Drammatico – 183′
Regia di Damien Chazelle – USA, 2022
con Brad Pitt, Margot Robbie, Diego Calva.

 

ATTENZIONE:

QUESTO FILM CONTIENE SCENE CHE POSSONO URTARE LA VOSTRA SENSIBILITA’

 

 

LA TRAMA

Babylon, il film diretto da Damien Chazelle, ci porta nella Los Angeles degli anni 20 del Novecento. È l’Epoca d’Oro di Hollywood, regno della sregolatezza, dell’esuberanza e delle folli ambizioni ma è anche un momento cruciale per l’industria cinematografica, con il passaggio dai film muti a quelli sonori. Una rivoluzione che segnerà l’ascesa di nuove stelle e la rovina di vecchie glorie.
Seguiamo le vicende personali e professionali dei quattro protagonisti principali: Manny Torres (Diego Calva), un aspirante attore ispano-americano, che all’inizio si deve accontentare di un lavoro di assistente sul set, Jack Conrad (Brad Pitt), un famoso attore, tra i più pagati a Hollywood, noto per la sua vita privata sregolata, tra feste, divorzi e affari pochi chiari, preoccupato dall’arrivo dal sonoro, che rischia di stroncargli la carriera.
C’è poi la conturbante ma insicura Nellie LaRoy (Margot Robbie), destinata a diventare una stella dall’oggi all’indomani. Per lei la vita dovrebbe essere un party senza fine.
Il quarto protagonista principale di questa storia è Sidney Palmer (Jovan Adepo) un giovane trombettista jazz che ha l’opportunità di iniziare una carriera nel cinema.
Intorno a loro ruotano diversi personaggi, da Elinor St. John (Jean Smart), giornalista specializzata in cronaca scandalistica senza peli sulla lingua, a James McKay (Tobey Maguire) un gangster tossicodipendente in cerca di gloria, da Fay Zhu (Li Jun Li), attrice e cantante spesso protagonista delle sfavillanti serate hollywoodiane, a Irving Thalberg (Max Minghella), uno dei più noti produttori cinematografici degli anni 20 e 30, unico personaggio del film realmente esistito.

Deboli di stomaco astenersi. Qui il cinema richiede un contributo non da poco alle viscere. Fracassone e irresistibile, il nuovo film di Chazelle è una prima summa dei suoi temi, del cinema, della musica e dell’ossessione stessa per qualcosa che si ama. Sono i silenzi che emergono, però, proprio grazie alla contrapposizione con la frenesia, in un racconto sulla continua rinascita del cinema, a partire dal pionierismo del muto che muore quando nasce il sonoro.

 

LA RECENSIONE

LA FOLLIA CINEMATOGRAFICA DI DAMIEN CHAZELLE

Raramente un film come Babylon arriva così presto nella carriera di un autore. Ma geni della risma di Damien Chazelle trascendono le regole del tempo. Sbagliando e inciampando, anche. La nuova pellicola del regista di Whiplash e La La Land sembra già l’urlo definitivo del suo cinema. Un’opera che dividerà persino gli spettatori più granitici e schierati, perché Babylon è come quella montagna russa in cui prima stai
bene e poi stai male, ma nonostante tutto non perderai mai la voglia di scendere. La volontà di Chazelle di raccontare la sua idea di cinema parte dalla necessità di raccontare il cinema in generale. In poco più di tre ore di durata, questo mastodonte cinematografico racconta in chiave romanzata uno spaccato ben preciso della Hollywood degli anni Trenta, passando attraverso il punto di vista di svariate figure
chiave dell’industria che vivono il grande sogno del successo.

Una storia di ambizione per chi parte dal basso come il giovane Manny Torres (Diego Calva), un racconto di incredibile ascesa e di inesorabile declino per Nellie LaRoy (Margot Robbie), un’epopea di gloria giunta al suo tramonto come quella di Jack Conrad (Brad Pitt), star del cinema muto, che dopo le scintille dei grandi colossal deve affrontare la micidiale avanzata del sonoro, destinato a cambiare per sempre il modo di fare cinema e di fruirne. Una grande disamina sull’evoluzione della Settima Arte, sugli eccessi sfrenati, sulle perversioni e sulle perdizioni in cui il lato più oscuro di Hollywood risucchia chiunque si sia spinto più in là della luce. Nel raccontare questi svariati punti di vista, e nel ruotare attorno a più tematiche, Babylon è veramente una grande Babilonia del cinema. Un film cangiante, strepitoso nella sperimentazione di più generi differenti, è tanti film all’interno dello stesso film, un caleidoscopio di suggestioni, narrazioni e stili che si intrecciano tra loro in una vera e propria orgia cinematografica. Perché caotica, attraente, irresistibile e sfrenata. È film storico che poi si trasforma in satira pungente in cui si ride di gusto, poi diventa commedia e storia d’amore, poi film drammatico e persino horror.

Il nuovo film di Chazelle è puro caos, e funziona per questo, persino con i suoi tangibili difetti. È infatti un’opera narrativamente sfilacciata, prolissa, imperfetta sul piano della coerenza e della linearità dell’intreccio. Con momenti che, a livello di scrittura, rimangono confusi, a volte pretestuosi. Insomma, è una pellicola che vive di alti e bassi, ma in cui, per la varietà e la qualità dei temi trattati e del modo di portarli in scena, gli alti sono clamorosi e finiscono per oscurare o giustificare gli scivoloni.

Gabriele Laurino -Responsabile editoriale Everyeye.it

 

IL REGISTA

DAMIEN CHAZELLE
Providence, Rhode Island, Stati Uniti
19 gennaio 1985

 

 

 

È figlio di Celia Martin, una scrittrice e professoressa di storia e dello scienziato informatico francese Bernard Chazelle, docente a Princetown. Fin da piccolo è attratto dall’ambiente artistico e al liceo si concentra sulla musica, diventando batterista jazz al liceo di Princeton, dove a tormentarlo è un insegnante da cui prenderà ispirazione per il personaggio di Terence Fletcher in Whiplash. Abbandonate le velleità musicali dopo essersi reso conto conto di non avere abbastanza talento, torna alla sua prima passione, il cinema, che studia alla Harvard University, dove si laurea nel 2007. Nel 2009 scrive e dirige il musical Guy and Madeline on a Park Bench, dove appare anche
la sorella minore, l’attrice e circense Anna Chazelle. Protagonista della storia, una costante nella sua filmografia, è un musicista jazz, in questo caso un trombettista.
Inizia poi a scrivere sceneggiature per terzi, come The Last Exorcism e Il ricatto e a un certo punto si rende conto che scrivere per altri non è quello che vuole fare e butta giù la sceneggiatura di Whiplash, ispirata alle sue esperienze liceali, che mette poi in un cassetto perché la ritiene troppo personale. Quando trova il coraggio di proporla, non riceve riscontri positivi dai produttori, ma il copione (di sole 85 pagine) finisce nella Blacklist 2012 dei migliori non realizzati. Alla fine riesce a coinvolgere J. K. Simmons nel ruolo dell’insegnante e a farsi finanziare un cortometraggio che partecipa al Sundance 2013, dove vince il premio per la categoria. Dal corto realizza poi il lungometraggio che l’anno dopo sempre al Sundance vince il premio del pubblico e il gran premio della Giuria, facendo incetta di riconoscimenti anche a Deauville.

Nel 2014 il film ottiene 5 nomination agli Oscar e ne vince tre, nessuno dei quali va a Chazelle (candidato per la miglior sceneggiatura non originale). È poi cosceneggiatore del thriller sci-fi 10 Cloverfield Lane e torna ai temi del suo primo film con La La Land, con Ryan Gosling e Emma Stone, che è in concorso a Venezia dove alla Stone va la Coppia Volpi, vince il premio del pubblico a Toronto, 7 Golden Globe su
7 candidature e raggiunge un record di 14 nomination agli Oscar 2017. Il suo film successivo sarà un biopic sull’astronauta Neil Armstrong, ancora interpretato da Gosling, First Man, il primo uomo. Il film ha ricevuto recensioni positive, con Owen Gleiberman della rivista Variety che ha scritto che “Chazelle orchestra uno stato d’animo di avventura straordinariamente originale intriso di ansia“. Due anni più tardi dirige due episodi della serie televisiva Netflix The Eddy, da lui prodotta. Nel 2022 dirige Babylon, pellicola ambientata nella Hollywood degli anni ’20, con protagonisti Margot Robbie e Brad Pitt.

MGF

VENERDI’ 26 MAGGIO

ORE 20.45

 

 

 

 

 

 

La scuola di specializzazione in psicoterapia integrata e di comunità Spic-Acof di Busto Arsizio presenta, con il patrocinio del comune di Busto Arsizio, “Il dolore del cibo”, tavola rotonda e performance teatrale sui disturbi del comportamento alimentare.

La scuola quadriennale Spic-Acof ha sede in via Andrea Costa 29 ed è riconosciuta dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. All’interno del suo percorso formativo è data grande attenzione al tema DCA. In questa tavola rotonda, nata in collaborazione con Jonas Varese Onlus e I.R.P.A., interverranno:
• Erika Minazzi, psicologa, psicoanalista, docente Spic e direttore Jonas Varese. Uno per tutti, uno per uno è la sua riflessione sulla cura dei disturbi alimentari che si deve necessariamente dispiegare a partire dall’unicità del soggetto che ne soffre. Un invito a restituire la singolarità del paziente celata sotto l’omologazione sintomatica.
• Eugenia Dozio, dietista clinica del Dip. di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi dell’Insubria e coordinatore scientifico di Villa Miralago, condividerà la sua analisi sul tema La tavola dell’altro, un focus sul corpo, sul grasso tangibile e immaginario e su ciò che insegnano i sintomi del disturbo alimentare.
• Michele Angelo Rugo, psichiatra, psicoanalista, filosofo, docente Spic e direttore sanitario della Residenza Gruber, svilupperà un intervento dal titolo Alimentare il desiderio, un gioco di parole che rimanda alla possibilità di modificare qualcosa sul piano affettivo, il desiderio appunto, e di conseguenza, modificare le modalità disfunzionali alimentari.

A seguire lo spettacolo ED RECOVERY, una pièce inedita che tratta di disturbi alimentari.

Ed Recovery è uno spettacolo che racconta persone vere, testimonianze riunite dalla penna dell’ attrice ed actor coach Lia Locatelli, direttore artistico di M.Art.E, a seguito di un percorso di un anno fatto con ragazzi e ragazzi che soffrono di disturbi alimentari.
Per dare voce a persone reali, non inventate, non romanzate.
Esso è quasi un’ istallazione, nella sua semplicità di scelte registiche, coadiuvate dal tecnico Niccolò Maggio, fonico, tecnico video e responsabile tecnico in dirette televisive Rai, Mediaset, Sky, Prima Della Scala 2020/2021.
Così, l’ emozionante interpretazione attorale si intreccia a scelte audio tecnologiche supportate da devices moderni, che alimentano la sensazione immersiva dello spettacolo.
Una regia nuova, moderna, per avvicinare il teatro ai giovani attraverso il LORO linguaggio. Tra le tecniche utilizzate per i Voice Over ed i contributi audio, emerge l’ASMR, di moda su Youtube, che rende la narrazione ancora più intima, ed i contributi video installativi rendono il tutto ancora più immersivo.
A condire il tutto, Caterina Rossi, che con le sue coreografie, sintetizza in maniera commovente stati d’ animo ed emozioni, rendendo catartici e liberatori momenti appositamente tensivi.
Il tutto arricchito da contributi video realizzati specificatamente per il progetto.
La sensibilizzazione sulla tematica, quindi, è il focus del lavoro.
#edrecovery sta per Eating Disorder Recovery hashtag comune sui social network, usato dai ragazz* che subiscono il ricovero ospedaliero coatto, quello atto a salvare loro la vita.
E sono sempre più in aumento. E sempre più piccoli.
Una piaga quella del disordine alimentare, che si è estesa a macchia d’ olio soprattutto negli ultimi anni, a causa anche all’ utilizzo di questi hashtag e dei social, sui quali nascono gruppi che istruiscono su come si possa celermente ed in maniera soddisfacente diventare anoressici o bulimici.
“Ed allora, se non ho futuro, se non potrò mai riuscire nell’ intento di fare ciò che desidero, nonostante il mio impegno, allora, perché vivo? Perché non scompaio?”

La cura, la calma, sembrerebbe arrivare dal CONTROLLO.
Ed Recovery è uno spettacolo per tutti, ma che strizza l’ occhio ai più giovani.
Provocatorio, crudo, brutale, senza mezzi termini. Vero. ED Recovery ti entra dentro. E’ un grido inascoltato. E le voci sono le LORO.
La prima di Ed Recovery nasce dalla collaborazione di M.Art.E con Jonas Varese, Associazione formata da psicologi e psichiatri e che si occupa di disturbo alimentare a livello nazionale.

Evento gratuito con prenotazione obbligatoria qui:

https://ticket.cinebot.it/fratellosole/

MGF

Fonti: VareseNews – M.Art.E SCUOLA DELLO SPETTACOLO di Varese

Commedia – 97′
Regia di Sophie Hyde – Gran Bretagna, 2022
con Emma Thompson, Daryl McCormack, Les Mabaleka

 

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Nancy Stokes (Emma Thompson) è un’insegnante in pensione, vedova, con alle spalle un matrimonio solido e rigoroso a cui però è sempre mancato un po’ di brivido. Ormai sola, Nancy decide di cercare quello che nella vita di coppia non ha mai trovato: una soddisfacente esperienza sessuale. Si rivolge così a un’agenzia di gigolò e sceglie di incontrare Leo Grande(Daryl McCormack). Giovane e affascinante, Leo Grande sembra essere tutto quello per cui Nancy è pronta a pagare: un uomo in grado di realizzare le sue fantasie. Ma nel corso di tre incontri in una camera di hotel le dinamiche cambiano: Leo si dimostra non solo come un uomo con cui fare dell’ottimo sesso, ma anche una persona con cui parlare e nonostante la differenza d’età, tra i due nascerà un rapporto di fiducia che porterà Nancy a riscoprire se stessa.

 

LA RECENSIONE

EMMA THOMPSON BRILLA IN UNA COMMEDIA SULLA SEX POSITIVITY DAI RITMI SERRATI E DALL’ANIMO TENERO E DIVERTENTE.

Commedia brillante a sfondo sessuale che non disdegna un livello più profondo di analisi psicologica attorno ai temi di identità e sviluppo di sé, Il piacere è tutto mio diverte e coinvolge grazie ai dialoghi vivaci e serrati, magistralmente condotti da una Emma Thompson in grande spolvero che si ritaglia un ruolo memorabile. Le fa compagnia il giovane attore irlandese Daryl McCormack, in una di quelle prove che rischiano di far da battesimo a una star del futuro. Insieme duettano a colpi di gag, fraintendimenti, approcci falliti e – pian piano – una conoscenza più intima che tradisce i propositi iniziali di un rapporto professionale e di due identità fittizie.
Nella sceneggiatura della comica e autrice televisiva Katy Brand, l’ambientazione quasi totale della camera d’albergo (in una serie di incontri ripetuti) diventa il terreno levigato e artificiale di una battaglia per la definizione e il controllo delle proprie fantasie.
Spesso si parla di prove d’attore “coraggiose”, e in particolare quella di Thompson non può non considerarsi tale, per quanto il termine sia trito. Nel mettersi letteralmente a nudo davanti a uno specchio, l’attrice si fa carico del peso di conversazioni scomode non solo sulla sessualità, ma sul corpo delle donne, in particolare di una certa età, e di come e quanto esso possa mostrarsi.
La regista Sophie Hyde asseconda il tutto con una visione fresca e contemporanea della “sex positivity”, e una messa in scena pulita ed essenziale che lascia ampio spazio all’esercizio teatrale tra i due protagonisti. Tutto, nel film, è raffinato all’ennesima potenza.
Il piacere è tutto mio è una dissezione del vero e del finto, e soprattutto riesce nella missione di parlare di temi scomodi con una dolcezza e tenerezza di fondo che non può che catturare l’animo dello spettatore.

Tommaso Tocci – Mymovies

LA REGISTA

 

SOPHIE HYDE
Adelaide – Australia, 1977

 

 

 

Sophie Hyde è una regista, scrittrice e produttrice australiana nata asd Adelaide , South Australia .
È co-fondatrice della Closer Productions ed è nota per il suo pluripremiato film d’esordio, 52 Tuesdays (2013) e la commedia drammatica Animals (2019). Ha anche realizzato diversi documentari, tra cui Life in Movement (2011), un documentario sulla ballerina e coreografa Tanja Liedtke e serie televisive, come The Hunting (2019). Il suo ultimo film, Il piacere è tutto mio, è stato presentato in anteprima al Sundance Festival il 23 gennaio 2022 ed è uscito sulla piattaforma Hulu e nei cinema nel Regno Unito e in Australia.

 

LA PROTAGONISTA

EMMA THOMPSON
Londra, 1959

 

 

 

Emma Thompson è figlia e sorella d’arte. Dopo aver frequentato la Camden School, e il Newnham College di Cambridge, Emma entra in contatto con il mondo della recitazione come attrice in spettacoli comici e cabarettista: muove i primi passi nello spettacolo con il suo fidanzato Hugh Laurie (il futuro Dr. House), con cui recita nella sit-com “The young ones”; poi si dedica anche al teatro ed entra nel gruppo dei Footlights, che in passato ha visto nella proprie fila anche Eric Idle e John Cleese dei Monty Python. La serie “Thompson”, scritta per la Bbc, segna il suo passaggio ai ruoli drammatici. Poco dopo, mentre lavora a un’altra serie, “Fortunes of War”, incontra e si innamora di Kenneth Branagh: diventerà suo marito. Il sodalizio con Branagh diventa ben presto professionale: per lui, infatti, Emma Thompson recita in diverse pellicole.

Il talento di Emma cresce sempre di più, anche lontano dalla guida del marito: non è un caso che l’attrice conquisti, grazie a “Casa Howard” (1992) di James Ivory, un Oscar e un Golden Globe come migliore attrice.
L’Oscar, peraltro, arriva anche per la sceneggiatura dell’adattamento cinematografico di “Ragione e sentimento”, il celebre romanzo di Jane Austen.Le sue doti di attrice drammatica, però, non vanno a intaccare la sua spinta ironica, e il suo talento da commediante: in “Maybe baby” ritrova il suo vecchio compagno Hugh Laurie; pellicole più sofisticate sono, invece, “Carrington” e “Love actually – L’amore davvero”, al fianco di Alan Rickman e Hugh Grant.

 

L’intensità dei suoi ruoli drammatici, d’altra parte, si fa apprezzare nell’esordio alla regia dello stesso Rickman, “L’ospite d’inverno”, in cui la Thompson veste i panni di una vedova che deve fare i conti con una elaborazione del lutto dolorosa. Dopo aver divorziato da Branagh, Emma Thompson sposa nel 2003 Greg Wise, che le aveva già regalato nel 1999 una figlia, Gaia Romilly.

Il 2003 è evidentemente un anno magico, visto che, insieme con Alan Rickman, la Thompson entra a far parte del cast della saga di Harry Potter: nel ruolo della professoressa di Divinazione della scuola di Hogwarts, Sibilla Cooman, prende parte a “Harry Potter e il prigioniero di Azkaban”, “Harry Potter e l’ordine della fenice” e “Harry Potter e i doni della morte: parte II”.

 

BORROMINI E BERNINI. SFIDA ALLA PERFEZIONE

Martedì 16 maggio ore 21.00

Docufilm diretto da Giovanni Troilo

E’ il racconto della rivoluzione architettonica di un genio solitario che cambia per sempre l’aspetto di Roma attraverso una sfida personale alle convenzioni e ai pregiudizi, con l’umiltà di apprendere dal passato per inventare il futuro, con il coraggio di portare avanti un’idea pagandone il prezzo fino in fondo.

BERNINI E BORROMINI: IL DIVINO FATTOSI MARMO

Star Trek o Star Wars?
Beatles o Rolling Stones?

C’è chi dice che si può capire molto di una persona dalle risposte a queste domande, ma quando ancora John Lennon e Spock non erano ancora in circolazione, la vera domanda era: Gian Lorenzo Bernini o Francesco Borromini?
Ebbene sì, pare che la rivalità tra i due, sebbene i soggetti del contendere non si siano mai nemmeno presi a male parole, dividesse il mondo occidentale durante il Seicento e nel periodo successivo.
In effetti, si parla di due artisti che, ognuno a modo proprio, hanno fatto grande la storia dell’arte, in particolare in quel di Roma, capitale non solo della Cristianità ma anche dell’arte: la dimostrazione della grandezza di un artista era infatti ricevere una convocazione da parte del Pontefice per contribuire alla costruzione e decorazione della Città del Vaticano.
E, come ben sappiamo, tutta Roma ancora brilla grazie alle opere immortali di Bernini e Borromini.

Il Colonnato di Bernini, iniziato nel 1656, è probabilmente una delle opere più finemente meditate mai realizzate: Bernini dovette tener conto dell’impressionante facciata di Maderno, che doveva risaltare, della cupola di Michelangelo, nonché di esigenze tecniche quali favorire l’imponente afflusso di fedeli, garantire una buona acustica e restare fedele al simbolismo numerico a cui il Papa teneva molto.

Il risultato, ottenuto dopo undici anni di lavori in costante riprogettazione, è un insieme armonico e accogliente, che sembra quasi dare un abbraccio di benvenuto al fedele; è anche una meravigliosa cornice che non devia l’attenzione dall’architettura preesistente: è semplicemente lì, una parte del paesaggio così perfetta e naturale che quasi non attira l’occhio, quantomeno non in un primo momento.

Bernini è anche l’autore del progetto, poi ultimato da Borromini, del maestoso baldacchino che sovrasta l’altare maggiore di San Pietro: l’immensa struttura sembra espandersi a dismisura, grazie anche all’effetto delle colonne tortili che creano spirali senza fine, quasi a voler raggiungere i Cieli.
Insomma, un artista che incarna in sé il concetto di “sublime” kantiano: non una mera iperbole dell’aggettivo “bello”, ma qualcosa di più: opere tanto maestose, tanto imponenti, che sembra quasi di scorgere l’Onnipotente in esse.

Ed eccoci dunque di fronte a un’opera, tremanti e inquietati e tuttavia incapaci di distogliere gli occhi.
Un turbamento, forse, che Borromini percepiva già da allievo e collaboratore di Bernini.
L’animo umano anela al bello, ognuno di noi desidera provare emozioni intense, restare senza parole di fronte alla meraviglia… ma forse, certe volte abbiamo solo bisogno di sederci e lasciarci cullare da prospettive armoniche, senza sentirci schiacciati.
Ed è qui che Borromini si distacca da Bernini: la sua arte è più pacata, moderata nelle dimensioni. Fu infatti molto apprezzato dagli ordini monastici, che non desideravano architetture maestose.

Borromini prende l’arte di Bernini e la riduce a dimensioni umane, rende umano il divino, ricordandoci con grazia che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio e che il timore che proviamo altro non è che amore, e desiderio di avvicinarci a Lui quanto più possiamo nella nostra piccolezza e imperfezione.

E forse, come preferire i Beatles ai Rolling Stones nulla toglie a Keith Richards, così preferire Bernini o Borromini non è, di fatto, l’espressione di spregio nei confronti dell’altro: è semplicemente la riprova millenaria che per quanto siano grandi le nostre differenze, per quanto possiamo amare maggiormente una cosa rispetto ad un’altra, siamo tutti uniti nel condiviso anelito a contemplare la bellezza, che sia quella maestosa di un mare in tempesta o quella modesta ma non per questo meno importante di un fiorellino spuntato da una crepa nel
terreno.

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

Drammatico – 158′
Regia di Todd Field – USA, 2022 –
con Cate Blanchett, Noémie Merlant, Nina Hoss.

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Lydia Tár è una rinomata musicista in procinto di incidere la sinfonia che rappresenterà il picco della sua incredibile carriera. Quando la fortuna sembra volgere contro Lydia, la figlia adottiva di sei anni, Petra, rappresenterà un sostegno emotivo fondamentale per la madre.
Lydia Tár è considerata una delle più grandi direttrici e compositrici del panorama internazionale, ed è il primo direttore donna della Filarmonica di Berlino.
La sua energia è straripante, e non si ferma dinanzi ad alcun ostacolo: promuove continuamente progetti, tra cui la prossima registrazione dal vivo della Sinfonia numero cinque di Mahler. I suoi riferimenti fondamentali sono Francesca Lentini, la sua assistente personale, e Sharon Goodnow, la sua compagna e primo violino dell’orchestra berlinese.
Un giorno, Lydia incontra Eliot Kaplan, un direttore d’orchestra che gestisce un programma di borse di studio che la Tár ha fondato, per consentire a giovani donne di diventare a loro volta direttrici. Vorrebbe infatti sostituire il suo assistente direttore Sebastian Brix con Francesca. In seguito, Lydia si reca alla Juilliard, lì dove criticherà aspramente uno studente per le sue posizioni in merito ai maestri classici: la Tár non accetta che i suoi allievi non riescano ad andare oltre la superficie delle apparenze.
Quando riceverà un romanzo inviato da Krista Taylor, un’allieva che è passata dal programma delle borse di studio, Lydia tradirà un certo nervosismo, tanto da promettere a sé stessa di impedire alla donna di scalare le posizioni per arrivare a essere a sua volta una direttrice d’orchestra. Nel frattempo, un’audizione per un posto di violoncellista le farà conoscere Olga, una ragazza russa molto promettente della quale Lydia si assicurerà i favori, suscitando la reazione infastidita di Francesca e Sharon, con le quali i rapporti diventeranno sempre più complicati.
E non soltanto con loro: anche Sebastian, dopo aver compreso di essere prossimo all’avvicendamento, si scaglierà contro Lydia, accusandola apertamente di dare luogo a favoritismi secondo le sue volontà e desideri personali, e non seguendo un criterio meritocratico. Adirata, Tár rifletterà sulle scelte da intraprendere.

LA RECENSIONE

UNA COSTRUZIONE DRAMMATICA AFFASCINANTE, ENIGMATICA E COINVOLGENTE, NONOSTANTE IL RITMO MOLTO DILATATO.

Si può essere artisti senza “fare della propria vita un’opera d’arte”, come invece predicava Oscar Wilde? Ha senso ascoltare un brano ignorando la storia del suo autore? E quale ruolo giocano i social network in un contesto dove “essere accusati equivale a essere colpevoli”, citando appunto un dialogo di Tár? Dobbiamo piegare il valore estetico dell’opera al giudizio umano dell’artista, come fa un personaggio del
film persino nei riguardi di Bach? Si tratta di domande complesse a cui il regista Todd Field nega saggiamente risposte assolute, e non perché Tár affronti la questione in maniera pavida; piuttosto, ci consegna le chiavi per decifrare autonomamente il fenomeno, esaminandone tutte le implicazioni a livello culturale e “tecnico”: prende in esame quindi le conseguenze del COVID, il ruolo dei social network, l’impatto del
movimento Me Too sull’opinione pubblica ma anche problemi di carattere teorico come il rapporto tra estetica e etica nell’opera d’arte. Per offrire allo spettatore un quadro oggettivo, il film si serve di un personaggio (fittizio) così vivo, controverso e sfaccettato, da ispirare contemporaneamente sia empatia che repulsione, merito soprattutto di una straordinaria Cate Blanchett.

Tár sposa a livello stilistico anche il medesimo rigore intellettuale della protagonista, evocandone la malcelata fragilità, la solitudine e l’incapacità di provare sentimenti se non attraverso la musica; lo sguardo severo ma equidistante del regista non lesina, insomma, un elemento di comprensione ed empatia, capace di conferire ulteriore verità al resoconto. Il film ritrae infatti la paralisi emotiva del nostro mondo, che si identifica con la morale semplificata dei social network (“architetti della vostra anima”, parole di Lydia Tár) oppure langue nel
cinismo. Ed è anche una riflessione sul gelo dei rapporti interpersonali dopo il Covid, sulla paura dell’altro e l’abitudine a rimanere soli. Tutto questo finisce inevitabilmente per generare ricadute sull’industria culturale e i suoi interpreti, perché in fondo come fai a vendere emozioni se non provi più nulla? Per fortuna, la potente riflessione di Todd Field sul rapporto tra linguaggio e senso non sconfina mai in un ozioso esercizio metalinguistico ma procede, anzi, con forza ipnotica verso un finale misterioso e affascinante, costruendo un’opera originale, suggestiva e ricca, ma soprattutto estremamente rilevante.

Marco Iannini – IGN Italia

IL REGISTA

 

TODD FIELD
24 febbraio 1964
Pomona, California (USA)

 

 

 

 

Todd Field è uno dei rappresentanti più sfaccettati dell’industria cinematografica americana. Ha lavorato come attore, produttore, compositore, sceneggiatore e, infine, come regista. Todd Field nasce a Pomona, in California, dove la sua famiglia gestiva un allevamento di pollame. All’età di due anni, i suoi genitori decidono di lasciare quel tipo di attività e di trasferirsi a Portland, in Oregon, dove suo padre lavorerà come commesso viaggiatore e sua madre come bibliotecaria scolastica.
Appassionato di musica jazz fin dai sedici anni, sarà questo genere a fargli conoscere il futuro vincitore di un Grammy Award Chris Botti. Intanto, si avvicinava anche al cinema, e dopo essersi diplomato si trasferisce a New York per studiare recitazione. Abile musicista jazz, entra a far parte dell’Ark Theater Company, con cui si esibisce sia come attore che come musicista. Nel 1987 debutta sul grande schermo con una piccola parte in “Radio Days” di Woody Allen. Field alternerà piccolo e grande schermo lungo tutti gli Anni Ottanta-Novanta, senza mai riuscire a emergere veramente. Nel 1994 riceve la nomination al Sundance Film Festival come miglior attore non protagonista per la
sua interpretazione in “Ruby in paradiso” (di cui è anche autore dellle musiche) di Victor Nunez.
Dopo aver girato una serie di cortometraggi tra cui “When I was a boy” (1993), proiettato al Museum of Modern Art e “Nonnie & Alex”, pluripremiato negli Stati Uniti, nel 2002 esordisce alla regia di lungometraggi con “In the Bedroom”, pellicola vincitrice, fra l’altro, di un riconoscimento della American Film Award, del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival e candidata a cinque premi Oscar. Dopo quattro anni, arriva “Little Children”, basato sull’omonimo romanzo di Tom Perrotta. Ancora una volta, Field conquista una candidatura per la sceneggiatura non originale.


Si staccherà dalla letteratura per il suo terzo film, “Tár”, acclamato successo di recitazione, regia e sceneggiatura e che segnerà il suo ritorno al cinema dopo ben sedici anni di assenza. Anni spesi, ha dichiarato Todd Field, a prendersi cura e a far crescere i propri figli.
Todd Field è sposato con la costumista e sceneggiatrice Serena Rathbun fin dal 1986.

La coppia ha lavorato spesso insieme e i due sono diventati genitori degli attori Alida P. Field e Henry Field.

 

MGF