FORSE IL CUORE

Sprofonderà l’odore acre dei tigli
nella notte di pioggia. Sarà vano
il tempo della gioia, la sua furia,
quel suo morso di fulmine che schianta.

 

 

Rimane appena aperta l’indolenza,
il ricordo di un gesto, d’una sillaba,
ma come d’un volo lento d’uccelli
fra vapori di nebbia. E ancora attendi,

 

 

non so che cosa, mia sperduta; forse
un’ora che decida, che richiami
il principio o la fine: uguale sorte,
ormai. Qui nero il fumo degli incendi

 

 

 

secca ancora la gola. Se lo puoi,
dimentica quel sapore di zolfo
e la paura. Le parole ci stancano,
risalgono da un’acqua lapidata;
forse il cuore ci resta, forse il cuore.

 

 

 

Salvatore Quasimodo

“Forse il cuore” è tratta da “Giorno dopo giorno”, la raccolta che Quasimodo pubblica nel 1947, a ridosso del conflitto mondiale che lacera l’anima del mondo e dell’individuo.
La descrizione degli odori acridi dei tigli, la gioia effimera, la sua furia e il suo fulmine che squarcia, tutto si dissolve nella notte. Ciò che resta è soltanto un’apertura all’indolenza, al ricordo sfumato di gesti e sillabe, simile al volo lento di uccelli in una nebbia che svela solo parzialmente il suo mistero. Si avverte un’attesa indefinita, la ricerca di qualcosa di perduto, forse un’ora decisiva che potrebbe determinare un principio o una fine, ma che sembrano ormai destinati all’uguale fine.
Nell’oscurità della notte, il fumo degli incendi persiste, secca la gola, e Quasimodo invita a dimenticare il sapore del zolfo e la paura che si insinuano nell’anima. Le parole, seppur cariche di significato, diventano stancanti, emergono come pietre da un’acqua che è stata lapidata.
E in questo scenario di fugacità e desolazione, il poeta si interroga sulla persistenza del cuore. Forse è l’unica costante, la sola entità che resta dopo che tutto il resto si è dissolto nella fugacità del tempo.
“Forse il cuore” è una poesia che abbraccia il transitorio e la malinconia, dipingendo con maestria la bellezza e la fragilità dell’esistenza umana. Quasimodo, con la sua prosa evocativa, ci invita a contemplare la profondità degli istanti fugaci e della nostalgia per ciò che è perduto, offrendoci un riflesso della nostra stessa umanità nell’incessante fluire del tempo.

 

Fonte: Alessandria.today

 

MGF

L’ERBA HA POCO DA FARE

L’erba ha poco da fare –
sfera d’umile verde
per allevare farfalle
e trastullare api.

 

Muoversi tutto il giorno
a melodie di brezza,
tenere in grembo il sole
ed inchinarsi a tutto.

 

Infilare rugiada
la notte come perle,
e farsi così bella
da offuscare duchesse.

 

Quando muore, svanire
in odori divini
come dormienti spezie
e amuleti di pino.

 

 

Ed abitando nei granai sovrani
i suoi giorni trascorrere nel sogno.
L’erba ha poco da fare
ed io vorrei esser fieno!

 

 

Con un linguaggio limpido e lineare, arricchito da metafore e similitudini che ampliano l’orizzonte della lirica, la poetessa descrive la vita semplice dell’erba soffermandosi sui particolari più minuti: le farfalle e le api che le volano intorno e vi trovano nutrimento, il vento leggero che muove i suoi fili creando una dolce melodia, il sole che essa accoglie nel suo grembo, il suo inchinarsi a tutte le cose, le gocce di rugiada che sembrano perle, la sua bellezza semplice che supera quella delle più eleganti dame aristocratiche. Nelle ultime due strofe viene descritta la morte dell’erba che, divenuta fieno, continua a emanare nell’oscurità dei granai un dolcissimo profumo simile a quello delle spezie orientali o delle pigne che pendono dai rami come amuleti.
Fino a questo punto la lirica ha un andamento descrittivo e sembra voler celebrare l’armonia, la bellezza, la purezza, la semplicità della natura. Gli ultimi due versi però imprimono una svolta al componimento e ne forniscono la chiave di lettura.

Emily Dickinson

 

Esprimendo il desiderio di essere fieno, l’autrice fa indirettamente comprendere che anche lei vorrebbe svanire dolcemente come l’erba, lasciando un segno della sua presenza, del suo passaggio sulla terra.

In effetti Emily Dickinson ha lasciato una traccia di sé, leggera e profumata: le sue poesie che hanno la delicatezza, lo splendore, la dolcezza dell’erba.

 

 

Fonte: Ist. Ed. Atlas

 

MGF

CANDELE

 

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese,
dorate, calde e vivide.

 

 

Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.

Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora il loro antico lume.

 

 

E guardo avanti le candele accese.
Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

 

 

Sebbene incominci con toni malinconici e nostalgici, questa poesia costituisce un potente invito a celebrare la vita, a godere del tempo che abbiamo a disposizione, senza pensare troppo al passato, senza proiettarci troppo verso il futuro. Non perdiamo tempo prezioso. Sfruttiamolo per sorridere, per aiutare, per amare.

“Candele” è il frutto di una visione malinconica e nostalgica della vita, descritta come un percorso lineare che si consuma via via che si va avanti: nella lunga fila di candele che si stagliano dinanzi e dietro all’io lirico, quelle spente rappresentano la vita svanita, il passato; quelle ancora accese, invece, rappresentano l’avvenire, quel pezzo di tempo che rimane da vivere. I versi di Konstantinos Kavafis sviluppano la tematica del tempo affiancando all’immagine delle candele quella della morte, che non è mai nominata apertamente, ma la cui aura è ben presente in tutto il componimento: l’io lirico non vuole voltarsi, perché non vuole vedere tutte le candele spente che si è lasciato indietro.
Non è pronto a constatare quanta vita sia trascorsa, quanti eventi siano già accaduti, quanti anni siano passati. Si accontenta, perciò, di osservare le candele ancora accese, “dorate, calde e vivide”, che si stagliano dinanzi a lui e che gli ricordano che ha ancora del tempo da vivere.


 

“Candele” fa parte dell’opera omnia che, rinvenuta dopo la morte di Kavafis, è stata pubblicata in Grecia nel 1936.
Con questa poesia ci immergiamo nei temi e nelle forme care a Kavafis. Il poeta greco ha cercato, con la sua produzione, di riproporre le tematiche e i valori frequentati dai poeti classici per trasmetterli ai lettori dell’età moderna.

Konstantinos Petrou Kavafis (1863-1933) è conosciuto come “il più antico dei poeti moderni”. Di origini greche, ma nato e cresciuto ad Alessandria d’Egitto, è uno degli autori che, più di tutti, si sono adoperati per creare un ponte fra la tradizione e l’innovazione. Della produzione poetica dell’autore di “Candele”, che risente soprattutto nelle fasi iniziali dell’influenza simbolista, ci sono rimasti poco più di 150 frammenti, oggi raccolti nel volume “Kavafis”.

 

Fonte: Libreriamo.it

 

MGF

LA MORTE NON E’ NIENTE

 

La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare;
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.

 

 

Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.
Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima:
pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto:
è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente,
solo perché sono fuori dalla tua vista?

 

 

 

Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace.

 

 

Non c’è modo di indagare il mistero eterno della morte, di penetrare il suo abisso senza luce, che appare perso in una insondabile assenza di significato.
“La morte si sconta vivendo”, diceva con parole atrocemente esatte un grande poeta italiano, Giuseppe Ungaretti, ricordando che la morte è un sentire tipico dei vivi, perché solo chi è vivo concepisce lo strazio della morte e, soprattutto, il dolore inguaribile per la perdita dei propri cari.
La verità è che la morte è una realtà inammissibile per i viventi che non riescono a capacitarsi di questa separazione definitiva, questa barriera invalicabile capace di separare l’amante dall’amato, l’amico dall’amico, genitori e figli, persone che in vita erano unite da legami saldi e indissolubili. Ciò che ci strazia della morte è la separazione, ma forse dovremmo comprendere che proprio questa stessa parola “separazione” è la matrice stessa del mistero della vita. Death is nothing at all, La morte non è niente, sembra richiamare la filosofia espressa da Sant’Agostino sulla continuità eterna della vita e l’immortalità dell’anima. Ne risulta una poesia consolatoria e non stucchevole che si posa sull’anima con l’effetto benefico di una preghiera.

Bisogna pensare morte e vita come un tutt’uno, perché nulla nell’universo è mai passato o perduto per sempre, tutto ritorna in un ciclo continuo. Ogni cosa esiste sullo stesso piano e morte e vita non sono che due volti una stessa realtà coesistente. Intesa in quest’ottica anche una parola dal peso di pietra, come “eternità”, assume tutto un altro significato. Perché ciascuno è eterno nel cuore di chi ama e non può esserci separazione definitiva, finché esiste il ricordo.


HENRY SCOTT HOLLAND

Henry Scott Holland (Ledbury, 27 gennaio 1847 – 17 marzo 1918) è stato un teologo e scrittore britannico, Regius Professor of Divinity presso l’Università di Oxford. Era anche un canonico della Christ Church. Le Scott Holland Memorial Lectures (conferenze) sono tenute in sua memoria. Nacque a Ledbury, Herefordshire, figlio di George Henry Holland (1818-1891) di Dumbleton Hall, Evesham, e dell’Hon. Charlotte Dorothy Gifford, figlia di Lord Gifford.
Studiò a Eton, dove fu allievo dell’autorevole maestro William Johnson Cory, e al Balliol College dell’Università di Oxford, dove ha conseguito una laurea di prima classe in Literae Humaniores. Nel periodo trascorso a Oxford è stato fortemente influenzato da Thomas Hill Green. Aveva i gradi di Oxford di Doctor of Divinity, Master of Arts, e il titolo onorario di Doctor of Letters.
Dopo la laurea, è stato eletto fellow della Christ Church di Oxford. Nel 1884, lasciò Oxford per la Cattedrale di San Paolo, dove fu nominato canonico.
Era profondamente interessato alla giustizia sociale e fondò il PESEK (Politica, Economia, Socialismo, Etica e cristianesimo), che condannava lo sfruttamento capitalista della povertà urbana. Nel 1889, ha fondato la Christian Social Union (CSU).
Nel 1910, è stato nominato Regius Professor di Divinity all’Università di Oxford, incarico che mantenne fino alla sua morte nel 1918. È sepolto nel cimitero della chiesa All Saints di Cuddesdon, vicino a Oxford. A causa del suo cognome, Mary Gladstone lo chiamava affettuosamente “Flying Dutchman” e “Fliegende Hollander”.
Mentre era nella Cattedrale di Saint Paul, Holland pronunciò un sermone nel maggio 1910, dopo la morte del re Edoardo VII, intitolato Death the King of Terrors in cui esplora le risposte naturali, ma apparentemente contraddittorie alla morte: la paura dell’inspiegabile e la fede nella continuità. È dalla sua discussione di quest’ultimo che forse è il suo scritto più noto, Death is nothing at all, è tratto.

Fonte: SoloLibri.net

 

MGF

 

MAGIA DELLA VITA

 

In un campo ho veduto una ghianda:
sembrava così morta, inutile.
E in primavera ho visto quella ghianda
mettere radici e innalzarsi,
giovane quercia verso il sole.

 

 

Un miracolo, potresti dire:
eppure questo miracolo si produce
mille migliaia di volte
nel sonno di ogni autunno
e nella passione di ogni primavera.
Perché non dovrebbe prodursi
nel cuore dell’uomo?

 

Khalil Gibran, con la sua poesia “Magia della vita”, ci offre una riflessione profonda e ispiratrice sul miracolo della crescita e del rinnovamento. Attraverso la metafora di una ghianda che si trasforma in quercia, Gibran ci invita a riflettere sul potenziale nascosto e sulla capacità di trasformazione che risiede in ognuno di noi.

 

KAHLIL GIBRAN

Gibran Kahlil Gibran è nato il 6 gennaio 1883 a Bisharri (Libano), da una famiglia piccolo-borghese maronita.
I genitori erano cristiani maroniti, cattolici della Palestina settentrionale; crebbe con due sorelle, Mariana e Sultana, e il fratellastro Boutros, nato dal primo matrimonio della madre, rimasta vedova.
Famiglia unita e permeata dal rispetto reciproco, i Gibran si videro costretti ad emigrare per ragioni economiche negli Stati Uniti nel 1895.

A dodici anni Kahlil cominciò a frequentare le scuole del posto ed è per questo motivo che il suo nome venne abbreviato in Kahlil Gibran, formula che usò successivamente anche nei suoi scritti in inglese.
Tornato nel 1899 per tre anni a Beirut per studiare la lingua e la letteratura araba, soggiornò poi in Libano e Siria, ma nel 1902, desideroso di rivedere la terra che aveva segnato gran parte della sua vita, tornò a Boston.
Nel 1908 è a Parigi per studiare all’Accademia di Belle Arti e si avvicina alla filosofia di Nietzsche e di Rousseau.
Nel 1920 è tra i fondatori a New York della Lega Araba, che doveva rinnovare la tradizione araba con l’apporto della cultura occidentale
Il successo (occidentale) di Gibran, infatti, si deve soprattutto al fascinoso sincretismo religioso che permea “Il profeta” (scritto nel 1923): su tutto prevale l’idea di una generica concezione della divinità, in cui vi si intrecciano immagini e simboli di ogni religione e filosofia: cattolicesimo, induismo, islamismo, mistici sufi accanto agli idealisti europei, romanticisti, Nietzsche e mistici arabi.
Per Kahlil Gibran l’esistenza è il tempo regalato per ricomporre la frattura esistente tra noi e Dio; quando nell’individuo bene e male, perfezione e imperfezione, piccoli sentimenti e grandi passioni riusciranno a convivere, ecco che nella coincidenza degli opposti si manifesteranno saggezza, perfezione e felicità.
La mistica di Gibran sfugge a ogni classificazione, il poeta parla per immagini ricorrendo a un mondo simbolico dai mille significati, che per la sua universalità sollecita l’uomo indù e il cristiano, l’ateo e il credente.
Oltre che scrittore Gibran fu anche pittore e organizzatore di cultura, in controtendenza al suo carattere schivo ed introverso.
Tra le altre sue opere segnaliamo “Il miscredente”, breve romanzo scritto nel 1908 per la rivista “L’Emigrante”, in cui impegno politico e tensione civile prevalgono ancora sulla dimensione religiosa.
Altre sue produzioni da ricordare sono il testo autobiografico (in cui esprime il dolore per la morte dell’adorata moglie Selma), “Le ali infrante” (1912), scritto in inglese e le “Massime spirituali”, un testo tipico della sua produzione, tra l’aforistico e il mistico, teso a una conciliazione tra occidente e oriente.
Gibran muore a New York il giorno 10 aprile 1931, stroncato dalla cirrosi epatica e dalla tubercolosi; la sua salma fu portata, secondo le sue volontà, in un eremo libanese.
Due anni dopo la morte viene pubblicata un’opera che aveva lasciato incompiuta: “Il Giardino del Profeta”.

Fonti: aprilamente.info / biografieonline.it

 

MGF