AZIONE/DRAMMATICO
Regia di Alex Garland – Gran Bretagna, USA, 2024 – 109′
con Nick Offerman, Kirsten Dunst, Wagner Moura

 

 

 

 

 

Il thriller di denuncia sociale “Civil War” scritto e diretto dal britannico Alex Garland (“Ex Machina”, suo è anche il copione di “28 giorni dopo”) ha destato attenzione, tra disagio, condivisione e dibattito. L’opera mette a tema il possibile sbandamento della società – il racconto è focalizzato sugli Stati Uniti, ma è applicabile a qualsiasi democrazia contemporanea –, preda di laceranti divisioni e violente contrapposizioni. Un mondo capovolto, senza più regole e tenuta sociale. Prospettiva del racconto lo sguardo di tre fotoreporter, l’occhio della camera, che rappresenta la prospettiva giornalistica e lo sguardo spettatoriale. Garland compone una suggestione dura, disturbante e profondamente realistica: il pericolo di scivolamento nel buio, nella violenza, di cui la Storia ci dà continuamente conto. Un’opera originale e al contempo debitrice di una riflessione cinematografica (ma non solo) sempre più ricorrente.
Uno storytelling distopico che sembra sempre meno fantastico e con ricorrenti punti di tangenza con il nostro oggi fragile e incerto. “Se dimentichi la storia – ha dichiarato Garland – sei destinato a ripeterla. È importante capire che nessuno è immune. Nessun Paese è immune da questo. Perché non ha niente a che fare con i Paesi, ha a che fare con le persone”. Il regista chiarisce da subito il perimetro narrativo del suo film: raccontare il rischio di implosione della democrazia, un rischio che più che fantastico corre veloce sui precedenti allarmanti della Storia. Sullo sfondo non c’è solo il collasso della Repubblica di Weimar a inizio XX secolo, ma anche gli avvenimenti di “ieri”, l’assalto tumultuoso nel gennaio 2021 a Capitol Hill, all’indomani del cambio di presidenza alla Casa Bianca.
“Civil War” si muove su due direttrici. Anzitutto sulle prime sembra che a conquistare il centro del racconto sia proprio lo smottamento della Nazione, con l’accurato storytelling di brutalità umane, efferatezze e buio sociale. In verità, appena si entra in partita con il film subito l’attenzione, il fuoco narrativo, si sposta sui protagonisti, i fotoreporter, chiamati ad addentrarsi nella tempesta e mostrarla, declinarla, al grande pubblico. “Civil War” approfondisce il ruolo e lo sguardo del giornalista-fotografo che sa spingersi a caccia della verità nelle zone d’ombra e nei territori più impervi dell’umano pur di trovare la notizia, lo scatto più incisivo e rivelatore. Garland si posiziona pertanto sulla linea di confine tra valore della professione, deontologia ed ebrezza da scoop che rischia però di avvitarsi in una vertigine di cinismo e mercificazione. Ci si domanda quale prezzo abbia la notizia, fino a che punto ci si possa spingere.
Punto di forza dell’opera è di certo la regia, potente e intensa. L’autore britannico ha saputo cogliere un tema di stringente attualità e proporlo in chiave efficace, problematica e assolutamente sfidante. Ci ha messo davanti a uno specchio più o meno deformante, ricordandoci che la salute della democrazia va custodita altrimenti con facilità si può (ri)scivolare nello smarrimento. La sua regia è vigorosa, serrata, livida: scuote e disturba lo sguardo dello spettatore, spingendolo a provare tanto empatia quanto allarme.
“Civil War” è un’opera acuta, provocatoria, da valorizzare: è un film denuncia, di impegno civile, dalle sfumature da thriller distopico, che direziona l’occhio della camera su un concreto pericolo per la democrazia.

Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana

Tematiche
Amicizia, Donna, Emigrazione, Giovani, Giustizia, Guerra, Internet, Libertà, Mass-media, Media, Metafore del nostro tempo, Morte, Politica, Politica-Società, Potere, Razzismo, Solidarietà, Terrorismo, Violenza


Il film più provocatorio dell’anno, e il più costoso mai prodotto da A24, non offre spiegazioni bensì scuote dispiegando un violentissimo conflitto, ambientato in America ma rivolto più in generale al degrado della Democrazia.


Civil War è un film potente, intelligente, di enorme impatto visivo e con la capacità unica di far riflettere e assieme di appassionare, mentre ci guida in una distopia sinistramente verosimile.


Con Civil War il britannico Garland, già sceneggiatore per Danny Boyle e giunto al quarto film da regista, realizza un’opera incredibilmente immersiva e brutale, che accompagna lo spettatore a interrogarsi sul possibile futuro degli Stati Uniti e del Mondo, in un’epoca in cui le immagini del film risultano, purtroppo, estremamente familiari.


Recensioni
3,5/5 MYmovies
7/10 IGN Italia
3/5 Cineforum

 

IL CINEMA DISTOPICO

 

Un’utopia distorta, una speranza avariata, un’illusione di progresso che, invece di migliorarci, ci fa sprofondare dentro un baratro oscuro. La distopia non riesce ad essere una cosa sola, perché ha tante facce, infinite derive che rispondono alle tante degenerazioni di cui l’umanità si scopre capace. Se l’utopia è la prospettiva di qualcosa di meraviglioso, un ideale talmente perfetto da risultare poi irrealizzabile, la distopia è la sua copia carbone, ovvero la versione decadente di una società piena di contraddizioni. In ogni caso parliamo di scenari futuribili, di immaginari spinti verso un ipotetico domani, insomma di proiezioni. E, assieme a tanta letteratura di genere, non c’è stato posto più adatto del cinema dove continuare a proiettare un futuro abitato da ansie e critiche rivolte al mondo contemporaneo. Già molti anni prima che George Orwell aprisse l’occhio invadente del suo celebre Grande Fratello, in un romanzo capostipite del genere distopico (1984), la settima arte aveva dato alla luce un’opera che portava dentro di sé un profondo malessere pessimista. Quel capolavoro di Metropolis racchiudeva una serie di caratteristiche fondamentali di ogni distopia: la rigidità dell’assetto sociale, l’importanza centrale del contesto e la spiccata vena disfattista. L’algido 2026 ipotizzato da Fritz Lang apre la strada al cinema come descrizione di futuri nei quali è meglio non sperare, con il grande schermo pronto a tramutarsi in spauracchio di timori umanissimi. Così, passando per l’iper violenza londinese di Arancia meccanica e la putrida Los Angeles di Blade Runner, la distopia ha trovato nel grande schermo un terreno fertile per seminare dubbi e far germogliare messaggi preoccupanti. Ed eccoci dispersi nei labirinti, abitanti di distretti alle prese con giochi crudeli e megalopoli dominate da strane regole. È facile accorgersi di come ogni distopia si nutra di personaggi oppressi dal panorama sociale in cui vivono, vittime di leggi rigide e di equilibri (quasi) impossibili da scardinare.
Ma quali sono i maggiori e più famosi film distopici della storia del cinema?

THE LOBSTER (2015) di Giorgos Lanthimos
SNOWPIERCER (2014)di Bong Joon-Ho
HUNGER GAMES (2012) di Suzanne Collins
V PER VENDETTA (2005) di James McTeigue.
MATRIX (1999) dei fratelli Larry e Andy Wachowski.
L’ESERCITO DELLE DODICI SCIMMIE (1995) di Terry Gilliam.
BLADE RUNNER (1982) di Ridley Scott
ARANCIA MECCANICA (1971) di Stanley Kubrick
FAHRENHEIT 451 (1966) di François Truffaut.
METROPOLIS (1927) di Fritz Lang

 

MGF

 

Regia di Sofia Coppola
Con Cailee Spaeny, Jacob Elordi,
Dagmara Dominczyk, Ari Cohen

 

 

 

 

A TRATTI IRRISOLTO, MA ANCHE MALINCONICO E VERO

Base militare USA di Wiesbaden, Germania Occidentale, 1959. Priscilla Beaulieu ha quattordici anni, è timida, coscienziosa, educata con affetto e rigore dalla mamma e dal padre soldato. Certo, la vita inizia a starle stretta in quell’angolo un po’ sperduto di Europa. Per svagarla, un soldato della base la invita a una festa dove ci sarà anche Elvis. Elvis è già una celebrità – non c’è bisogno di specificare “Presley”, la sua folgorante carriera è in un raro momento di pausa, giusto il tempo dei due anni di servizio militare e poi si torneranno a macinare dischi, concerti, film. Priscilla è emozionata ma non si intimorisce davanti alla star, che quasi immediatamente si avvicina a questa ragazza minuta, dallo sguardo attento e con una naturale disposizione all’ascolto. Dopo il primo incontro ne seguiranno altri, e altri ancora fino a quando, dopo una lunga trattativa, Elvis convincerà la famiglia Beaulieu a far trasferire Priscilla negli Stati Uniti, con la garanzia di una supervisione del padre di Presley e di un’iscrizione a una prestigiosa scuola cattolica.
Priscilla, ottavo film di Sofia Coppola, racconta la strana gestazione e maturazione di un rapporto che nasce fuori equilibrio, che inizialmente sembra un capriccio ma che si trasforma in profonda empatia, rara passione, malcelato sopruso. È un film speculare all’Elvis di Baz Luhrmann, raccontandone il lato privato e spostando dal centro della scena l’ingombrante divo per mostrarne le ombre private. Anche il tono scelto da Coppola è, consapevolmente, agli antipodi del “carnevale” luhrmaniano. Viene cancellata ogni magniloquenza: lo stile è trattenuto e pacato, i colori prediligono sfumature autunnali, la colonna sonora ha una presenza pudica e mai ingombrante. Sembra quasi che Coppola voglia trovare uno spazio discreto per questa protagonista costretta troppo presto a crescere all’ombra di un personaggio che porta già su di sé le stimmate del mito.
Priscilla inizialmente lotta per difendere il suo piccolo spazio di libertà nel rigido quotidiano impostole dal padre, ma subito – poco più che bambina – viene inglobata, quasi assorbita, dalla sfera di influenza di Elvis. Presley la protegge, certo. La gratifica, forse a modo suo la ama (anche se non la tocca per anni, sfogando i suoi appetiti sessuali con compagne di set). Ma più di tutto la priva della sua giovinezza, le impedisce di crescere costringendola a essere precocemente adulta. La libera dalla gabbia familiare per rinchiuderla in un’altra gabbia: la celeberrima Graceland (la celebre tenuta di Memphis, oggi meta di pellegrinaggi musicali) nella quale Priscilla – coccolata e vezzeggiata dalle donne di quella strana micro-comunità – entra con facilità ma dalla quale non riesce più a uscire.
Priscilla è la storia di una maturazione a lungo mancata, di una ribellione a un amore – e a uno schema mentale – fondato su un possesso patriarcale, della difficoltà a liberarsi da forme di possesso maschile che nascondono il sopruso sotto una patina di affetto devoto. Elvis è a suo modo un predatore e Priscilla una vittima a lungo collusa almeno fino al liberatorio finale. Coppola non calca la mano sulla tossicità della relazione di coppia, sulle scenate e sulle sofferenze, sulle droghe e sulle corna. Sceglie la via della sottrazione, del palpito, della carezza. Come in tutti i suoi film – sì, Coppola fa sempre lo stesso film, ma lo fa benissimo – indaga nelle pieghe dell’animo femminile, cesella un rarefatto romanzo di formazione, rinuncia a ogni ridondanza stilistica per concentrarsi sulla penombra. Un film maturo, poco urlato e apparentemente impalpabile, senza lustrini ma invece lucidissimo nell’analisi emotiva e politica – sì, anche politica – di un rapporto d’amore ingiusto, perché specchio di un potere ancora una volta declinato al maschile.


Basato sul libro di memorie di Priscilla Presley e realizzato contando sulla sua consulenza, Priscilla presenta a Coppola un compito difficile: onorare i ricordi di una donna e allo stesso tempo fare luce in modo lucido e franco su circostanze piuttosto allarmanti. È una sfida che la regista affronta con calibrata perspicacia; infatti, Priscilla non è né sensazionalistico né edulcorato. È uno sguardo sensibile, anche se leggero, su una giovane che si risveglia da un sogno e si confronta con la vita a occhi aperti.


Priscilla è un film delicato, ma non è né stagnante né freddo. Scelte musicali giudiziose scandiscono in modo toccante i momenti di dolore e smarrimento di Priscilla, la cui fanciullezza svanisce rapidamente quando la verità delle cose inizia a rivelarsi. Si tratta forse del film più semplice di Coppola, sobrio e controllato. Ma è comunque una delle sue creazioni più rappresentative e convincenti, un altro dei suoi studi sulle giovani donne alla ricerca di stabilità mentre si muovono nel mondo.


Recensioni
3,5/5 Sentieri selvaggi.
9/10 IGN Italia.
3/5 Cineforum

 

STORIA DI UN AMORE TORMENTATO E TOSSICO

Era il mio mentore, il mio confidente. Era tutto. Il mio Dio’, perché l’ho vissuto e respirato“. Basterebbero queste poche parole di Priscilla Presley, pronunciate nel 2017 all’Entertainment Tonight, per tracciare i confini di una storia d’amore intensa e a tratti morbosa, totalizzante e simbiotica fino allo stremo. In parte fu il lento logorio delle anfetamine che il re del rock aveva imparato a conoscere negli anni dell’esercito e che gli provocavano non pochi scatti di collera, a contrassegnare la relazione tra Elvis Presley e la moglie, che dal cantante si fece modellare e plasmare a sua immagine e somiglianza. Ma oltre alle droghe, c’erano altri aspetti che resero la loro convivenza coniugale molto difficile.
Quando la coppia si vide per la prima volta nel 1959, nella città tedesca di Wiesbaden, Priscilla era solo una ragazzina di 14 anni, “una bambina” come dirà lui stesso, mentre Elvis ne aveva 24. Eppure quella sera l’artista, già celebre in tutto il mondo, ne rimase colpito e, messosi al pianoforte, cercò in tutti i modi di fare colpo su di lei.

 

 

Come prevedibile, i genitori di lei erano contrari al loro legame. Ammorbidirono le loro posizioni solo quando Elvis si presentò a casa loro in divisa militare: il padre adottivo della ragazza, Paul Beaulieu, era infatti un ufficiale della United States Air Force e il fatto che il cantante avesse prestato servizio influì positivamente sulla decisione di acconsentire a una loro frequentazione. Nel 1963, i suoi genitori le permisero di trasferirsi a Memphis in modo che potesse essere più vicina al rocker, che spesso la andava a prendere a scuola in limousine. Prima di diplomarsi, Priscilla si trasferì nell’iconica casa di Elvis a Graceland con la promessa che si sarebbero sposati. E così fu nel 1967, quando Priscilla compì 21 anni. The King desiderava che sua moglie fosse devota alla casa e alla famiglia, sempre disponibile e, naturalmente, vergine.

 

 

 

Nella sua autobiografia del 1985, Elvis and Me, Priscilla descrive Presley come un uomo molto appassionato che non aveva un atteggiamento apertamente sessuale nei suoi confronti. Gli otto anni precedenti alle nozze furono una sorta di scuola di formazione per imparare a essere la vera moglie del rocker, la donna che tutti si aspettavano che Elvis avrebbe voluto al proprio fianco. Fu lui a imporre a Priscilla il modo di vestire, di pettinarsi e persino di truccarsi. “Ha applicato il trucco così pesantemente che non si poteva dire se i miei occhi fossero neri, blu o neri e blu“, confidò a People nel 1985. “Questo era ciò che Elvis voleva. Voleva modellarmi alle sue opinioni e preferenze” e lei accettò senza condizioni, facendosi persino tingere i capelli di nero per abbinarli ai suoi. Nelle sue memorie, Priscilla scrisse che divenne “la bambola vivente di Elvis, a suo piacimento. Nel corso degli anni, è diventato mio padre, mio marito e quasi Dio”.

 

Nove mesi dopo le nozze, celebrate all’Aladdin Hotel di Las Vegas, nacque nel 1968 la piccola Lisa Marie, a cui il cantante rimase legatissimo per tutta la vita. L’unione con Priscilla tuttavia, consacrata da una cerimonia della durata di 8 minuti, officiato dal manager del cantante Tom Parker, non fu solida come ci si sarebbe aspettati. Elvis “non era fedele”, ha detto Priscilla all’Australia’s Sunday Night nel 2017 quando gli è stato chiesto delle numerose presunte relazioni del cantante durante il loro matrimonio. Così Priscilla, a propria volta, iniziò una relazione con il suo istruttore di karate Mike Stone, nei primi Anni 70. Nella sua autobiografia Priscilla ha detto che i suoi “sentimenti di abbandono e solitudine” l’avevano spinta ad avere una nuova relazione, aggiungendo che lasciare Elvis l’aveva portata a “ritrovare me stessa per la prima volta”.Era l’amore della mia vita, ma dovevo scoprire il mondo”.

 

 

 

Fu così che nel 1972 la coppia si separò, per poi divorziare l’anno successivo, pur continuando a sentirsi e vedersi regolarmente per il bene della loro unica figlia. Erano gli anni del disfacimento psicofisico del cantante. Negli Anni ‘70 la dipendenza dalle droghe ne compromisero definitivamente la salute. Sempre più chiuso e sospettoso, Elvis si circondò dei cosiddetti “Guys”, una cerchia di sedicenti amici e opportunisti Yes Men che cercavano di esaudire ogni suo desiderio, allo scopo di entrare nelle sue grazie, e ottenere in seguito indubbi vantaggi. Questa cerchia di persone, se da un lato nel corso degli anni lo protesse con ogni mezzo a sua disposizione da una qualsiasi influenza che essa reputasse indesiderabile, dall’altro gli impedì di potere intrattenere rapporti sani e costruttivi con il reale mondo esterno. L’unico legame era rappresentato dall’ex moglie Priscilla, che fino all’ultimo cercò di stargli vicino, sebbene dopo il loro divorzio il suo declino fosse diventato ormai irreversibile.
Con una salute ormai compressa, la star si spense a Memphis il 16 agosto 1977. A 48 anni di distanza, Priscilla continua a preservare l’eredità dell’ex marito e a prendersi cura della sua proprietà a Graceland del valore di circa 300 milioni di dollari.

 

           

 

MGF

COMMEDIA
Regia di Thea Sharrock – Gran Bretagna 2023 – 100′
con Olivia Colman, Jessie Buckley, Anjana Vasan

 

 

 

 

 

 

Ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto nell’Inghilterra degli anni 20 del secolo scorso, “Cattiverie a domicilio” (“Wicked Little Letters”) è un esilarante, pungente e arguta commedia diretta da Thea Sharrock (“Io prima di te”, 2016). La storia: Inghilterra, 1922, la tranquilla routine della piccola Littlehampton viene sconvolta da una serie di lettere anonime cariche di insulti indirizzate a Edith Swan (Olivia Colman), rispettabile figlia del pastore (Timothy Spall), dalla condotta morale ineccepibile. I sospetti cadono sulla sua vicina di casa, Rose Gooding (Jessie Buckley), immigrata irlandese, libera, schietta e decisamente anticonformista. L’esatto opposto della mite e obbedientissima Edith, che vorrebbe instaurare con lei un rapporto di amicizia, ma non ci riesce. A far luce sulla vicenda una giovane poliziotta appena entrata in servizio, che ogni giorno deve misurarsi con l’atteggiamento ostile dei suoi superiori nei suoi confronti (è una donna!). Riuscirà a trovare il bandolo della complicata matassa grazie al suo intuito e all’aiuto delle donne del quartiere. Confezione perfetta, sceneggiatura arguta (perfino gli insulti contenuti nelle lettere anonime sono costruzioni e accostamenti arditi che vanno ben oltre le semplici “parolacce”), accuratezza di costumi e scenografie, regia al top e attori – Olivia Colman e Timothy Spall in testa – strepitosi, fanno di “Cattiverie a domicilio” un film godibilissimo. Un dramma, detective story e legal movie spruzzato di ironia, un mix che al cinema inglese riesce sempre benissimo, basti pensare al “Il ritratto del duca” del 2022. Qui in stato d’accusa non è tanto Rose, il suo “reato”, quanto piuttosto ciò che lo ha prodotto: l’ottusità degli uomini che si ostinano a considerare le donne esseri inferiori da comandare a bacchetta, mortificandone talento e aspirazioni. C’è poi il rapporto di dipendenza totale di Edith con il padre che, essendo il pastore della comunità, all’autorità di genitore aggiunge anche quella di natura religioso-spirituale. Un controllo totale che provoca in Edith una ribellione fredda, ragionata e imprevedibile, dalle conseguenze del tutto inaspettate.

Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana

Tematiche
Amicizia, Amore-Sentimenti, Bibbia, Donna, Educazione, Emigrazione, Famiglia – genitori figli, Fede, Matrimonio – coppia, Politica-Società, Psicologia, Tematiche religiose


Cattiverie a domicilio è un tuffo nel miglior british humor, con un cast ispirato, capace di muoversi nei diversi livelli della storia con un divertimento contagioso.


Olivia Colman e Jessie Buckley duettano in una divertente, graffiante e acuta commedia sulla faticosa strada per l’emancipazione femminile, dando vita a un’accoppiata di personaggi dai tratti memorabili.


Recensioni
3,5/5 MYmovies
7/10 IGN Italia
3,2/5 Sentieri selvaggi

 

IL “BRITISH HUMOR”

L’umorismo è una parte fondamentale della cultura inglese. In Inghilterra, infatti, la capacità di sdrammatizzare anche nei momenti più improbabili, è vista non solo come una forma di saggezza, ma quasi come un vincolo sociale.
Il British humor non è sempre facile da riconoscere, e spesso richiede un attento ascolto per essere veramente capito. Ecco quindi le sue principali forme e caratteristiche!

Auto-ironia e understatement
Gli inglesi prendono molto spesso in giro se stessi e i propri difetti. Questa auto-ironia permette di disinnescare situazioni potenzialmente imbarazzanti, trasformandole in momenti di leggerezza.
Un’altra caratteristica tipica dell’umorismo inglese è l’uso dell’understatement, dove la reazione a una situazione è intenzionalmente minimizzata per creare un effetto comico.

Sarcasmo
Il sarcasmo in Inghilterra è un vero e proprio sport nazionale. È quell’arte sottile di dire qualcosa con serietà, ma intendendo esattamente il contrario. A volte è così ben mascherato che è difficile capire se gli inglesi stanno scherzando o parlando sul serio.

Black humor
L’humour nero, o black humor, è un altro tratto distintivo dell’umorismo inglese. Questo affronta temi tabù come la morte, la tragedia o l’assurdo della vita con una leggerezza e una spietatezza che possono sorprendere molte persone.

Arguzia
L’arguzia, o “wit”, è l’ultimo elemento chiave dell’umorismo inglese, caratterizzato da battute sottili e commenti sagaci.
Nonostante l’umorismo britannico possa sembrare sottile o complicato, ha trovato nel tempo un vasto pubblico internazionale che lo apprezza per la sua originalità e la sua diversità: è molto più di una semplice forma di intrattenimento, è una forza culturale che ha lasciato un’impronta indelebile sulla comicità mondiale.

Ecco alcuni esempi iconici che hanno contribuito a definire il British humor:

The Office: questa serie televisiva, creata da Ricky Gervais, ha stabilito nuovi standard per il mockumentary (il falso documentario) e ha introdotto uno stile di umorismo cringe-comedy, in cui situazioni imbarazzanti sono il fulcro della comicità.

Monty Python: questo leggendario gruppo di comici ha dato vita a uno stile di comicità surreale che è diventato un marchio distintivo dell’umorismo britannico. I loro sketch spaziano dalla satira politica all’assurdità più pura.

Mr. Bean: il personaggio interpretato da Rowan Atkinson, Mr. Bean, è diventato un’icona globale dell’umorismo britannico grazie alla sua comicità fisica, al suo comportamento bizzarro e al suo linguaggio universale, privo di parole.

Funeral Party: le situazioni a cui può dar luogo il ritrovarsi di persone conosciute e sconosciute a un funerale sono state proposte innumerevoli volte dal cinema ma in questa occasione la libertà di sberleffo e di irriverenza che il regista si concede non ha davvero limiti.

Un pesce di nome Wanda: questo film è diventato un classico della comicità britannica, contribuendo ulteriormente all’influenza culturale dell’umorismo britannico nel mondo del cinema.

 

MGF

 

Regia di Margherita Vicario
con Galatéa Bellugi, Carlotta Gamba,
Veronica Lucchesi, Mariavittoria Dallasti

 

 

 

 

FEEL-GOOD MOVIE TRAVOLGENTE E DALLA CARICA SOVVERSIVA.

L’ESORDIO DI MARGHERITA VICARIO AUGURA UN PO’ DI LIBERTÉ PER TUTTE.

All’alba del 1800, l’istituto religioso Sant’Ignazio deve prepararsi a un evento storico: dal conclave veneziano emerge il nuovo Papa Pio VII, che per l’occasione visiterà tutte le chiese del Veneto e a Sant’Ignazio presenzierà a un concerto organizzato per lui. A capo del coro composto da ragazze orfane cresciute nell’istituto c’è Perlina, il quale però è in crisi d’ispirazione e scarica la frustrazione sulle povere musiciste, oltre che sulla cameriera Teresa, una ragazza che non parla ma possiede un grande talento musicale. Con il concerto che si avvicina a grandi passi, saranno le giovani a prendere in mano il destino dell’istituto per proporre una musica decisamente poco classica.
È un fulmine a ciel sereno questo esordio di Margherita Vicario, giovane attrice e cantante oltre che figlia d’arte.
Cinema e musica fanno evidentemente parte del suo DNA, ma lascia comunque stupiti il livello del suo primo film, un travolgente “feel-good movie” dalla carica sovversiva che remixa il basso e l’alto, e il classico e il contemporaneo.
Dietro i codici di un racconto consapevolmente popolare, che strizza l’occhio a un pubblico ampio, c’è l’intento di gettare luce su intere generazioni di donne che in quell’epoca venivano educate come musiciste di alto livello ma senza possibilità di affermarsi o di trovare un’espressione artistica propria. Talenti sacrificati al patriarcato e ai rigidi ranghi dell’organizzazione cattolica, e che la regista omaggia inventando un gruppo di ribelli che uniscono i loro strumenti per creare delle melodie “pop” in grado di scardinare le catene. Fin dalla prima sequenza, in cui la protagonista Teresa immagina una sinfonia ritmata fatta dei gesti quotidiani tra le pulizie in cortile, è evidente il brio scanzonato e ammiccante che anima il film, sempre sul punto di esplodere in un canto liberatorio e completamente anacronistico. Ma per cavalcare questa tensione ci vuole del coraggio autentico, lo stesso che serve alle cinque protagoniste per aprirsi l’una alle altre, in una serie di nottate al lume di candela attorno al prototipo di un nuovo, bellissimo pianoforte.
Film fresco che cavalca l’onda di tempi che cambiano, come quella rivoluzione francese di cui si mormora a mensa e che pare porterà finalmente un po’ di liberté per tutte. Da questo punto di vista è apprezzabile il modo in cui si consuma la tanto attesa visita del papa, la cui autorità finisce per essere messa alla berlina pure lei. D’altra parte non può essere un caso, quando tutte le parti maschili principali sono affidate a comici d’altri tempi come Elio, Natalino Balasso e Paolo Rossi (quest’ultimo una scelta non banale in un ruolo corposo che ne beneficia molto).
L’italo-francese Galatea Bellugi (in rampa di lancio dopo La Passion de Dodin Bouffant e l’ottimo Chien de la casse) guida poi il gruppo delle protagoniste con luminosa determinazione, facendosi tutt’uno con la musica (con pezzi di Vicario stessa) e con il vivace sound design che coinvolge lo spettatore in un inno al potere collettivo della musica popolare.

Tommaso Tocci – MyMovies


La protagonista di “Gloria!” (il punto esclamativo è d’obbligo e ha un senso), l’opera prima scritta e diretta Margherita Vicario, passata in concorso all’ultima Berlinale, in questo caso non è solo la musica, assoluta, piena, quasi tangibile, ma chi soprattutto la suona. È una musica salvifica, composta oltremodo da spartiti, rumori, parole, voci, versi, ritmi di gesti, quotidianità, personaggi.


La prima scena del primo film di Margherita Vicario “dal multiforme ingegno” è un manifesto. Omnia vincit musica. Teresa, la serva muta di un istituto musicale per educande, vede e soprattutto sente le giovani fare esercizi e la musica tracima, esonda, riempie tutto il mondo attorno a lei. Regia, montaggio, gestione del suono – la musica è nella realtà, poi nella testa della ragazza poi diventa vera e propria colonna sonora esterna in un crescendo – sono altresì una dichiarazione di intenti formale: sappiamo come costruire un film attorno alla musica.


Recensioni
3/5 Cineforum
3,3/5 MYmovies
4,2/5 Sentieri selvaggi

 

DONNE NELLA MUSICA: UN VIAGGIO ATTRAVERSO I SECOLI

Hildegard von Bingen

Durante il Medioevo, la musica era considerata un’arte importante e molte donne appartenenti all’alta società la studiavano. Tuttavia, le opportunità per le donne di esibirsi e comporre musica erano limitate dalle rigide norme sociali e culturali. Una eccezione è costituita dalle badesse dei monasteri che erano spesso musiciste esperte e compositrici. Hildegard von Bingen è stata una figura molto importante nel Medioevo. Monaca, compositrice e mistica, è stata una delle prime donne a comporre musica. Inoltre, ha scritto sulla teoria musicale e sulle proprietà terapeutiche della musica, sulla medicina naturale e sulle cure per diverse malattie. Hildegard ha composto sequenze, antifone e inni. La sua musica, considerata spirituale, intensa e sofisticata, è molto innovativa per l’epoca: unisce elementi di musica popolare e tradizionale, rendendola più accessibile al pubblico rispetto alla musica sacra composta dai suoi contemporanei.

 

Rinascimento
Nel Rinascimento, l’arte e la cultura erano considerate un segno di raffinatezza e potere, e molti erano interessati alla musica come forma d’arte. Le donne maggiormente coinvolte nella musica come esecutrici e compositrici operavano presso corti e ambienti aristocratici: spesso avevano maestri e strumenti musicali di alta qualità ed erano cantanti e strumentiste soliste. Ma la società del Rinascimento era ancora fortemente maschilista e le opportunità per le donne erano limitate.

 

Barocco
Durante il periodo del Barocco, dal 1600 al 1750 circa, la musica diventa sempre più importante nella cultura europea e il suo apprendimento e la sua esecuzione sono considerati segni di elevato status sociale. In questo periodo, molte donne appartenenti a famiglie aristocratiche erano musiciste esperte e compositrici di talento, ma le rigide barriere sociali e culturali ne limitavano le opportunità. In molti casi componevano musica in segreto o sotto pseudonimi maschili. Fra queste Barbara Strozzi. A soli 16 anni, comincia a pubblicare le sue composizioni e a esibirsi come cantante solista, diventando presto una figura di spicco nella vita culturale di Venezia. Durante la sua carriera pubblica otto libri di arie a voce sola, che rappresentano una delle prime raccolte di musica pubblicate da una donna. Le sue composizioni erano caratterizzate da una forte emotività e da un’intensità espressiva, e trattavano temi come l’amore, la passione e la devozione.

 

 

Maria Rosa Coccia

Classicismo
La seconda metà del XVIII secolo è stata un periodo di cambiamento nella società europea, che ha visto una maggiore attenzione verso l’educazione e l’istruzione per le donne. Questa evoluzione sociale ha influito anche sulla loro formazione musicale, e ha portato a un aumento di compositrici e di esecutrici che iniziarono ad avere maggiori opportunità per esibirsi e mostrare il loro talento. Le donne erano comunque considerate inferiori e le capacità musicali troppo spesso erano considerata più una dote per trovare marito piuttosto che un’arte da mettere al servizio della società. Ricordiamo in particolare Anna Maria Mozart e l’italiana Maria Rosa Coccia, prima donna nella storia ad ottenere il titolo di “maestro di cappella” (che non le venne però mai conferito, e si dedicò quindi all’insegnamento)

 

 

Clara Schumann

 

Romanticismo
Nel periodo romantico molte donne riescono ad affermarsi come musiciste di professione. Con il loro talento e la loro determinazione, Clara Schumann, Fanny Mendelsshon e Paoline Viardot hanno dimostrato che la musica è una forma d’arte aperta a tutti, indipendentemente dal genere. Clara Schumann è stata una pianista e compositrice tedesca ed è considerata la più grande virtuosa dell’epoca. Nata a Lipsia, inizia a suonare il pianoforte all’età di cinque anni e a soli nove anni si esibisce in pubblico. Nel 1840 Clara sposa Robert Schumann. Clara continua a esibirsi in pubblico anche dopo la morte prematura del marito e viene molto apprezzata sia come interprete, sia come compositrice.

 

 

 

Maria Callas

Novecento

La presenza della donna nella musica del Novecento si fa sempre più importante. Nell’ambito della musica d’arte si affermano le direttrici d’orchestra (N. Boulanger) soliste eccezionali (M. Callas, M. Argerich, A. Mutter) e compositrici (G. Tailleferre, S. Gubaidulina), che lasciano un’impronta indelebile; ma è soprattutto nel jazz (B. Holiday ed E. Fitzgerald), nella musica pop (Madonna, A. Winehouse) e nella canzone (E. Piaf e Mina) che le donne del Novecento esprimono tutto il loro potenziale artistico.

 

Fonte: Marta Aprato – Donne nella musica

MGF

 

ANIMAZIONE
Regia di Kelsey Mann – USA, 2024 – 96′
con Pilar Fogliati, Deva Cassel, Marta Filippi

 

 

 

 

 

A distanza di poco meno di dieci anni dal successo di Inside Out si riforma il team creativo. Un nuovo capitolo, e dunque nuove emozioni in campo: Ansia, Noia, Invidia e Imbarazzo. È il delicato e sorprendente racconto del complesso passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza di una tredicenne. Riley è una preadolescente di 13 anni, che ha appena chiuso un ciclo scolastico e si prepara ad affrontare l’estate prima dell’inizio del Liceo. Sarà l’ultima con le sue due amiche del cuore, che frequenteranno un’altra scuola. Giocando anche insieme a hockey, le tre ragazze si iscrivono a un campo estivo agonistico. Riley è subito affascinata dalle ragazze più grandi, delle fuoriclasse nell’hockey, ma si percepisce inadeguata e incapace di stare al loro passo. Durante il tirocinio non riesce neanche a solidarizzare con le storiche amiche, sentendosi un pesce fuor d’acqua. Nel suo animo, le emozioni che l’hanno sempre guidata – Gioia, Rabbia, Tristezza, Paura e Disgusto – si sentono sotto attacco da parte da nuovi ingressi: Ansia, Noia, Invidia e Imbarazzo. È soprattutto Ansia, che seppur animata da valide intenzioni, ovvero il bene di Riley, sta alterando l’equilibrio. Inizia così una piccola “battaglia” nell’animo della ragazza… “Ho deciso subito di rendere Ansia uno dei personaggi più importanti – ha indicato il regista Kelsey Mann – È qualcosa che inizia a comparire quando diventiamo adolescenti: tutti noi possiamo identificarci con questo concetto. All’inizio della realizzazione del film, ricordo di aver svolto molte ricerche su quel che accade al nostro cervello a quell’età e mi è venuta in mente l’idea di una palla da demolizione che distrugge il Quartier Generale, con un mucchio di operai che arrivano improvvisamente e demoliscono tutto. È una ristrutturazione: è tutto molto caotico”. Nel cartoon Ansia si presenta in maniera giocosa, con un trionfo di colore arancione: è simpatica, originale, dai movimenti e dallo sguardo elettrico. Con sveltezza estromette tutte le altre emozioni in campo e si impossessa della serenità interiore di Riley. Ansia ha come obiettivo quello di far eccellere Riley, sia nello sport che nella rete di amiche. Sovraccarica così di pressioni la tredicenne al punto da farla sbandare, da renderla incerta e “paranoica”. Riley si sente persa, senza più punti di riferimento. Nella sua dimensione interiore corrono in soccorso le emozioni di sempre, quelle che si trovano accanto a lei fin dalla nascita, in particolare Gioia, che le instilla buonumore e fiducia. E proprio Gioia avrà il compito di coordinare tutte le altre emozioni, trovando un posto anche ad Ansia. Tutte loro sono emozioni importanti e preziose, fanno parte del tessuto interiore di Riley, sono ugualmente necessarie nella definizione di una personalità sempre più articolata e adulta. Non facendo mancare atmosfere colorate e sognanti, dialoghi curati, puntellati da lampi di ironia e umorismo gentile, “Indide Out 2” offre una riflessione acuta e puntuale sul delicato momento di passaggio dalla stagione dell’infanzia all’adolescenza, un territorio dove avviene la ricerca del Sé e si pongono le basi per l’identità adulta. Il cartoon si confronta coraggiosamente con emozioni non semplici, a tratti scomode, a cominciare dal ruolo fagocitante dell’ansia. La narrazione si muove lungo un binario brillante e giocoso capace però di regalare anche sguardi di senso su una stagione di tempesta della vita, dove non ci si apprezza, ci si sente incompresi, si è in costante ricerca di conferme, desiderosi di emulare o essere accettati dai pari, insofferenti ai consigli genitoriali. “Inside Out 2” riesce a restituire l’istantanea di tutto questo, non facendo mai mancare le sfumature del sorriso. Il messaggio finale, poi, è splendido: l’accettazione di Sé, di un Sé anche complesso, fatto di gioia e paure, di debolezze e punti di valore. Bisogna imparare ad amarsi per quello che si è, ascoltandosi, migliorandosi, cercando con fiducia di rimanere saldi lungo il sentiero della felicità.

Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana


Un’opera coinvolgente che ricrea sullo schermo la fragilità emotiva degli adolescenti. E non solo.


Le emozioni sono protagoniste indiscusse di Inside Out 2 e ci narrano qualcosa in più della mente e del suo funzionamento, su come ci si può approcciare all’esistenza nelle varie fasi della vita; fasi tutt’altro che simili tra loro con lassi temporali ben scanditi, così come, di conseguenza, sono ben definite le emozioni a cui essi sono associati.


8,5/10 Everyeye Cinema
4/5 Sentieri selvaggi
3,7/5 MYMovies

 

LE EMOZIONI DI INSIDE OUT 2 NEL MONDO

Gli esperti linguistici di Babbel hanno pensato di proporre un glossario focalizzato su come questi stati d’animo vengano tradotti in diverse lingue del mondo, per aiutare così le persone ad arricchire il proprio lessico emozionale e a favorire la comprensione tra diverse culture.

ANSIA: dal verbo latino “ango” (“soffocare, stringere”)Caratterizzata da una forte sensazione di preoccupazione e di angoscia per gli avvenimenti futuri, l’ansia si prova in situazioni in cui non si riesce a prevedere come potrebbero evolvere gli eventi.
Torschlusspanik (Germania): questa espressione tedesca composta dal termine “panik” (ovvero “panico”) e “torschluss” (ovvero “chiusura delle porte”) è intraducibile letteralmente in italiano e viene impiegata per descrivere un sentimento d’ansia crescente per la consapevolezza di una scadenza che si sta avvicinando velocemente, accompagnata dalla paura di fallire. Le porte sono infatti una metafora del tempo che scorre e, una volta “chiuse”, non possono essere riaperte.

 

 

IMBARAZZO: dal nome spagnolo “embarazo” (“ingombro emotivo”)
Stato emotivo di disagio provocato da un senso di timore e di pudore, l’imbarazzo si sperimenta in situazioni sociali in cui si teme che i propri comportamenti o quelli altrui possano essere giudicati negativamente.
Å sitte med skjegget i postkassen (Norvegia):
proverbio norvegese traducibile letteralmente con la frase “finire con la barba incastrata nella buca delle lettere”, esprime quel sentimento misto di imbarazzo e disagio che si prova quando si rimane bloccati in una situazione spiacevole da cui non si riesce a scappare.

 

 

 

NOIA: dal latino “in odium” (“avere in odio”)
Questa sensazione, interpretata dal personaggio Ennui (una parola francese che viene usata anche in inglese, traducibile come “noia esistenziale”), è legata alla monotonia e all’attesa. Questa condizione emotiva è essenziale per trovare nuovi stimoli.
Kabak Tadı Vermek (Turchia): letteralmente traducibile come “avere il sapore delle zucchine”, questa espressione idiomatica viene impiegata in Turchia per descrivere una situazione o un argomento ripetuto così tante volte da diventare noioso e stancante, lasciando quasi “un cattivo sapore” proprio come il retrogusto di questi ortaggi in bocca.

 

 

INVIDIA: dal latino “invidere” (“guardare male”)
L’invidia è un sentimento che emerge dal confronto con altre persone, tipico di quando si desidererebbe avere delle qualità, dei meriti o dei beni posseduti da altri.
Glida på en räkmacka (Svezia): letteralmente “scivolare su un sandwich di gamberetti”, questa metafora gastronomica potrebbe risultare fuorviante per chi non conosce lo svedese. Viene usata per descrivere con invidia persone che hanno raggiunto ottimi risultati personali e professionali senza lavorare duramente, ma semplicemente “scivolando” verso il successo grazie alla fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.

 

 

NOSTALGIA: dal greco “nóstos” (“ritorno”) e “álgos” (“dolore”)
Sentimento legato ai ricordi del passato, la nostalgia rappresenta un complesso insieme di sensazioni che si ricollega al concetto di memoria e di identità.
Natsukashii (Giappone): nella cultura occidentale la nostalgia è frequentemente associata a sentimenti di tristezza, caratterizzata dalla voglia di rivivere esperienze e momenti già vissuti. Per la cultura giapponese, invece, questo sentimento ha una connotazione diversa, più positiva. Il termine “natsukashii” deriva infatti dal verbo “natsuku” che significa “tenersi vicino e affezionarsi” e indica gioia e gratitudine per i ricordi del passato da conservare nel proprio presente, piuttosto che il desiderio di voler rivivere determinati momenti passati con malinconia.

 

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