tutte le sfumature di coerenza ma anche di fragilità, di determinazione ma anche di paura. Anche di amore, quello privo della maiuscola del cognome, ma mostrato e dimostrato per la donna con cui condivide la vita.
Un personaggio a cui offre la giusta naturalezza insieme all’altrettanto giusta tensione una Linda Caridi che riesce ad essere credibile anche quando la sceneggiatura la colloca in una situazione al limite della verosimiglianza. Il cinema di genere in Italia abbisogna di film come questo e di registi come Di Stefano che ha la giusta passione ed empatia per affrontarlo.

Giancarlo Zappoli – Mymovies

 

IL REGISTA
ANDREA DI STEFANO

 

 

 

Nato a Roma, si trasferisce – dopo la maturità scientifica e 2 anni spesi all’università di Roma – a New York, dove studia recitazione all’Actors Studio; sempre negli Stati Uniti d’America debutta in teatro e nel cinema in film indipendenti come Smiles, regia di Andrew Hunt, e The Pagan Book of Arthur Rimbaud, regia di Jay Anania. Il primo ruolo importante è quello di protagonista nel film Il principe di Homburg (1997), regia di Marco Bellocchio.

Tra i numerosi film successivamente interpretati, ricordiamo: Il fantasma dell’Opera (1998), regia di Dario Argento e girato a Budapest; Almost Blue, regia di Alex Infascelli, e Prima che sia notte, diretto da Julian Schnabel, entrambi del 2000; Angela (2002), regia Roberta Torre, Il vestito da sposa (2003), diretto da Fiorella Infascelli; Cuore sacro, per la regia di Ferzan Özpetek, e l’opera prima di Alessandro Tofanelli, Contronatura, entrambi del 2005.

Nel 1999 debutta in televisione da protagonista nella miniserie in due puntate, Ama il tuo nemico, regia di Damiano Damiani, in cui ha il ruolo di Fabrizio Canepa, interpretato anche nella seconda serie in onda nel 2001. Sempre in TV è protagonista, nel ruolo di Umberto Boccioni, del film TV I colori della gioventù (2006), regia di Gianluigi Calderone, e della serie tv Medicina generale (2007), regia di Renato De Maria, in cui ha il ruolo di Giacomo Pogliani, che interpreta anche nella seconda stagione della serie in onda nel 2009, ma che è stata dapprima spostata da Rai 1 a Rai 3 e poi soppressa. Nel 2014 debutta alla regia con Escobar, con protagonista Benicio del Toro.
Come regista firma
Escobar (Escobar: Paradise Lost) (2014)
The Informer – Tre secondi per sopravvivere (The Informer) (2019)
L’ultima notte di Amore (2023)

 

PIERFRANCESCO FAVINO

 

 

 

 

Attore romano classe 1969, Pierfrancesco Favino è stato negli anni protagonista di grandi successi cinematografici, italiani e internazionali.
Vincitore del David di Donatello per “Romanzo criminale” e per “Romanzo di una strage”, e più volte premiato nel corso della sua carriera, Favino ha due figlie, avute dalla compagna Anna Ferzetti.

—> Nel 2014, Pierfrancesco Favino (che nel 2019 è stato protagonista de “Il traditore” di Marco Bellocchio, mentre nel 2020 lo vedremo in “Hammamet” di Gianni Amelio e ne “Gli anni più belli” di Gabriele Muccino) ha prestato il volto a Mimmo, protagonista del film noir “Senza nessuna pietà” di Michele Alhaique.
Per interpretare questo ruolo Favino è ingrassato di oltre venti chili. «Mia figlia mi chiamava Ciccio. Quando sono dimagrito erano tutti un po’ delusi».

—>Diverse sono le produzioni internazionali a cui ha preso parte, da “Una notte al museo” a “Le cronache di Narnia – Il principe Caspian”, da “Miracolo a Sant’Anna” ad “Angeli e Demoni” e “World War Z”

—> Favino è un grande sportivo. Quando ha portato sullo schermo Gino Bartali, nella miniserie “Gino Bartali – L’intramontabile”, ha preso il suo ruolo talmente sul serio da macinare ben cinquemila chilometri in bicicletta. E’ anche un grandissimo tifoso della Roma.

—> Quando ha recitato in “Suburra”, Pierfrancesco Favino è stato protagonista di un curioso episodio. Impegnato a girare una scena davanti al Parlamento, il regista gli ha fatto ripetere una battuta talmente tante volte che sono intervenuti i Carabinieri, intimandolo (insieme a tutta la troupe) di allontanarsi.

—>Pierfrancesco Favino e Anna Ferzetti stanno insieme da 16 anni.
I due hanno vissuto in case separate fino a qualche mese dopo la nascita della loro primogenita. Anna, per Favino, sex symbol adorato dalle donne di ogni età, è il grande amore della vita.

 

 

 

Il film ha ottenuto 5 candidature ai Nastri d’Argento, In Italia al Box Office “L’ultima notte di Amore” ha incassato 3,3 milioni di euro .

Recensioni
8/10 Hynerd.it
4/5 Cineforum.it
4/5 Coming Soon
3,5/5 Mymovies

 

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MGF

Regia di David Bickerstaff.
Un film con Robert Lindsay. Genere Arte

Gran Bretagna, 2023, durata 90 minuti.

 

 

 

 

 

 

JAN VERMEER: PRESTO E BENE, UNA CONTRADDIZIONE IN TERMINI

Johannes van der Meer, conosciuto come Jan Vermeer, è uno degli artisti più rinomati del secolo d’oro olandese.
Eppure, non vi sono che trentaquattro opere attribuite universalmente alla sua mano; alcuni studiosi si spinsero ad attribuirgliene sessantasei in totale, cifra che comunque non si avvicina neanche all’opera completa di altri artisti anche meno famosi.
E dunque, perché questa fama universale? Come ha fatto questo artista a diventare celebre in tutto il mondo, pur avendo dipinto meno di quaranta opere, per di più nemmeno enormi ed epiche?

Diana e le Ninfe - 1654         

Vermeer dipinse quasi esclusivamente piccole scenette di genere, con qualche raro e primitivo excursus biblico o mitologico.
Eppure, i suoi personaggi, gente comune che all’epoca si poteva incontrare per la strada senza doversi prendere la briga di andare in un museo, sono diventati celebri in tutto il mondo; pur senza ricordare il nome dell’artista, tutti noi abbiamo in mente almeno qualcuna delle sue opere, anche tralasciando l’ormai celeberrima Ragazza con l’Orecchino di Perla.

 

È come se i suoi personaggi, resi immortali dai pregiati colori a olio e dalle fini pennellate della sua mano, fossero entrati nella mente comune, incidendosi a vivo fuoco nella memoria collettiva.
Il motivo, a mio parere, è la sua estrema precisione, l’uso sapiente del colore e lo studio della luce, motivi questi che lo costrinsero a dipingere così poche opere nel corso della vita: Vermeer era un artista lento e metodico, che preferiva di gran lunga la qualità alla quantità.
Le sue opere hanno una chiara discendenza dalla pittura fiamminga, di cui ricordo i maggiori esponenti: Jan Van Eyck, Pieter Bruegel, Anthony Van Dyck, Rogier van der Weiden. I fiamminghi ispirarono una moltitudine di artisti in tutta Europa, dai Veneti come ad esempio Giorgione fino a Albrecht Dürer e Hans Holbein, e una delle più attente rielaborazioni dei principi pittorici della corrente fiamminga si ritrova forse proprio in Vermeer, che ha fatto sue molte delle tecniche pittoriche utilizzate.

 

 

                 

La principale tecnica è la sovrapposizione di velature lievi di colore: questo permette a Vermeer di creare quelle magnifiche sfumature di luce ed ombra; sembra quasi che sia il materiale a forgiare la luce, e non viceversa: è la luce a prendere vita al contatto con la pelle, la stoffa, il legno, e non viceversa, in un’esaltazione della quotidianità che porta semplici personaggi ad innalzarsi nell’olimpo del mistico, quasi del divino. Una visione quasi religiosa, che ricorda Gesù quando disse: “Quando farete una di queste cose al più piccolo dei miei fratelli, l’avrete fatta a me”, e che esalta la banalità della routine quotidiana, trasformando ogni gesto in un rituale di importanza mistica, spingendoci a chiederci se anche ogni nostra piccola azione potrebbe essere in realtà pregna di un significato che noi, dalla nostra visione soggettiva, non siamo in grado di cogliere.

 

Un’altra importante lezione che potremmo cogliere dall’arte di Vermeer, nella nostra epoca dove tutto è disponibile subito allo schioccare delle nostre dita, è la pazienza: “presto” non significa necessariamente “bene”. In un mondo che va avanti in una corsa precipitosa, l’arte di Vermeer, i suoi trentaquattro dipinti lungo l’arco della sua intera vita, ci ricorda che per fare qualcosa di veramente bello è necessario fermarsi, rallentare, prendere nota di ciò che ci circonda e meditarci, ricercare una perfezione che forse non è di questo mondo, ma che è sempre una caratteristica del divino di cui siamo umana espressione.
Non possiamo arrogarci la pretesa di essere perfetti ogni minuto della nostra vita, ma possiamo invece rivendicare il diritto di fare le cose che amiamo con calma e metodo, senza premura, applicando un leggero strato di pittura in un piccolo punto della nostra esistenza, senza fossilizzarci sulla routine quotidiana sempre più frenetica ma ricavandoci giorno per giorno dei piccoli spazi tutti per noi in cui possiamo essere liberi di abbandonarci alla piacevolezza di ricercare un piccolo particolare, qualcosa che avremmo mancato di vedere, precludendoci la gioia di ritrovare un breve istante di perfetta letizia che ha il potenziale di illuminare l’intera giornata.

Possiamo opporci alla corrente che ci spinge a volere tutto pronto senza che noi alziamo un dito, possiamo creare noi stessi qualcosa di bello, distaccandoci dalla freddezza consumistica che ricorda così tanto il peccato di gola per permetterci di prendere in mano anche solo un piccolo dettaglio della nostra vita, di ritoccarlo ancora e ancora fin quando non sarà così bello da forgiare la luce che lo sfiora, elevandone la bellezza e mostrando al mondo che la cura e l’amore rendono ogni cosa più bella, più calda, più luminosa.

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

 

“Vermeer non sarà più lo stesso (…). Questa è più di una mostra. È un miracolo”
⭐⭐⭐⭐⭐ – The Guardian

“Un’esperienza unica nella vita (…). Mozzafiato”
⭐⭐⭐⭐⭐ – The Times

MGF