Regia di Gabriele Salvatores – Italia, 2024 – 124′
con Pierfrancesco Favino, Dea Lanzaro, Antonio Guerra
UN VIAGGIO GEOGRAFICO MA INSIEME SENTIMENTALE E STORICO
“Già solo il fatto di essere venuto in possesso di una storia scritta da Federico Fellini e Tullio Pinelli, di cui si sapeva poco o niente, mi è sembrato meraviglioso. Quando poi ho letto questo ‘trattamento-sceneggiatura’ di circa 80 pagine, la meraviglia è diventata desiderio e spinta creativa”. Così Gabriele Salvatores (Premio Oscar per “Mediterraneo”, 1991) parla della sua ultima fatica di regista e sceneggiatore: “Napoli-New York”, nella sale italiane dal 21 novembre 2024.
La storia. Napoli, 1949, un palazzo crolla, i morti e i feriti non si contano. Celestina (Dea Lanzaro) ha nove anni, è orfana e ha visto qualche mese prima la sorella maggiore, Agnese, partire per gli Stati Uniti, all’inseguimento del soldato che le ha promesso di sposarla. Nella tragedia ha perso la zia, che si occupava di lei. Traumatizzata e sola, senza nessuno a cui chiedere aiuto la bambina si rifugia dal suo amico Carmine (Antonio Guerra), poco più grande, che vive arrangiandosi come può. Carmine incontra George (Omar Benson Miller), un cuoco afroamericano che lavora su una nave della Marina statunitense in procinto di salpare per gli Stati Uniti. Per una serie d’imprevedibili coincidenze Carmine e Celestina finiscono per imbarcarsi clandestinamente sulla nave diretta a New York. Sbarcati con uno stratagemma per aggirare i controlli di frontiera, si mettono alla ricerca di Agnese, ma all’indirizzo riportato sulla lettera, che Celestina custodisce tanto gelosamente, non c’è traccia della ragazza. È l’inizio di una girandola di avventure che coinvolgerà anche il commissario di bordo, Domenico Garofalo (Pierfrancesco Favino), un burbero dal cuore d’oro, che già sulla nave li aveva aiutati, tenendoli nascosti, ma soprattutto sfamandoli e coinvolgendoli in piccoli lavoretti. A Little Italy i bambini troveranno anche la premurosa moglie di Garofalo (Anna Ammirati) e l’intraprendente direttore del giornale della comunità italiana (Antonio Catania), ma soprattutto il loro posto nel “nuovo mondo” e con esso la possibilità di un futuro.
“Il viaggio, l’altrove, la solidarietà – spiega ancora Salvatores – sono temi che ho spesso trattato nei miei film. Ho anche spesso lavorato con i bambini ed è una cosa che mi ha sempre dato gioia. I bambini non ‘recitano’, vivono davvero quello che stanno facendo in un ‘gioco’ molto serio”.
Nel film i due piccoli protagonisti attraversano eventi drammatici, affrontano fame, solitudine, dolore, ma non si arrendono, mai. Interessante la descrizione della comunità italiana di New York – al di là della folkloristica processione della statua di San Gennaro, tra canti, balli e bancarelle – e soprattutto la percezione che gli americani avevano degli immigrati italiani, che tanto ricorda alcune considerazioni di sconfortante attualità sugli “stranieri”. E Celestina ce lo ricorda con la disarmante semplicità e immediatezza dei bambini: “Tu non sei straniero, sei solo povero. Se sei ricco non sei mai straniero”.
“Napoli-New York” è una favola dal sapore neorealista, che Salvatores ha diretto a regola d’arte e alla quale ha dato alcuni tocchi di modernità, costruendo un racconto garbato, commovente e avvincente, a tratti anche divertente, con due protagonisti, Lanzaro e Guerra, davvero straordinari, e due certezze come Favino e Ammirati, senza dimenticare il tocco originale e gustoso del cammeo di Catania. Bella la colonna sonora con il suo mx di brani celebri tra cui “Tammuriata nera” e gli omaggi a “Titanic e “West Side Story”.
Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana
Tematiche:
Amicizia, Amore-Sentimenti, Bambini, Emigrazione, Famiglia, Lavoro, Politica-Società, Povertà-Emarginazione, Rapporto tra culture, Razzismo, Solidarietà-Amore
Napoli – New York è un sogno. La fotografia alterna il realismo delle macerie napoletane a un lirismo che si accende nelle sequenze americane. E la regia di Salvatores, precisa e al tempo stesso delicata, si prende il tempo di accarezzare i dettagli, trasformando ogni frame in un piccolo pezzo di poesia.
È un film che parla al cuore senza scordarsi della testa, un film che si rivolge agli spettatori italiani ma che ha tutte le carte in regola per conquistare un pubblico globale. Salvatores ha fatto un film popolare, nel miglior senso del termine, che mescola emozioni, ironia e sogno in un racconto universale. Una fiaba in cui è impossibile non credere.
Recensioni
3,2/5 MYmovies
3,7/5 Sentieri Selvaggi
3,5/5 Movieplayer
L’EMIGRAZIONE ITALIANA
Tra il 1861 e il 1985 dall’Italia sono partiti quasi 30 milioni di emigranti, accolti dagli stessi pregiudizi che oggi spesso noi riserviamo agli immigrati che arrivano nel nostro Paese.
La maggioranza degli emigranti italiani, oltre 14 milioni, partì nei decenni successivi all’Unità di Italia, durante la cosiddetta “grande emigrazione” (1876-1915).
Intere cittadine, come Padula in provincia di Salerno, videro la loro popolazione dimezzarsi nel decennio a cavallo tra ‘800 e ‘900. Di questi quasi un terzo aveva come destinazione dei sogni il Nord America, affamato di manodopera.
A partire non erano solo braccianti. Gli strati più poveri della popolazione in realtà non avevano di che pagarsi il viaggio, per questo tra gli emigranti prevalevano i piccoli proprietari terrieri che con le loro rimesse compravano casa o terreno in patria.
New York e gli States furono le destinazioni più gettonate. Ma non le uniche. Così come non si partiva solo dal Sud Italia. I genovesi ad esempio ben prima del 1861 partirono per l’Argentina e l’Uruguay.E, proprio come gli immigrati oggi che giungono da noi, non iniziavano l’avventura con tutta la famiglia: quasi sempre l’emigrazione era programmata come temporanea e chi partiva era di solito un maschio solo.
A fare eccezione fu solo la grande emigrazione contadina di intere famiglie dal Veneto e dal Meridione verso il Brasile, specie dopo l’abolizione in quel paese della schiavitù (1888) e l’annuncio di un vasto programma di colonizzazione.
Di solito chi partiva dalle regioni del Nord si imbarcava a Genova o a Le Havre in Francia. Chi partiva dal Sud invece si imbarcava a Napoli. Il rapporto tra passeggeri di prima classe e di terza era di 5mila a 17mila e le differenze di trattamento per questi ultimi abissali: un sacco imbottito di paglia e un orinatoio ogni 100 persone erano gli unici comfort di un viaggio che poteva durare anche un mese. Molti morivano prima di vedere il Nuovo Mondo.L’arrivo in America era caratterizzato dal trauma dei controlli medici e amministrativi durissimi, specialmente ad Ellis Island, l’Isola delle Lacrime. Iniziava poi la sfida per l’integrazione. Se in Sud America conquistarsi un posto nella nuova patria fu più facile, negli Stati Uniti era una faticaccia. I nostri connazionali preferivano così ghettizzarsi nei quartieri italiani e frequentare scuole parrocchiali, rallentando così la diffusione dell’inglese nelle comunità.
Negli Stati Uniti che da poco avevano abolito la schiavitù si diceva che gli italiani non erano bianchi, “ma nemmeno palesemente negri”. E poi ancora “una razza inferiore” o una “stirpe di assassini, anarchici e mafiosi”. E il presidente Usa Richard Nixon intercettato nel 1973 fu il più chiaro di tutti. Disse: “Non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Il guaio é che non si riesce a trovarne uno che sia onesto”.
Negli Usa l’immigrazione dall’Italia si fermò con la Prima guerra mondiale.
Nel 1921 l‘Emergency quota act impose un tetto al numero di immigrati dall’Europa dell’Est e del Sud in quanto si riteneva che popoli come quelli italiani fossero meno assimilabili. Solo con la Seconda guerra mondiale, grazie all’arruolamento nell’esercito statunitense di molti italoamericani l’integrazione fece concreti passi avanti.
Forse anche per questo nel secondo dopoguerra ci fu una ripresa dell’emigrazione dall’Italia agli Usa. Ma ormai si era aperta una nuova rotta verso l’Europa del Nord: Francia, Germania e Belgio le mete più gettonate.
Eppure nemmeno qui i nostri connazionali furono accolti a braccia aperte, anche perché il 50% partiva come clandestino, senza lavoro, sfidando leggi e pregiudizi e assediando frontiere nell’irriducibile speranza di garantirsi una vita migliore.
Fonte: Focus Storia
MGF