Regia di Daniel Auteuil – Francia, 2024 – 115′
con Daniel Auteuil, Grégory Gadebois, Sidse Babett Knudsen

 

 

 

 

Daniel Auteuil dirige, interpreta e scrive, con Steven Mitz, “La misura del dubbio”, un legal drama che molto deve al maestro del brivido, Alfred Hitchcock (il riferimento più evidente è “Il caso Paradine”, 1947), ma anche al recente “Anatomia di una caduta” di Justine Triet (produzione francese Palma d’Oro a Cannes76 e Oscar 2024 per la miglior sceneggiatura). La vicenda si rifà a quella narrata sul blog dell’avvocato penalista oggi scomparso Jean Yves Moyart, che firmava con lo pseudonimo di Maître Mô.
La storia. Sud della Francia, oggi. Jean Monier è un avvocato che, dopo aver fatto assolvere un assassino, ha deciso di non accettare più casi di giustizia penale. Una sera, per fare un piacere alla ex moglie, anche lei avvocato, accetta momentaneamente la difesa d’ufficio di Nicolas Milik (Grégory Gadebois), accusato di aver ucciso la moglie con la complicità del suo amico Roger Marton (Gaëtan Roussel). L’uomo è un “gigante” dall’aria sperduta, che non sembra neppure rendersi pienamente conto di quello che gli sta succedendo: giura di non aver mai voluto far del male alla moglie, una donna dedita all’alcool che si disinteressa completamente dei loro figli, di cui si occupa solo Milik. Convinto sempre più della sua innocenza Monier, si rimette pienamente in gioco e farà di tutto per farlo assolvere.
Auteuil dirige con mano sicura – e interpreta con maestria – un film giocato sui flashback, un “espediente” ormai divenuto un classico della narrazione cinematografica. In un arco temporale di sei anni, si comincia in Corte d’assise e poi si torna indietro, al momento dell’arresto; si ritorna ancora in aula con gli interrogatori e poi ai lunghi mesi in carcere, tra un colloquio e l’altro, e di nuovo in tribunale con le arringhe di accusa e difesa, per approdare al verdetto, sorprendente eppure in qualche modo atteso, come una sorta di “liberazione”. In un crescendo di tensione e coinvolgimento, forti di una sceneggiatura serrata e impeccabile, Auteuil e il cast tutto agganciano lo spettatore che si trova, quasi senza rendersene conto, a ondeggiare continuamente tra i due poli: colpevole o innocente. E se le protagoniste dei citati film di Hitchcock e Triet hanno in comune un atteggiamento distaccato, sono due donne “algide” che non mirano a suscitare empatia nel pubblico, tenendolo però saldamente agganciato al filo del ragionamento, il personaggio di Milik sembra cesellato da Grégory Gadebois proprio per suscitarne il coinvolgimento emotivo. “Il caso Milik – sottolinea il regista – ha tutte le caratteristiche del crimine ordinario, come sfortunatamente se ne contano tanti ogni giorno. E nel film, racconto come gli elementi di un processo sono in fondo di una banalità estrema e come le giurie condannino o assolvano basandosi su poche certezze reali”. E poi, quando il film finisce, con un imprevedibile salto in avanti nel tempo, si resta davvero con l’amaro in bocca, per una storia vera purtroppo di agghiacciante attualità.

Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana

Tematiche: Abusi sui minori, Alcolismo, Amicizia, Cronaca, Famiglia, Famiglia – genitori figli, Giustizia, Matrimonio – coppia


Il grande Daniel Auteuil è il regista del film La misura del dubbio, ma anche l’attore principale dello stesso nei panni di un avvocato (Jean Monier) che, più che della mera difesa dell’imputato (innocente o colpevole) e conseguente retribuzione, è interessato, direi ammaliato, da quella entità sfuggente, spesso difficilmente definibile, in mancanza di una chiara confessione, che è la verità.


Il tema della colpa e della colpevolezza è centrale in questo film, che si rivolge non solo agli avvocati e a chi ha scelto di assumere la difesa di persone accusate di crimini orribili, ma a tutti quelli che si trovano sottoposti a dilemmi che li costringono a una scelta.


Con un finale scioccante La misura del dubbio coinvolge dalle prime inquadrature. Con riprese dall’alto delle paludi, delle distese di sabbia, dei laghi e dei canneti che caratterizzano la Camargue. Così come le riprese oniriche dei tori camargue, che simboleggiano tutta quella violenza che avvocato e imputato, insieme contro tutti, sentono addosso. Il toro che carica è quella carica emotiva che arriva, urta, investe e in qualche modo porta a un termine, a un punto, a una fine.


Recensioni
2,5/5 Sentieri selvaggi
3,2/5 MyMovies
3,4/5 Cinematographe

 

JEAN-YVES MOYART

Jean-Yves Moyart è conosciuto anche con lo pseudonimo di Maître Mô .
I genitori di Jean-Yves Moyart sono insegnanti di lettere. Nato a Lille il 21 ottobre 1967, Jean-Yves Moyart ha frequentato tutti gli studi nella stessa città. Nel 1992 ha conseguito un DEA in “teoria del diritto e scienze giudiziarie” presso l’ Università di Lille-II e nello stesso anno si è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Lille. Esercita la professione di avvocato penalista “dinanzi alle corti d’assise e ai tribunali penali”.

 

 

Dopo aver collaborato con Philippe Simoneau e Christian Delbé, apre il proprio studio con Jérôme Pianezza nel 1994. Per sette anni è stato responsabile del modulo di formazione in diritto penale presso la CRFPA di Lille, dal 2002 al 2009.
Dalla primavera del 2008 scrive un blog sotto lo pseudonimo di Maître Mô; nel 2011 il sito ha raggiunto i centomila lettori, un successo dovuto anche ad una citazione del Maestro Eolas, pseudonimo di un avvocato francese specializzato in diritto degli immigrati e degli stranieri presso il foro di Parigi. Nello stesso anno, una raccolta di testi di Maître Mô è stata pubblicata da La Table Ronde con il titolo Au guet-apens : chroniques de la justice pénale ordinaire.

 

 

 

Nel 2012 il suo sito è stato visitato ogni giorno da 20.000 lettori. Il suo blog ha ispirato la sceneggiatura del film Le Fil (La misura del dubbio) , di Daniel Auteuil.
Nel 2015 l’avvocato ha dichiarato che metà della sua attività riguardava casi che beneficiavano del patrocinio gratuito.

 

 

Moyart ha partecipato anche alla rivista di cronaca XXI Secolo, dove ha firmato l’articolo “Au bout de la Défense”.
Nel 2021 il suo account Twitter è seguito da 70.000 iscritti.
Malato di cancro, è morto il 20 febbraio 2021 all’età di 53 anni.
Di notte approfittava dell’insonnia per raccontare le storie che aveva vissuto. Dopo averle pubblicate sul suo blog sotto lo pseudonimo di Maître Mo, e storie più forti sono state raccolte in un libro – Au guet-apens – che ha suscitato numerose vocazioni. Nessuno come lui sapeva raccontare l’umanità delle aule di tribunale. Le sue storie hanno la forza della realtà. I lettori possono così scoprire nelle parole scritte da Moyart il cuore immenso di questo avvocato umanista che “portò il dolore degli altri, si consumò per loro e rise solo di se stesso”, secondo le parole della editorialista giuridica di Le Monde Pascale Robert-Diard.

 

 

Fonti varie

MGF

 

Regia di Maura Delpero – Italia, Francia, Belgio, 2024 – 119′
con Tommaso Ragno, Giuseppe De Domenico, Roberta Rovelli

 

 

 

 

 

Leone d’argento – Gran premio della giuria all’81^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

IL RACCONTO DI UN MONDO ANTICO OSSERVATO CON GRANDE ATTENZIONE E RESTITUITO CON COMMOVENTE NATURALEZZA.

Maura Delpero con “Vermiglio” compone un’opera che si snoda come una dolce e dolente poesia contadina ambientata nel Südtirol dai richiami estetico-narrativi al cinema di Ermanno Olmi. La regista di “Maternal” (2019) torna a confrontarsi con la dimensione femminile, il tema della maternità, recuperando la cornice socioculturale della propria memoria familiare, dell’Italia di ieri, sulle macerie della Seconda guerra mondiale.
La storia. Italia 1945, nel piccolo paesino di Vermiglio, sulle montagne dell’Alto Adige, vive una numerosa famiglia: il padre è maestro di scuola, la madre a casa si adopera affinché ciascun figlio sia sfamato e adeguatamente accudito. La maggiore, Lucia, sperimenta per la prima volta l’amore, con Pietro, un ex soldato siciliano. L’inizio di un cambiamento per tutti…
“Vermiglio – ha spiegato la regista – è un paesaggio dell’anima, un ‘lessico famigliare’ che vive dentro di me, sulla soglia dell’inconscio, un atto d’amore per mio padre, la sua famiglia e il loro piccolo paese. Attraversando un tempo personale, vuole omaggiare una memoria collettiva”.
Con grande raffinatezza la Delpero ha costruito un racconto di notevole spessore narrativo e stilistico, facendo tesoro della lezione di Olmi. Il suo è uno sguardo capace di cogliere con efficacia i ritmi della natura, la ciclicità dolce e malinconica, e al contempo gli stati interiori della famiglia protagonista, della comunità montana. La regista posa il suo sguardo soprattutto sui più piccoli, emblema di purezza e grazia, di non corruzione morale, richiamando anche le atmosfere poetiche pascoliane; e ancora il mondo femminile e la dimensione della maternità, con i suoi sconvolgimenti ma anche spinte di cambiamento e speranza.
Nel racconto, tra i vari componenti della famiglia, seguiamo la traiettoria di Lucia, una giovane donna che nel corso delle quattro stagioni narrate incontra prima l’amore, poi la maternità e successivamente lo smarrimento. Una donna chiamata a fronteggiare diverse sfide nella sua giovane esistenza, che dimostra però tempra d’animo e resilienza, traendo forza proprio dall’innocenza di una figlia appena nata.
La Delpero con “Vermiglio” firma l’opera della maturità artistica, in perfetto equilibrio tra forma e contenuto, tra eleganza visiva e densità narrativa, dimostrandosi pronta per un riconoscimento di peso alla Mostra.

Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana

Tematiche: Bambini, Dolore, Donna, Ecologia, Educazione, Famiglia, Famiglia – fratelli sorelle, Famiglia – genitori figli, Fede, Guerra, Metafore del nostro tempo, Morte, Musica, Scuola, Storia, Tematiche religiose.


Film sul confine e dunque sul crinale. Sempre. Tra pace e guerra, quiete e tempesta, angoscia e serenità, inconscio e presa di coscienza, valli e vette, realtà e onirismo.


Ispirato alle radici familiari della Delpero, Vermiglio mette in scena con una profonda sensibilità la tensione tra tradizione e cambiamento, tra il ciclo naturale delle stagioni e le trasformazioni imposte dalla guerra.


Recensioni
3,7/5 MYmovies
4/5 Cineforum
9/10 Ondacinema

 

UN FILM FELICEMENTE STRATIFICATO, CHE GUARDA ALLA STRUTTURA DEL ROMANZO FAMILIARE PER DARE VOCE A TEMI DIVERSI

Vermiglio nasce da un sogno fatto dalla regista qualche mese dopo la morte del padre, in cui il genitore tornava nella casa della sua infanzia, a Vermiglio: «Aveva sei anni e due gambette da stambecco, mi sorrideva sdentato, portava questo film sotto il braccio: quattro stagioni nella vita della sua grande famiglia». Il film è la traduzione di quel sogno, «una storia di bambini e di adulti, tra morti e parti, delusioni e rinascite, del loro tenersi stretti nelle curve della vita, e da collettività farsi individui». Vermiglio è dunque un omaggio che Delpero tributa alla propria storia familiare, ripercorsa mescolando i ricordi giunti fino a lei con una buona dose di immaginazione, utile a colmare il vuoto che separa inevitabilmente ogni racconto familiare dalla vita reale vissuta da chi è venuto prima di noi.

 

Vermiglio è un film felicemente stratificato, che guarda alla struttura del romanzo familiare per dare voce a temi diversi. Racconta la guerra senza mostrarla, perché il dramma del conflitto resta fuori campo e viene osservato solo attraverso le conseguenze che provoca nella mente dei soldati e in chi attende che a tornare sia un figlio, un padre, un marito. È un film sulla maternità come destino (la moglie del maestro, come pure la nonna della regista, partorirà dieci volte) e come spinta all’autodeterminazione (la vita di Lucia cambierà e la porterà a scegliere tra il paese di origine e la città). È, ancora, un film in cui i sogni si confrontano (spesso confliggendo) con le strutture familiari e le aspettative della comunità, in cui i desideri si scontrano con codici morali e regole religiose dai contorni punitivi.

 

La forma scelta da Delpero per vestire questo racconto di comunità è di grande rigore. Nelle scene che mostrano quattro stagioni della vita familiare dei Graziadei tutto è composto e misurato, in un grande equilibrio di toni e posture narrative. Il cinema che sceglie di raccontare il passato si confronta con la difficoltà di rendere verosimili ambienti, volti, costumi e dialoghi. Le facce che popolano il film, risultato di un lunghissimo lavoro di casting, sono espressione della scelta della regista di entrare per quanto possibile nell’ambiente che sceglie di mostrare, aderendo alle storie di vita al centro del racconto. Per buona parte degli attori è la prima esperienza cinematografica; grazie a una perfetta conduzione della loro recitazione, regalano al film un tono e un colore che lo rendono straordinariamente convincente e onesto.

 

I volti, un po’ fermi nel tempo, sono quelli che si incontrano ancora oggi nelle vallate trentine, con tratti somatici, espressioni e cadenze che difficilmente trovano spazio nel racconto cinematografico e televisivo nazionale.
Il film è parlato in dialetto solandro e le riflessioni sul dolore della guerra, sul mistero della morte, sulle regole della morale sono espresse nella lingua usata nelle osterie, alle fontane del paese e nei focolari domestici. Per dare corpo e credibilità alle azioni e ai pensieri della gente che popola quella parte di mondo, luoghi in cui ancora oggi il dialetto prevale sull’italiano, la scelta era pressoché obbligata. La decisione di dotare il film di una voce antica è una scelta di aderenza al mondo raccontato, ma è anche lo strumento per immergere lo spettatore nella musicalità che la parlata popolare riesce a restituire.

 

Particolarmente efficaci, nella loro spontaneità, sono i pensieri pronunciati dai bambini, che puntellano il racconto come un coro greco, sussurrando verità e fornendo un punto di vista diretto e poetico sulla vita che scorre nelle terre alte.
L’ambiente è protagonista del film, ma è raccontato senza solennità, a partire dalla relazione che gli abitanti della piccola comunità montana stringono con la natura. Delpero ha girato in ambienti di grande suggestione dove la natura è imponente (la Val di Sole, la Val di Pejo, la Bassa Atesina), ma ha scelto di rendere l’ambiente parte integrante del racconto, evitando di ridurla a una cornice esotica e spettacolare della narrazione.

 

Maurizio Cau – Rivista Il Mulino

 

MGF

 

 

 

Docu-film di Francesco Fei
con Fabrizio Bentivoglio

 

 

 

 

Racconta la vita tormentata del pittore divisionista Giuseppe Pellizza, celebre per il suo Quarto Stato e per la sua capacità di indagare l’animo e la società umana. Esplorando i luoghi in cui visse e la sua sensibilità artistica con la guida di Bentivoglio come “coscienza narrante”, Pellizza pittore da Volpedo svela le emozioni dell’artista e la sua visione della realtà attraverso un raffinato uso di inquadrature ispirate ai colori delle sue opere. La tragica fine di Pellizza, che si tolse la vita nel 1907 sopraffatto dal dolore per la perdita della moglie, è parte di questo racconto e rende ancora più profondo il legame emotivo dello spettatore con la sua arte.


Il desiderio che l’artista sembra trasmettere al pubblico è un invito alla ricerca della “verità”, che è sempre stata presente nelle sue opere come documentazione storica e partecipazione emotiva alla vita delle persone che rappresentava, sia nella sua fase divisionista sia nell’afflato simbolista che caratterizza l’ultimo periodo della sua produzione.


Esplorando i luoghi in cui visse e la sua sensibilità artistica con la guida di Bentivoglio come “coscienza narrante”, il docufilm svela le emozioni dell’artista e la sua visione della realtà attraverso un raffinato uso di inquadrature ispirate ai colori delle sue opere.


PELLIZZA DA VOLPEDO, ICONA DEL RINNOVAMENTO

Pellizza da Volpedo – Il Quarto Stato – Galleria d’Arte Moderna, Milano

Pellizza da Volpedo è per molti aspetti un artista molto singolare; un po’ per la tecnica pittorica, il cosiddetto divisionismo, un po’ per l’utilizzo sottile e sapiente dell’arte come manifesto politico.
La sua opera più celebre, Il Quarto Stato, è una grandiosa manifestazione di questa sua inclinazione politica. Nasce nel 1868 in un’agiata famiglia di contadini, e sin da piccolo si interessa al disegno.
Deciso e determinato, girò l’appena nata Italia per studiare arte, intessé reti di contatti con altri artisti e infine rientrò a Volpedo, sua città Natale, dove si sposò.

 

 

Già nelle fasi iniziali della propria carriera abbandonò la pittura tradizionale per un tipo molto particolare di pittura, detta divisionismo: una sorta di branca del pointillisme francese, che proprio in quel periodo trovava la massima rappresentazione grazie ad artisti come Georges Seurat. Prende anche spunto dalla Scapigliatura italiana, una corrente che con fermezza decise di abbandonare i temi mitologici cari al periodo Neoclassico per spostare l’arte su un piano più intellettuale, introspettivo e sentimentale.
Con l’avvicinarsi del volgere del secolo, tuttavia, questa spinta si focalizzò su temi più pressanti nella vita quotidiana delle persone: le condizioni di vita.
Ora, la cultura, l’introspezione, i sentimenti sono elementi fondamentali per essere a proprio agio con la propria vita. Ma purtroppo, la rapidissima evoluzione dell’industria, con tutto ciò che ne conseguiva, metteva in ginocchio buona parte delle persone, costringendole ad esistenze vuote, ripetitive, in cui la stanchezza fisica e mentale non concedeva di pensare ad altro che a continuare a lavorare per sperare di sfamare la propria famiglia.
Sono le condizioni che, una ventina d’anni più tardi, portarono la Russia a rovesciare la dittatura zarista; ma nella neonata Italia, che ancora non aveva un senso di unità e partiottismo pari a quelle che potevano nascere in uno Stato già unito da secoli, la ribellione stentava a sorgere.
Ci furono scioperi, nacquero i partiti socialisti e sorsero gli anarchici, ma la verità era una sola: la classe operaia era troppo piegata dalle fatiche per poter davvero sorgere e ribellarsi contro il capitalismo, che imponeva loro ritmi di lavoro massacranti, in condizioni igieniche e di sicurezza pietose, per una paga misera e totalmente inadeguata.

Fiumana – Pellizza da Volpedo – Pinacoteca di Brera, Milano

È qui che entra in gioco l’arte, e Pellizza è l’esponente di punta del movimento: nel suo Quarto Stato, come nei precedenti Fiumana e Ambasciatori della Fame, appaiono persone comuni, uomini e donne che si potrebbero incrociare per la strada. Persone chiaramente stanche, la fatica accumulata è ben visibile nella tensione delle loro membra, ma persone che vogliono creare un mondo migliore, un mondo in cui i loro figli non si dovranno preoccupare di mancare dal lavoro per una malattia.
Persone in marcia per un mondo migliore, un esercito: sì, un esercito. Perché l’unica salvezza dei grandi imprenditori dell’epoca non era altro che la stanca passività degli operai, resi schiavi dalla stanchezza e dalla mancanza di una vera speranza.

 

Ambasciatori della Fame – Pellizza da Volpedo

Così come i colori sulle tele di Pellizza sono minuscoli puntini che, messi l’uno accanto all’altro, creano un’immagine, così anche i proletari potevano, e da un certo punto di vista dovevano, unirsi e creare qualcosa, non una semplice immagine su tela, ma un movimento, un’onda colossale che doveva travolgere il capitalismo e il sottile ma costante abominio dell’alienazione da catena di montaggio, la vera morte di tutto ciò che ci rende uomini e non macchine.
E anche oggi non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte ai piccoli ma oltraggiosi soprusi quotidiani, non dobbiamo, per citare Tempi Moderni di Charlie Chaplin, “prenderla alla leggera ed evitare le emozioni”. Le emozioni sono ciò che ci distinguono dalle macchine, e soffocarle non sarà mai altro che un temporaneo sollievo, come un goccio di acqua fredda su una scottatura: ma sul lungo termine, dovremo cercare una cura definitiva, chiedere aiuto e lasciarci aiutare.
Questo è ciò che Pellizza cerca di mostrarci: divisi, non siamo altro che dei piccoli puntini senza senso. È quando ci uniamo, quando ci stringiamo l’uno all’altro in un muto gesto di compassione e fratellanza, che siamo in grado di creare immagini gigantesche, semplici ma dalla potenza comunicativa ineguagliabile. Cancelliamo l’istinto, esacerbato dai social network, di saltarci alla gola l’un l’altro; ci ricorderemo che siamo tutti fratelli, tutti abitanti di un mondo che è casa nostra, e che in quanto tale va trattato con amore e cura.

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

MGF

Regia di Margherita Ferri – Italia, 2024 – 121′
con Samuele Carrino, Claudia Pandolfi, Andrea Arru

 

 

 

 

 

 

“IL RAGAZZO DAI PANTALONI ROSA” PORTABANDIERA DELLA LOTTA AL BULLISMO

Roma, Andrea è un adolescente brillante, il più bravo della scuola, amatissimo in famiglia e con un talento canoro fuori dal comune. Questo lo porta a vincere una borsa di studio e a entrare in una scuola prestigiosa, dove con il coro si esibirà anche davanti al Papa. Tutto sembra filare liscio, finché Andrea non si imbatte in un ragazzo ripetente affascinante e glaciale, che prima lo tratta da amico e poi inizia a deriderlo, avviando la macchina del fango fino a innescare ripetuti episodi di bullismo. Le cose non migliorano quando Andrea si presenta a scuola con pantaloni rosa e smalto nero alle unghie. L’umiliazione si fa sempre più assordante…
Tra tenerezza e bruciante dolore. Si muove su tale binario il film “Il ragazzo dai pantaloni rosa” di Margherita Ferri, che racconta la storia vera di Andrea Spezzacatena, morto suicida nel 2012 a soli 15 anni, perseguitato da offese e calunnie tra banchi di scuola e pagine dei social. Una vittima di cyberbullismo, che ha dato vita a un movimento di sensibilizzazione portato avanti dalla madre Teresa Manes, che ha scritto un libro e si è spesa negli anni perché tragedie simili non riaccadano. Protagonisti Claudia Pandolfi, Samuele Carrino, Sara Ciocca, Andrea Arru e Corrado Fortuna. Il copione è firmato da Roberto Proia.
“Ho cercato di lavorare con gli attori – ha spiegato la regista – per creare personaggi tridimensionali, sfaccettati, che non fossero dogmaticamente divisi in ‘buoni e cattivi’ nel tentativo di realizzare un film che possa parlare sia ai bulli sia alle vittime”. È chiaro il perimetro de “Il ragazzo dai pantaloni rosa”: cronaca del dolore, ma anche aperture di vita e speranza, quella che Andrea Spezzacatena non ha potuto cogliere appieno ma che il suo ricordo, il suo pesante lascito, invitano a fare.
Il film, infatti, è giocato su tonalità solari e ombrose, ossia la gamma di colori accesi e contrastanti che popolano il mondo dell’adolescenza; un racconto che vuole unire insieme denuncia e dialogo.
La storia di Andrea è simbolo di una società adulta distratta da mille occorrenze, che trascura le giovani generazioni, in balia di solitudine e di casse di risonanza social fuorvianti. Andrea era un ragazzo di appena quindici anni, pieno di possibilità, che è rimasto schiacciato dal peso di una crudeltà perpetrata dai suoi pari. Il film di Margherita Ferri non è perfetto, composto qua e là da soluzioni narrative semplici e un po’ ingenue, ma nell’insieme è un racconto onesto, importante ed educativo. Tratteggia le fragilità esistenziali dove è centrale la custodia e il dialogo familiare, ma anche il patto fiduciario con l’istituzione scolastica. Un film che corre veloce, caldo, delicato e torrenziale, mosso da un desiderio di denuncia e condivisione, affinché storie come quelle di Andrea non si ripetano.

Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana

Tematiche:
Adolescenza, Amicizia, Amore-Sentimenti, Bullismo, Cronaca, Dialogo, Dolore, Educazione, Famiglia, Famiglia – genitori figli, LGBTQ+, Mass-media, Media, Morte, Psicologia, Scuola, Solidarietà


«Le parole sono come dei vasi di fiori che cadono dai balconi Se sei fortunato li schivi e vai avanti sulla tua strada, ma se invece sei un po’ più lento, ti centrano in pieno e ti uccidono». Andrea Spezzacatena


Scegliendo di narrare la vita di un adolescente dal suo punto di vista, ma collocando le sue riflessioni in un lasso temporale che è esterno alla vita stessa, si dà ad esse una dimensione più profonda e un’etica più consapevole grazie a uno sguardo narrativo privilegiato. Il protagonista, che rievoca le proprie vicende, le filtra attraverso una nitida luce binoculare che ripercorre i fatti e contemporaneamente li intesse con commenti lapidari e toccanti che restituiscono allo spettatore la dimensione del giovane che è ormai diventato adulto.


Margherita Ferri è un’abile regista che sa raccontare con pathos ed empatia il mondo giovanile, gestendo molto bene le scene di insieme che raccontano la poliedricità dei comportamenti durante un’età fluida e ipersensibile.


Recensioni
3,5/5 MYmovies
3/5 Movieplayer
3,5/5 Ciak Magazine

 

BULLISMO E CYBERBULLISMO

Il contrasto dei fenomeni del bullismo tradizionale e di quello online, conosciuto come cyberbullismo, rappresenta una sfida globale alla quale non possiamo sottrarci.
Gli effetti dannosi di tali comportamenti hanno implicazioni sociali molto ampie, sia per le vittime che per gli autori: tra queste, c’è lo sviluppo sociale personale, l’educazione ed il benessere psico-fisico dei minorenni, con effetti negativi che possono protrarsi fino all’età adulta.

 

Le statistiche più recenti delle Nazioni Unite riportano che nel mondo 1 studente su 3, tra i 13 e i 15 anni, ha vissuto esperienze di bullismo. Nel mondo 246 milioni di bambini e adolescenti subiscono ogni anno qualche forma di violenza a scuola o episodi di bullismo. Anche il cyberbullismo è in sensibile aumento: la maggior parte dei dati disponibili riguarda indagini condotte nei Paesi industrializzati con percentuali di minorenni che lo hanno sperimentato che variano tra il 5% e il 20% della popolazione minorile, con conseguenze psicofisiche che vanno dal mal di testa ai dolori allo stomaco e/o che si manifestano con mancanza di appetito o disturbi del sonno.
Questi fenomeni, che risultano essere molto diffusi nei paesi ad alto reddito, richiedono un intervento politico efficace e misurato, proprio perché la loro diffusione provoca effetti dannosi sull’apprendimento e sul comportamento dei minorenni tali da ridurre l’efficacia degli investimenti pubblici nell’istruzione e nel benessere dei bambini di ogni paese.

 

Il BULLISMO può essere definito come un comportamento intenzionale e aggressivo che si verifica ripetutamente contro una o più vittime con le quali vi è un reale o percepito squilibrio di potere. Normalmente le vittime si sentono totalmente vulnerabili ed incapaci di difendersi autonomamente. L’aggressione può essere fisica nei confronti di persone o beni di proprietà, oppure verbale, sia diretta che indiretta: tra le forme di aggressione verbale diretta ci sono gli insulti e le minacce, tra quelle indirette c’è la diffusione di voci finalizzate al danneggiamento della reputazione altrui e l’esclusione da un gruppo.
Il bullismo di solito si manifesta senza provocazione e costituisce una forma di violenza tra pari, una dinamica dove i bulli spesso agiscono per frustrazione, rabbia o per raggiungere uno status sociale dominante.

 

Il CYBERBULLISMO ha le stesse caratteristiche del bullismo tradizionale, con la particolarità che questo si manifesta attraverso la rete internet, in diverse forme e con conseguenze potenzialmente più gravi del bullismo offline.
Per cyberbullismo si intende qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione e diffusione illecita di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica. Le finalità sono le stesse del bullismo tradizionale, ma nel cyberbullismo il comportamento lesivo ha maggior risonanza e risulta spesso inarrestabile, negando alla vittima qualsiasi rifugio o via di fuga.
Proprio per la continua evoluzione della rete e delle nuove tecnologie, le forme di manifestazione del cyberbullismo possono variare ed aumentare nel tempo.

Fonte: UNICEF

 

di Teresa Manes
Graus Edizioni, 2023

 

 

 

 

 

 

MGF

Regia di Tim Mielants – USA, Irlanda, Belgio, 2024 – 96′
con Cillian Murphy, Ciarán Hinds, Emily Watson

 

 

 

 

 

 

UNA PICCOLA OPERA DI STRAORDINARIA INTIMITÀ E AMMIREVOLE PRECISIONE DELLA MESSA IN SCENA

Il perimetro in cui si muove è quello dei film “Magdalene” (2002) di Peter Mullan e “Philomena” (2013) di Stephen Frears. È “Piccole cose come queste” (“Small Things Like These”) diretto da Tim Mielants, su copione di Enda Walsh, ispirato al romanzo “Piccole cose da nulla” di Claire Keegan (Einaudi). Il film mette a tema gli scandali nelle Case Magdalene in Irlanda, dove giovani donne venivano forzate ad entrare perché rimaste orfane oppure perché incinte fuori dal matrimonio; luoghi che spesso si rivelavano non di accoglienza ma di sfruttamento. Protagonista il Premio Oscar Cillian Murphy (“Oppenheimer”, 2023), che partecipa al film anche in veste di produttore insieme a Matt Damon e Ben Affleck. Titolo d’apertura della Berlinale 2024 e presentato alla 19a Festa del Cinema di Roma, il film è nelle sale con Teodora dal 28 novembre 2024.
La storia. Irlanda, 1985. A pochi giorni dal Natale Bill Furlong, che ha una ditta di carbone, scopre che nel convento locale alcune ragazze si trovano in condizioni di sofferenza, private della libertà. Bill è sposato ed è padre di cinque ragazze, pertanto non riesce a distogliere lo sguardo come molti gli consigliano. Inoltre, da orfano, rivede nelle giovani chiuse nella struttura la condizione di sofferenza e solitudine patita da bambino, figlio di una ragazza madre…
“Da un po’ di tempo io e Cillian – ha dichiarato il regista – volevamo tornare a lavorare insieme dopo l’esperienza di ‘Peaky Blinders’. Cercavamo temi e storie che ci sarebbe piaciuto raccontare e questo succedeva prima di ‘Oppenheimer’. Un giorno lui e sua moglie sono venuti da me con il libro di Claire Keegan. Si trattava di qualcosa che a livello personale potevo comprendere a fondo: la storia di un uomo maturo che si confronta con un dolore e lotta per fare la cosa giusta”.
Mielants costruisce un racconto perimetrato attorno al romanzo della Keegan. Approfondisce il dramma vissuto nelle Case Magdalene in Irlanda attraverso lo sguardo di un quarantenne con alle spalle le cicatrici di un’infanzia senza madre e da adulto padre di cinque figlie. È soprattutto la paternità a renderlo permeabile alle sofferenze delle giovani rinchiuse nelle Case Magdalene; a loro guarda come se fossero le figlie ma anche sua madre, che lo ha cresciuto da sola. E nonostante nella comunità locale siano in molti a consigliargli di abbassare lo sguardo e pensare alla sua vita tranquilla, già segnata da un’economia incerta e precaria, Bill non accetta compromessi, non volendo convivere con rimorsi. E nel cuore del clima natalizio, simbolo di accoglienza, si adopera per dare riparo a una giovane in difficoltà. Punto di forza di “Piccole cose come queste” è senza dubbio l’interpretazione di Murphy, che lavora molto in sottrazione con sguardi e silenzi intensi, dando voce, risonanza, ai demoni interiori del protagonista, combattuto nella scelta da compiere.
La regia di Mielants è sobria e composta, evitando toni urlati o enfatizzazioni. Quello che manca, a ben vedere, è un po’ di approfondimento sulla vicenda delle Case Magdalene in Irlanda; la narrazione rimane infatti troppo in superficie, lavorando più di suggestioni che di contenuto. Bene, dunque, ma non benissimo, se consideriamo la complessità del tema, che meriterebbe una maggiore articolazione.

Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana

Tematiche Amore-Sentimenti, Chiesa Cattolica, Cronaca, Donna, Educazione, Famiglia, Famiglia – genitori figli, Letteratura, Libertà, Povertà, Psicologia, Storia, Violenza


Il belga Tim Mielants – che con Murphy aveva lavorato nella serie Peaky Blinders – si concentra sul protagonista, e sui suoi silenzi, sul suo dolore imploso e evidente, e col direttore della fotografia Frank van den Eedenmette mette sullo schermo immagini di grande potenza visiva, notturne, crepuscolari, dolenti, affascinanti.


L’azione emotiva della pellicola è chiusa in una fotografia cupa, tra offuscamenti, non-fuoco e primissimi piani che inglobano e raccordano la luce domestica. Oltre l’abitazione di Bill, oltre il convento, a fare da protagonista, è la neve, la nemesi di ogni scrittore e scrittrice irlandese.


Piccole cose come queste è un film a cui bisogna dare fiducia. Scorre lento, non ha colpi di scena o improvvisi capovolgimenti di fronte. Nonostante la sua durata contenuta (96 minuti), la pellicola diretta da Tim Mielants ha l’incredibile potere di catturarci e portarci in una dimensione narrativa da cui si esce solo ai titoli di coda.


Recensioni
3,3/5 Mymovies
3,5/5 Coming Soon
7/10 Ondacinema

 

L’ORRORE DELLE CASE MAGDALENE

 

 

 

Le Case Magdalene erano residenze-prigioni attive in Irlanda a partire dal XIX secolo e rimaste aperte sino al 1996. Fino a quell’anno, infatti, le donne nubili e incinte, o considerate promiscue, venivano incarcerate a vita in queste strutture di proprietà della Chiesa Cattolica.

 

 

Quello delle Magdalene House fu uno scandalo cominciato nel lontano 1837 e continuato per quasi duecento anni, fino al 1990 inoltrato. Perché, per quanto il mondo e le società occidentali siano progredite, le donne sono spesso state lasciate indietro, come la presenza di queste prigioni testimonia. Non dovevi aver commesso un crimine per essere rinchiusa in una casa Magdalene: bastava che in un borgo o in un quartiere si spargesse la voce sulla presunta – non importa se reale o inventata – promiscuità della donna per segnare il suo destino che, dal momento dell’ingresso in un simile luogo, sarebbe stato segnato da una schiavitù totale nei confronti delle suore.

 

 

Per quanto in molte abbiano provato a uscirne, la maggior parte delle donne veniva ripresa quasi immediatamente e convinta a suon di isolamenti e percosse a non tentare più la fuga. L’unico vero modo per scampare a quelle case era infine la morte.
La vita per le donne delle case Maddalena era durissima: servitù totale e fatiche fisiche immani, punizioni corporali crudeli che spesso portavano alla morte… e ancora malattie, malnutrizione, depressione che spesso sfociava nel suicidio: l’opera di tortura messa in atto dalle suore – anche se loro la chiamavano redenzione – era così completa.
Manodopera gratuita, anche, al punto che spesso le suore accettavano presso le case Magdalene anche donne generalmente considerate virtuose, ma scomode ai parenti per i più svariati motivi, come per esempio un’eredità o un secondo matrimonio contratto dal padre di giovani ragazze orfane di madre.

 

 

Tutto ciò non importava alle suore e alle sfere alte della politica, egualmente interessate a finanziare queste case-prigioni. Bastava una piccola mazzetta affinché qualunque donna venisse ammessa nelle case Magdalene, a prescindere dalle sue presunte colpe.
Per quanto riguarda invece le nubili incinte, era praticamente certo che, una volta partorito, i bambini sarebbero stati venduti (anche se, ancora una volta, le suore parlavano di adozione) a coppie sterili o a contadini alla ricerca di futura manodopera gratuita.

 

Adesso che le case Magdalene sono state destituite, in molte di queste residenze le recenti opere di restauro e riammodernamento hanno fatto sì che nei giardini venissero trovati innumerevoli cadaveri di donne e neonati, al punto che di recente sono esplosi diversi scandali nazionali e internazionali. Innumerevoli gli irlandesi che vogliono far luce non solo sulle colpe del clero, ma anche sul legame tra i governi che si sono succeduti negli anni e le sfere alte dell’apparato religioso irlandese.

Fonte: LangEditore

 

MGF