Regia di Daniel Auteuil – Francia, 2024 – 115′
con Daniel Auteuil, Grégory Gadebois, Sidse Babett Knudsen
Daniel Auteuil dirige, interpreta e scrive, con Steven Mitz, “La misura del dubbio”, un legal drama che molto deve al maestro del brivido, Alfred Hitchcock (il riferimento più evidente è “Il caso Paradine”, 1947), ma anche al recente “Anatomia di una caduta” di Justine Triet (produzione francese Palma d’Oro a Cannes76 e Oscar 2024 per la miglior sceneggiatura). La vicenda si rifà a quella narrata sul blog dell’avvocato penalista oggi scomparso Jean Yves Moyart, che firmava con lo pseudonimo di Maître Mô.
La storia. Sud della Francia, oggi. Jean Monier è un avvocato che, dopo aver fatto assolvere un assassino, ha deciso di non accettare più casi di giustizia penale. Una sera, per fare un piacere alla ex moglie, anche lei avvocato, accetta momentaneamente la difesa d’ufficio di Nicolas Milik (Grégory Gadebois), accusato di aver ucciso la moglie con la complicità del suo amico Roger Marton (Gaëtan Roussel). L’uomo è un “gigante” dall’aria sperduta, che non sembra neppure rendersi pienamente conto di quello che gli sta succedendo: giura di non aver mai voluto far del male alla moglie, una donna dedita all’alcool che si disinteressa completamente dei loro figli, di cui si occupa solo Milik. Convinto sempre più della sua innocenza Monier, si rimette pienamente in gioco e farà di tutto per farlo assolvere.
Auteuil dirige con mano sicura – e interpreta con maestria – un film giocato sui flashback, un “espediente” ormai divenuto un classico della narrazione cinematografica. In un arco temporale di sei anni, si comincia in Corte d’assise e poi si torna indietro, al momento dell’arresto; si ritorna ancora in aula con gli interrogatori e poi ai lunghi mesi in carcere, tra un colloquio e l’altro, e di nuovo in tribunale con le arringhe di accusa e difesa, per approdare al verdetto, sorprendente eppure in qualche modo atteso, come una sorta di “liberazione”. In un crescendo di tensione e coinvolgimento, forti di una sceneggiatura serrata e impeccabile, Auteuil e il cast tutto agganciano lo spettatore che si trova, quasi senza rendersene conto, a ondeggiare continuamente tra i due poli: colpevole o innocente. E se le protagoniste dei citati film di Hitchcock e Triet hanno in comune un atteggiamento distaccato, sono due donne “algide” che non mirano a suscitare empatia nel pubblico, tenendolo però saldamente agganciato al filo del ragionamento, il personaggio di Milik sembra cesellato da Grégory Gadebois proprio per suscitarne il coinvolgimento emotivo. “Il caso Milik – sottolinea il regista – ha tutte le caratteristiche del crimine ordinario, come sfortunatamente se ne contano tanti ogni giorno. E nel film, racconto come gli elementi di un processo sono in fondo di una banalità estrema e come le giurie condannino o assolvano basandosi su poche certezze reali”. E poi, quando il film finisce, con un imprevedibile salto in avanti nel tempo, si resta davvero con l’amaro in bocca, per una storia vera purtroppo di agghiacciante attualità.
Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana
Tematiche: Abusi sui minori, Alcolismo, Amicizia, Cronaca, Famiglia, Famiglia – genitori figli, Giustizia, Matrimonio – coppia
Il grande Daniel Auteuil è il regista del film La misura del dubbio, ma anche l’attore principale dello stesso nei panni di un avvocato (Jean Monier) che, più che della mera difesa dell’imputato (innocente o colpevole) e conseguente retribuzione, è interessato, direi ammaliato, da quella entità sfuggente, spesso difficilmente definibile, in mancanza di una chiara confessione, che è la verità.
Il tema della colpa e della colpevolezza è centrale in questo film, che si rivolge non solo agli avvocati e a chi ha scelto di assumere la difesa di persone accusate di crimini orribili, ma a tutti quelli che si trovano sottoposti a dilemmi che li costringono a una scelta.
Con un finale scioccante La misura del dubbio coinvolge dalle prime inquadrature. Con riprese dall’alto delle paludi, delle distese di sabbia, dei laghi e dei canneti che caratterizzano la Camargue. Così come le riprese oniriche dei tori camargue, che simboleggiano tutta quella violenza che avvocato e imputato, insieme contro tutti, sentono addosso. Il toro che carica è quella carica emotiva che arriva, urta, investe e in qualche modo porta a un termine, a un punto, a una fine.
Recensioni
2,5/5 Sentieri selvaggi
3,2/5 MyMovies
3,4/5 Cinematographe
JEAN-YVES MOYART
Jean-Yves Moyart è conosciuto anche con lo pseudonimo di Maître Mô .
I genitori di Jean-Yves Moyart sono insegnanti di lettere. Nato a Lille il 21 ottobre 1967, Jean-Yves Moyart ha frequentato tutti gli studi nella stessa città. Nel 1992 ha conseguito un DEA in “teoria del diritto e scienze giudiziarie” presso l’ Università di Lille-II e nello stesso anno si è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Lille. Esercita la professione di avvocato penalista “dinanzi alle corti d’assise e ai tribunali penali”.
Dopo aver collaborato con Philippe Simoneau e Christian Delbé, apre il proprio studio con Jérôme Pianezza nel 1994. Per sette anni è stato responsabile del modulo di formazione in diritto penale presso la CRFPA di Lille, dal 2002 al 2009.
Dalla primavera del 2008 scrive un blog sotto lo pseudonimo di Maître Mô; nel 2011 il sito ha raggiunto i centomila lettori, un successo dovuto anche ad una citazione del Maestro Eolas, pseudonimo di un avvocato francese specializzato in diritto degli immigrati e degli stranieri presso il foro di Parigi. Nello stesso anno, una raccolta di testi di Maître Mô è stata pubblicata da La Table Ronde con il titolo Au guet-apens : chroniques de la justice pénale ordinaire.
Nel 2012 il suo sito è stato visitato ogni giorno da 20.000 lettori. Il suo blog ha ispirato la sceneggiatura del film Le Fil (La misura del dubbio) , di Daniel Auteuil.
Nel 2015 l’avvocato ha dichiarato che metà della sua attività riguardava casi che beneficiavano del patrocinio gratuito.
Moyart ha partecipato anche alla rivista di cronaca XXI Secolo, dove ha firmato l’articolo “Au bout de la Défense”.
Nel 2021 il suo account Twitter è seguito da 70.000 iscritti.
Malato di cancro, è morto il 20 febbraio 2021 all’età di 53 anni.
Di notte approfittava dell’insonnia per raccontare le storie che aveva vissuto. Dopo averle pubblicate sul suo blog sotto lo pseudonimo di Maître Mo, e storie più forti sono state raccolte in un libro – Au guet-apens – che ha suscitato numerose vocazioni. Nessuno come lui sapeva raccontare l’umanità delle aule di tribunale. Le sue storie hanno la forza della realtà. I lettori possono così scoprire nelle parole scritte da Moyart il cuore immenso di questo avvocato umanista che “portò il dolore degli altri, si consumò per loro e rise solo di se stesso”, secondo le parole della editorialista giuridica di Le Monde Pascale Robert-Diard.
Fonti varie
MGF