MISSION: IMPOSSIBLE Dead Reckoning Parte 1
Regia di Christopher McQuarrie – USA, 2023 – 163′
con Rebecca Ferguson, Tom Cruise, Hayley Atwell

 

 

 

 

 

“W A R   H A S   C H A N G E D”

La guerra è cambiata, diventa impalpabile, sottocutanea, priva di bandiere, ma non meno crudele e assoluta. La guerra è cambiata, e la premiata ditta Christopher McQuarrie / Tom Cruise, per continuare (e concludere?) la parabola di Ethan Hunt e della sua squadra all’interno dell’IMF ha scelto di tracciare un percorso preciso, chiudendo il cerchio con un dittico che possa da un lato essere antologico e dall’altro spingere l’acceleratore verso la contemporaneità più assoluta.
E’ un primo atto che mette in chiaro i toni di questa nuova avventura attraverso un villain intangibile, e proprio per questo ancor più pericoloso: un’intelligenza artificiale.

 

Senza nemmeno nascondere troppo una vena critica nei confronti dell’attualità, Dead Reckoning Parte Uno ci mette di fronte ad una delle più grandi paure che l’uomo vive al giorno d’oggi: cosa accadrebbe se un programma informatico fosse in grado di agire come un senziente, e se possedesse gli strumenti e le informazioni necessarie a controllare il mondo?
Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno continua la tradizione spettacolare della serie, ma è sia più comico, sia più drammatico dei capitoli precedenti.

Ethan infatti è afflitto dal ricordo di un lutto e il ritorno di Gabriel (che in realtà non si era mai visto prima nella serie) mieterà nuove vittime. Al tempo stesso però Ethan, che rimane pressoché invincibile, dimostra finalmente dei limiti vagamente umani e lo fa in modo sorprendente ed esilarante, soprattutto nella parte del film ambientata a Roma.

       
Qui ha luogo un inseguimento per le vie e i vicoli della città, che passa per i monumenti più celebri della capitale, dal Colosseo alla scalinata di Trinità dei Monti. Ma Ethan si trova impossibilitato a guidare al proprio meglio e Grace, che lo accompagna suo malgrado, non è un asso del volante. L’inseguimento ha così un tono comico, di un umorismo concreto, basato non sulle battute bensì sui piccoli e grandi incidenti causati dai due e sulle loro reazioni. Il tutto viene poi magnificato quando, avendo sfasciato un’auto, ne dovranno
prendere un’altra e si ritroveranno alla guida di una storica 500 gialla, un po’ come fossero Lupin III e Fujiko.

 

Ci sono poi set-piece ambientati in un aeroporto a Dubai, con le sue architetture moderne e ariose, mentre a Venezia ci si insegue per strettissime calle e si passa da party esclusivi a duelli in suggestive cornici storiche.

 

 

A spiccare è però la situazione dell’ultimo elaborato atto, ambientato su un treno che attraversa le Alpi austriache e corre verso un ponte caricato di esplosivo. Anche qui non manca la comicità, con Ethan posto di fronte a un piano davvero impraticabile persino per lui e costretto a improvvisare per raggiungere il treno. Qui, nel mentre, si consuma il consueto inganno con i personaggi mascherati tipico della serie, per poi arrivare al tropo del duello sui tetti dei vagoni mentre il treno sfreccia verso una galleria.

 

 

Tom Cruise, com’è noto, si cimenta negli stunt in prima persona e questo dà alle scene d’azione una maggior concretezza, aiutata anche da un comparto di effetti speciali che cerca soluzioni analogiche anziché abusare di CGI (Computer Generated Imagery). È notevole in questo senso anche l’impegno delle sue due nemesi, interpretate da Esai Morales e soprattutto da Pom Klementieff, che senza il pesante trucco di Mantis dei Guardiani della Galassia è quasi irriconoscibile e sfoggia una bellezza dai tratti molto particolari, oltre a una notevole ferocia nelle scene di corpo a corpo. Ciò nonostante, dal punto di vista dell’azione il capitolo precedente rimane insuperato ma quel film mancava dei tocchi leggeri che McQuarrie sembra aver finalmente trovato in questo Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno.

 

Per concludere: Mission Impossible 7: Dead Reckoning Parte Uno ha azione e ritmo da vendere, e l’impianto narrativo riesce a tenere fede allo stile più recente della saga, pur scricchiolando di più rispetto al passato. Perché stavolta il nemico è invisibile, più astratto, e per questo non sempre le svolte di trama risultano perfettamente coerenti o credibili. Ma forse per la prima volta, la saga dà segnali di stanchezza. Perché gli stunt di Tom Cruise sono meno brillanti, meno presenti.
Perché il tempo passa, a quanto pare, anche per Ethan Hunt. E il problema è tutto lì. Che gli vuoi bene comunque, eh! A Ethan, al team dell’IMF, a ciò che Mission Impossible rappresenta.

 

Recensioni varie elaborate da MariaGrazia Ferrario

In Italia al Box Office Mission: Impossible Dead Reckoning – Parte 1 ha incassato nelle prime 6 settimane di programmazione 5,2 milioni di euro e 1,7 milioni di euro nel primo weekend.

Recensioni
7/10 Everyeye Cinema
7,5/10 IGN Italia
3,6/5 Coming Soon

 

PICASSO. UN RIBELLE A PARIGI
Storia di una vita
e di un museo

Regia di Simona Risi su soggetto di Didi Gnocchi e Sabina Fedeli
con la partecipazione straordinaria di Mina Kavan

 

“Dipingere non è un’operazione estetica:
è una forma di magia intesa a compiere un’opera di mediazione fra questo mondo estraneo e ostile e noi”.
Pablo Picasso

 

“CHE BRUTTO, SEMBRA UN PICASSO!”

Quante volte abbiamo sentito, o addirittura pronunciato questa frase?
Perché sì, diciamocelo, ad un primo sguardo abbiamo tutti pensato che Picasso fosse uno che, di disegnare, proprio non era capace.
Ma soffermiamoci per un momento su ciò che sappiamo di lui, della sua vita tormentata, del solitario nella folla che ha lasciato
emergere già dagli albori della sua carriera la malinconia, la solitudine che lo tormentavano mentre si circondava di persone che sapeva non sarebbero rimaste.

Poveri in riva al mare - P.Picasso 1903
Poveri in riva al mare – 1903

Penso al periodo blu, alle sue figure smagrite e tristi, ombre dei sogni svaniti delle persone lì ritratte, così belli e così dolorosi che verrebbe voglia di infrangere il muro tra arte e vita e donare loro un abbraccio, un piccolo pensiero, qualsiasi cosa possa tingere i loro visi con dei sorrisi che sembrano ormai lontani, distanti, persi per sempre.
Picasso è un artista tra i primi che hanno vissuto il turbamento che resta ancora oggi una costante: l’arte ha perso il suo scopo primario, e cioè quello di rappresentare la realtà per come la vediamo.
E dunque, che fare quando ciò che consideri il tuo unico talento è diventato qualcosa di sostanzialmente inutile, buono sì e no a intrattenere gli amici alle feste, come muovere le orecchie o piegare i gomiti all’indietro?

 

 

 

 

Ritratto di Dora Maar – 1937

Semplice, anche se non di immediata comprensione: si cerca un modo di dare all’arte una spinta in più, quella spinta che anni più tardi Fontana ammetteva di non saper trovare, limitandosi a tagliare una tela nella speranza che qualcuno vi infilasse dentro una mano per tirare fuori un nuovo significato per l’arte.
Picasso ha tentato di inserire nell’arte una quarta dimensione: il tempo. Le sue opere sono strane, deformi, non perché Picasso fosse fuori di testa, ma perché sono immagini in movimento, frame sovrapposti della stessa immagine che si muove nel tempo.

 

 

 

Paul en Arlequin – 1924

 

 

Picasso, come sa chiunque abbia dato un’occhiata alle sue prime opere, è perfettamente in grado di dipingere immagini realistiche, ma pensiamo ora ad un corpo in movimento, immaginiamo di sovrapporre nello stesso fotogramma una piccola sequenza di filmato.
Ecco emergere due occhi sullo stesso lato del viso, passando da un profilo a un primo piano, mentre il capo viene voltato verso l’osservatore. Ecco un braccio che si allarga e si deforma, mentre si alza a ravviarsi i capelli.

 

 

 

Ecco una mano che reca una candela, dove fino ad un attimo prima c’era un cavallo che nitriva spaventato dai rumori della guerriglia.

Guernica – 1937

“Mio Dio, è orrendo”, si dice abbia commentato un funzionario di fronte al Guernica. Picasso, si racconta, gli rispose che era orrendo ciò che rappresentava.

 

Les Demoiselles d’ Avignon – 1907

 

 

Strana, difficile da interpretare, assolutamente non immediata, l’arte di Picasso integra la dimensione del tempo, ma non solo quello in cui prende vita l’immagine che dipinge: Picasso si proietta in avanti e prende in prestito un po’ del nostro tempo, quando ci sediamo a interpretare con impazienza malcelata le sue opere, quando cerchiamo di capire cosa esattamente intendeva mostrarci con quelle strane figure sulla tela.

 

 

 

 

Donna Seduta – 1937

 

È il tempo, Picasso è l’unico artista ad essersi sobbarcato il penoso compito di inserire qualcosa di impossibile come il trascorrere del tempo in un’immagine fissa, statica.
E d’altronde, se abbiamo inserito con successo la terza dimensione con l’avvento della prospettiva, perché non tentare quest’altra impresa?
E se il ticchettio dell’orologio non è evidente ad un primo sguardo, forse lo può diventare se pensiamo a quanto la frenesia del trascorrere del tempo pervade le nostre vite: sempre di corsa, sempre di fretta, sempre in ritardo, tanto che riusciamo a percepire con chiarezza solo le cose più vicine a noi, mentre tutto il resto diventa un confuso caos di figure indistinte, che ci sfiorano solamente, cambiano forma e lasciano che passiamo oltre, senza notarle, senza sentire l’urlo cupo della loro disperazione, senza capire che il loro dolore è il nostro.

 

 

Donna accovacciata – 1902

 

Di questo, a mio parere, è fatta l’arte di Picasso: di solitudine e di mancata percezione.
Lui prende anime solitarie, quelle che se ne stanno all’angolo della stanza in silenzio, le persone che hanno perso tutto e ciononostante vanno avanti, a discapito di ogni speranza, le dipinge nel loro breve arco temporale e ce le mette di fronte, ce le butta in faccia e ci costringe a guardare la bruttura della solitudine, del tempo che passa sempre uguale, mai un istante diverso dall’altro nel gorgo della disperazione.
Picasso ruba il tempo dei suoi soggetti, e ruba il nostro, nella speranza di farci comprendere che proprio il tempo, la quarta dimensione che deforma le figure, è il bene più prezioso, la ragione per cui il mondo ha la sua forma e la base della nostra vita; forse, prendendone atto potremo cominciare a goderne, invece di sprecarlo a disperarci per il suo ticchettio incessante.

 

 

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

Anarchico, straniero, rivoluzionario: a 50 anni dalla morte e a pochi giorni dalla data del suo compleanno, uno sguardo del tutto inedito sull’artista più sorprendente del Novecento. All’alba di una mattina del 1901 Picasso arriva a Parigi. Il suo futuro inizia proprio quel giorno, in quella città. Nato in Spagna il 25 ottobre del 1881, Picasso trascorrerà quasi tutta la sua vita a Parigi eppure, nella capitale francese, si sentirà spesso uno straniero, un esule, un ‘vigilato speciale’ della polizia.

Regia di Jonathan Nossiter
USA, 2020 – 126′
con Nick Nolte, Charlotte Rampling, Alba Rohrwacher
Drammatico

 

 

 

 

 

LAST WORDS È UNA FAVOLA POST APOCALITTICA MA ANCHE UN’ODE AL POTERE DEL CINEMA DI RENDERCI IMMORTALI.

Che film strano, Last Words. A tratti risulta addirittura indecifrabile, nella sua disarmante purezza d’intenti. Intenti che si sovrappongono, che si sostituiscono, che si affiancano. Al centro, un’idea ben precisa. L’arte. L’arte come salvezza, come obiettivo, come speranza. E, soprattutto, l’arte cinematografica come profonda testimonianza, in quanto “se vieni filmato, esisterai per sempre”.
Per questo, Last Words, diretto da Jonathan Nossiter, è da intendere come una sorta di lascito, affidando al cinema stesso i frammenti di una memoria interrotta. Una memoria spezzata che il regista – come può e come crede – prova a ricostruire per mezzo dello stesso cinema, a cui dedica quello che potrebbe essere definito un post-apocalittico umano, lontano dalla realtà fantascientifica ma vicinissimo alla realtà di un futuro non così lontano.
Jonathan Nossiter, il cui film sarebbe dovuto essere presente all’edizione di Cannes 2020, mozzata dal Covid, attraverso la sua – a tratti – bizzarra opera dichiara profondo amore verso la terra (tant’è che ora fa l’agricoltore) e verso la Settima Arte, elevandola quasi ad atto salvifico, a gesto miracoloso. Ma una salvezza – e quindi un miracolo – può essere possibile solo se prima c’è l’abisso più profondo. E oggi, secondo la sceneggiatura di Nossiter, firmata insieme a Santiago Amigorena (autore del libro da cui è tratto il film), l’abisso più pericoloso è anticipato dall’attuale e tutt’ora sottovalutata crisi climatica. Un mostro che incombe, inesorabile e gigantesco. È lì, sullo sfondo, un brusio fastidioso, una pioggia più intensa, un grado in più sotto il sole. Eppure, il cambiamento drammatico è in atto.

Non c’è più tempo.
Siamo nel 2086, l’anno che potrebbe segnare definitivamente la fine dell’umanità. Siccità e grandi alluvioni hanno resto la Terra un posto inospitale. Kal, interpretato dal non-attore Kalipha Touray (rifugiato gambiano, che ha “già vissuto la fine del mondo”, secondo il regista), sta vivendo “l’orrore di essere l’ultimo uomo rimasto“. Intorno a lui non c’è più nulla, né cultura, né bellezza, né natura. Tuttavia, dopo un lungo cammino, si ritrova in quella che una volta era Bologna. Nello specifico, nel luogo che una volta era la Cineteca di Bologna (intravediamo un cartello…). Qui, incontra un vecchio regista che si fa chiamare Shakespeare (si vola basso…), con il volto stropicciato di Nick Nolte. L’uomo spiega al ragazzo che l’unica strada che porta alla salvezza è quella che spinge a credere in qualcosa. Quel qualcosa è il cinema stesso.
Sarà proprio l’immaginazione, sotto forma di cinema, a salvare l’uomo, e in un certo qual modo, a salvare lo stesso film di Nossiter. Profondamente legato all’Italia, il regista statunitense sceglie numerose clip di film italiani (c’è pure Totò!) per delineare il suo concetto salvifico, facendo sì che il cinema, mezzo d’altri tempi, diventi l’innovazione in un mondo che ha perso la sua anima. Perdere e ritrovare, uno spunto notevole, dal forte carattere narrativo.

Non c’è dubbio che Last Words, per Nossiter, sia stato un film dal forte valore personale: una causa sposata in pieno, la sua carezza verso la cinematografia, un atto di speranza che possa allontanare la parola fine.
Come? Mantenendo viva la memoria, e quindi proiettandola su un telo bianco, in cui le emozioni tornano a splendere.

Damiano Panattoni – Movieplayer

 

APOCALITTICO O POSTAPOCALITTICO?

La fantascienza apocalittica e la fantascienza postapocalittica sono due sottogeneri della fantascienza aventi in comune il tema dell’apocalisse intesa come evento distruttivo e catastrofico su scala planetaria.
Si differenziano tra loro perché la fantascienza apocalittica è incentrata sull’imminenza del verificarsi di un evento apocalittico, mentre la fantascienza postapocalittica è incentrata su un mondo devastato da un evento apocalittico già verificatosi, nella sua successiva immediatezza o molto tempo dopo dall’essere avvenuto
L’ambientazione temporale del postapocalittico può essere immediatamente successiva alla catastrofe, focalizzandosi sui viaggi o sulla psicologia dei sopravvissuti, o considerevolmente posteriore, comprendendo spesso il tema della perdita della memoria storica, per cui ci si è dimenticati dell’esistenza di una civiltà precatastrofe o la sua storia è divenuta leggenda o mito. La civiltà perduta possedeva in genere un elevato sviluppo scientifico-tecnologico e poteva anche essere una civiltà basata sullo spazio.
L’uso di un contesto postapocalittico nei film e l’immaginario tipico che vi si riferisce, come i deserti sconfinati o le vedute aeree di città demolite, i vestiti fatti di cuoio e di pelli di animali, le bande di razziatori, è ormai comune.
Non sono pochi i film ambientati dopo un’apocalisse, tutt’altro.
Il cinema post-apocalittico, rispetto al cinema dell’Apocalisse, ha la fortuna di costare molto di meno, come ha dimostrato George A. Romero con la sua tetralogia degli zombie iniziata nel 1968 con La notte dei morti viventi.
Non c’è bisogno di mostrare grandi esplosioni, palazzi che crollano, alieni che invadono le strade. Il cinema post- apocalittico generalmente è piuttosto minimalista, e trova nella famiglia il suo fulcro drammatico. Basta una catastrofe qualsiasi, e un gruppo di sopravvissuti che si fa strada fra le macerie del vecchio mondo.
Alcuni racconti apocalittici e/o postapocalittici sono stati criticati perché ritenuti non verosimili o forieri di propaganda allarmista. Le opere sul tema – assieme alla saggistica – hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo del movimento moderno del survivalismo.

Tra i migliori film postapocalittici del ventunesimo secolo ricordiamo:
THE DAY AFTER TOMORROW – L’ALBA DEL GIORNO DOPO (Ronald Emmerich – 2004)
LA GUERRA DEI MONDI (Steven Spielberg – 2005)
I FIGLI DEGLI UOMINI (Alfonso Cuaron – 2006)
IO SONO LEGGENDA ( Francis Lawrence – 2007)
THE ROAD (John Hillcoat – 2009)
SNOWPIERCER (Bong Joon-ho – 2013)
OBLIVION (Joseph Kosinski – 2013)
EXTINCTION – SOPRAVVISSUTI (Miguel Ángel Vivas – 2015)
A QUIET PLACE-UN POSTO TRANQUILLO (John Krasinski – 2018)

Una bella carrellata di film che, se siete appassionati, non potrete mai dimenticare!

 

MGF

 

 

Regia di Frances O’Connor
Gran Bretagna, 2022 – 130′
con Emma Mackey, Oliver Jackson-Cohen, Fionn Whitehead
Biografico – Drammatico

 

 

 

 

L’OPERA PRIMA DELLA REGISTA INGLESE È UN SALTO NELL’IMMAGINARIO DI UNA GRANDE VOCE FEMMINILE.

In fondo, non si può fare che autobiografia. Non importa se reale o immaginaria. Contano le collisioni tra questi emisferi, e il modo soggettivo di sintetizzarle e travasarle in letteratura.
Frances O’ Connor, dopo decenni di recitazione (A.I. Intelligenza Artificiale), si piazza per la prima volta dietro la macchina da presa, per cesellare vita, tormenti, incubi e immaginazioni di Emily Brontë. Un’esistenza che si definisce in un corpo a corpo con la scrittura: una vocazione scacciata, rinnegata, poi finalmente accolta e sublimata in un romanzo epocale.
O’ Connor parte dal senso strisciante di morte che segna le tre sorelle Brontë. La scomparsa della madre ha sconquassato il maniero dello Yorkshire. Il padre padrone, reverendo Patrick le tiranneggia, prescrivendo loro una tediosa vita da insegnanti a Bruxelles. Altra mina vagante è il bizzoso Brandwel, unico figlio maschio. I due sono in simbiosi, si cimentano e si tormentano con la scrittura, urlano alle valli, scorribandano di notte in casa d’altri.
Il tappo dell’equilibrio puritano salta in aria quando vi piomba William Wieghtman. Il tenebroso, aitante pastore fa sospirare le
sorelline, dà lezioni di francese a Emily, la concupisce e l’abbandona, per senso di colpa, in balia di una passione divorante..
Tra il senso del dovere paterno e l’amore clandestino con il curato, Emily, allora, scolpisce la propria inafferrabile interiorità che O’ Connor ci restituisce in uno sventolio di primi piani intimisti per scuotere una narrazione che spesso va al piccolo trotto.
La recitazione camaleontica e nevrile di Emma Mackey si staglia, tra campi lunghi da cartolina, come uno strabordante saggio di recitazione.
Mackey l’espressionista sa riproporre tutto il tremolio emotivo della scrittrice, intestandosi con smorfiosa, sfrontata grazia, il saliscendi sentimentale della parabola. Piazzando la camera negli occhi di Emily, O’ Connor può rimbeccare di sguincio l’Ottocento anglosassone, imbalsamato in cuffiette, carrozze, brughiere, chiese e colpe da espiare. Eppure l’attrice-regista ne mantiene, fedelmente, tutte le direttrici morali, con una sensibilità rabbiosa, postmoderna, orgogliosamente femminista.
Riplasmando l’Ottocento con il Duemila e la letteratura con la biografia, lavora con l’accetta, scartando, riducendo, essenzializzando
la cronologia, asservendola allo stream of consciousness della protagonista, fatto, cinematicamente, d’un turbinio d’occhi e corse nelle
praterie e pianti e rabbia e capelli al vento. Il risultato è un film intimista, rarefatto e luttuoso, che scopre subito le carte in tavola e poi volteggia, leggiadro, tra i generi senza lasciarsi ghermire da nessuno di loro.
O’ Connor impregna ogni scena di tutta la gravità morale e sentimentale del romanzo, ma imprime alla trama un naturalismo atemporale, sgravato dalla Storia, eppure rigoroso nel denuciarne perbenismo e discriminazioni.

Davide Maria Zazzini – Cinematografo.it

 

EMILY BRONTË

Emily Brontë, nata Emily Jane Brontë, è stata una scrittrice inglese nota per il suo romanzo Cime Tempestose, in inglese Wuthering Heights. Emily è nata a Thornton ed è la quinta di sei figli. Non è l’unica scrittrice nota della famiglia Brontë: insieme a lei ricordiamo anche Charlotte, scrittrice di Jane Eyre, e Anne Brontë, autrice di Agnes, di Grey e La signora di Wildfell. Le tre scrittrici, insieme, sono conosciute con il nome di sorelle Brontë.

 

 

 

La famiglia Brontë si trasferisce a Haworth due anni dopo la nascita di Emily: saranno proprio le brughiere, tipiche del West Yorkshire, vicine a Haworth la perfetta ambientazione per la storia d’amore tra i protagonisti di Cime tempestose, Heathcliff e Catherine. La madre morì presto e il padre, un curato perpetuo che doveva occuparsi di sei figli, chiese aiuto alla governante Tabitha Aykroyd, una figura severa e intransigente che segnò l’infanzia dei fratelli.

 

Emily Brontë frequentò la Clergy’s Daughters School di Cowan Bridge, dove venne da subito notato il suo talento letterario. Ormai grande, Emily cominciò a lavorare come insegnante a Law Hill, nel West Yorkshire, ma tornò presto a casa. Insieme con Charlotte poi partì per Bruxelles, per approfondire la conoscenza delle lingue.

Una volta tornate a casa, fu Charlotte a scoprire le poesie e gli appunti di Emily. Le sorelle vivevano la loro produzione poetica come un segreto ma, dopo questa scoperta, Charlotte convinse sia Emily che Anne a pubblicare i loro lavori sotto pseudonimi – creati a partire dalle iniziali.

In seguito l’editore Newby pubblicò i tre romanzi delle sorelle e nel 1947 fu la volta di Cime tempestose di Emily Brontë che, all’inizio, non ebbe il favore della critica. Diventato oggi uno dei classici della lettetaruta mondiale, Wuthering Heights di Emily Bronte è considerato uno dei massimi esempi della letteratura vittoriana.

 

 

 

 

CIME TEMPESTOSE: L’AMORE TORMENTATO CHE RIVIVE SUL GRANDE SCHERMO

La voce nella tempesta (1939)

Di William Wyler. Protagonisti sono Laurence Olivier, nei panni del tormentato Heathcliff, e Merle Oberon in quelli di Cathy. Il regista scelse di rappresentare solamente 16 capitoli (meno della metà) trascurando completamente la storia delle nuove generazioni, della piccola Catherine e di Linton, figlio di Heathcliff e di Isabel. Una scelta probabilmente intelligente, fatta in modo da potersi concentrare unicamente sull’amore tormentato dei due protagonisti. Ottenne ben otto nomination agli Oscar, ma vinse soltanto quello per la miglior fotografia.

 

 

 

Abismos de pasión (1954)

Di Luis Buñuel. Il regista si ispirò liberamente al romanzo e scelse di cambiare un po’ la storia. I protagonisti, Alejandro (Heathcliff) e Catalina (Cathy) non sono personaggi romantici. L’ambientazione si sposta dallo Yorkshire al Messico. I passaggi più importanti e fondamentali del romanzo furono lasciati immutati. I due protagonisti si avvicinano maggiormente a quelli del romanzo; Heathcliff è rancoroso, tormentato, animalesco e non un uomo sempre composto e affascinante. Cathy non è amabile e gentile, ma viziata e capricciosa, esattamente come ci viene descritta dalla Brontë.

 

 

 

Cime tempestose (1992)

Il regista è Peter Kosminsky, gli attori Ralph Fiennes e Juliette Binoche. Tra tutti è forse il film che più si attiene al romanzo. I personaggi sembrano uscire direttamente dalle pagine del libro, li amiamo e li odiamo. Non manca niente: non mancano i giochi capricciosi di Cathy, non mancano scene bellissime tra i due amanti, seduti lontani da tutti, insieme, in mezzo alla brughiera. Non manca la rabbia cieca di lui, né i dubbi e i rimorsi di lei.

 

 

 

 

Wuthering Heights (2009)

Adattamento televisivo, diviso in due parti, del 2009. Alla regia Peter Bowker, Charlotte Riley e Tom Hardy nei panni di Cathy e di Heathcliff. In più di tre ore il regista riesce a mettere in scena tutti i 34 capitoli, mostrandoci l’infanzia e la fase adulta dei due protagonisti e la nuova generazione.

 

 

Cime tempestose (2011)

L’ultimo adattamento cinematografico dell’opera di Emily Brontë risale al 2011 e vede alla regia Andrea Arnold e come protagonisti Kaya Scodelario e James Howson. La regista affida il ruolo dell’indomabile Heathcliff a un attore nero: “Nel romazo la Bronte lo descrive come uno zingaro dalla pelle scura, negli abiti e nelle maniere un geltiluomo” . Con questa scelta la Arnold vuole affidare un ulteriore significato al Cime tempestose classico, sottolineando come l’amore tra Cathy e Heathcliff sia osteggiato principalmente per un motivo: il colore della pelle.

 

 

 

 

MGF

Regia di François Ozon – Francia, 2023 – 102′
con Nadia Tereszkiewicz, Rebecca Marder, Isabelle Huppert
Drammatico

 

 

 

 

 

UNO SMAGLIANTE MANIFESTO FEMMINISTA, PIÙ SOVVERSIVO DI QUANTO LE SUE ‘BUONE MANIERE’ LASCINO INTENDERE

Per ammissione del suo stesso autore, Mon Crime – La colpevole sono io, nuovo film di François Ozon, costituisce l’ultimo capitolo di una trilogia iniziata con “8 donne e un mistero” e proseguita con “Potiche – la bella statuina“. Questi titoli sono infatti l’adattamento di un testo teatrale d’annata, di cui viene mantenuta l’epoca di ambientazione ma che viene riletto in chiave revisionista, ovvero evidenziando gli elementi che più parlano della contemporaneità. In questo caso si tratta dell’opera omonima scritta da Georges Berr e Louis Verneuil nel 1934.
In Mon Crime, l’obiettivo del regista è riproporre atmosfere da commedia americana anni ‘30, da Lubitsch a Billy Wilder, a partire dalla
patina luccicante d’altri tempi. Nel corso del film, alcune scene sono rappresentate in bianco e nero con cartelli da cinema muto, lasciando però emergere i segni della contemporaneità. Mon Crime mette in scena una dinamica assolutamente attuale, ma rende più complessa la questione, perché le due protagoniste non sono due vittime innocenti date in pasto ai media, ma due truffatrici, che calcano l’onda
dell’omicidio per aumentare la propria fama.
Ozon dunque parte da una posizione scomoda per compiere un discorso acutissimo: assumendo il punto di vista delle due protagoniste, parteggiando per loro, porta avanti una riflessione legittima con personaggi non esemplari. Con il loro atteggiamento, Pauline e Madelaine scoperchiano tutte le ipocrisie e le falsità che stanno dietro al femminismo di facciata, a chi si fregia dell’hashtag #Metoo ma poi si comporta diversamente.
Così, l’orizzonte di Ozon è dunque sinceramente femminista, non abbellisce niente né propone soluzioni edificanti, ma anzi rende più evidenti le problematiche del contesto che rappresenta. La violenza subita dalla ragazza è un fatto reale e non viene cancellato dalla sentenza del tribunale, così come lo è il sistema oppressivo presente nell’industria cinematografica: la bugia è l’unico modo per la protagonista di fare carriera.
Così come il matrimonio è per lei l’unico di sopravvivere. La confezione da commedia brillante si scontra con la durezza della realtà.

Ma Mon Crime si può leggere anche alla luce dell’intera filmografia di Ozon, che è solito ritrarre giovani figure femminili complesse e destabilizzanti. Basti pensare al celebre Giovane e bella, dove, come nel suo ultimo lavoro, non c’era alcun giudizio morale sul prostituirsi della protagonista Isabelle, quanto invece un farsi beffe dello sguardo di chi era intorno a lei e non riusciva a comprenderla.
“Perché Ozon sembra così deliziarsi nei ritratti di crudeltà, perversione e distruzione femminile? Come lui stesso dice, è un regista che semplicemente ama le donne” , chiosava Andrew Asibong nella sua monografia dedicata al regista.
Il film a cui fa riferimento lo studioso è più precisamente il suo secondo, Amanti Criminali, che rivisto oggi trova un interessante parallelismo con Mon Crime. Protagonista è la giovane Alice, che persuade il suo passivo fidanzato a uccidere Said, un compagno campione di virilità che lei falsamente accusa di aver orchestrato uno stupro di gruppo nei suoi confronti. Ad accomunare i personaggi di quest’opera e la più recente c’è il far leva sulla visione stereotipata da parte della società. Come Madelaine e Pauline sfruttano l’immagine di attrici vittime di un produttore violento, in Amanti Criminali “la bugia dell’abuso compiuto dai suoi amici arabi della banlieue rinchiude Said nell’immaginario sessuale di fantasia dei giovani di origine araba diffuso dai principali media francesi e dalla pornografia, che si basano su cliché razziali e stereotipi dei giovani del ghetto e le loro attività depravate”.

Luca Sottimano – Ondacinema

 

IL REGISTA

FRANÇOIS OZON (PARIGI, 15 NOVEMBRE 1967)

REGISTA E SCENEGGIATORE FRANCESE

 

 

 

I film di Ozon sono caratterizzati da bellezza estetica, tagliente umorismo satirico e una visione schietta della sessualità umana. I temi ricorrenti nei suoi film sono l’identità sessuale, l’amicizia, le diverse percezioni della realtà, l’impermanenza e la morte.
Nato e cresciuto a Parigi, figlio di René Ozon, professore di biologia, e Anne-Marie Ozon, insegnante, ha un fratello, Guillaume, e una sorella di nome Julie. Da giovane inizia a lavorare come modello, ma ben presto si appassiona alla settima arte, si laurea in storia del cinema nel 1993 alla scuola di cinema La Fémis, in quegli anni inizia a realizzare un elevato numero di cortometraggi, fino al 1998, quando debutta con il suo primo lungometraggio. Sitcom, film da toni grotteschi, lo pone all’attenzione come uno dei più interessanti tra i nuovi autori del cinema francese.
La sua fama si consolida grazie a pellicole come Amanti criminali e Gocce d’acqua su pietre roventi.
Nel 2000 dirige Sotto la sabbia, primo film della cosiddetta Trilogia del Lutto, che continua nel 2005 con la pellicola Il tempo che resta e si conclude nel 2009 con Il rifugio.
Ma il successo internazionale arriva nel 2002 con 8 donne e un mistero, dove raduna diverse generazioni di attrici francesi, tra cui
Catherine Deneuve, Fanny Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Béart, Virginie Ledoyen, e grazie ad una miscela di diversi generi, che vanno dalla commedia, passando al giallo e al musical, fino al melodramma, Ozon confeziona uno dei suoi film più noti al grande pubblico.
Nel 2007 dirige Angel – La vita, il romanzo, prima produzione girata in lingua inglese, pellicola dalle ambientazione ottocentesche in cui affida il ruolo da protagonista all’attrice britannica Romola Garai. Nel 2009, invece, dirige la fiaba Ricky – Una storia d’amore e libertà, presentato alla 59ª edizione del Festival di Berlino. Nel 2010 torna a dirigere Catherine Deneuve in Potiche – La bella statuina con Gérard Depardieu e Fabrice Luchini: il film, candidato al Premio Magritte per il miglior film straniero in coproduzione, viene
presentato alla 67ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Ozon è dichiaratamente gay.

 

LA PROTAGONISTA

NADIA TERESZKIEWICZ (VERSAILLES, 24 MAGGIO 1996)
ATTRICE FRANCESE

 

 

 

Nadia Tereszkiewicz è franco-finlandese, con origini polacche.
Parla fluentemente il finlandese. Dopo aver studiato danza alla scuole Rosella Hightower e letteratura al liceo Molière di Parigi,
si dedica allo studio del teatro presso il conservatorio del XVIII° arrondissement di Parigi, prima di unirsi alla “classe libera” della
scuola di François Florent.
Debutta nel 2016 come attrice cinematografica in Io danzerò, in un ruolo secondario. Ottiene il ruolo di protagonista nel film Sauvages di Dennis Berry. Recita in Persona non grata di Roschdy Zem e in Only the Animals – Storie di spiriti amanti di Dominik Moll. Per questo ruolo riceve il premio di migliore attrice a Tokyo e fa parte delle rivelazioni al Premio César del 2020.
Nello stesso anno recita a fianco di Reda Kateb nella serie Possessions.

A proposito del suo ruolo in Possessions, dichiara: «È stata la prima volta che un regista mi ha affidato un ruolo così importante, con una vera traiettoria. È un personaggio molto fragile, che si arma di coraggio e di determinazione per tentare di liberarsi ad ogni costo. Vuole capire cosa è successo, perché l’accusano di un omicidio che lei non pensa di avere commesso. È stato necessario che trovassi una sua interiorità, un certo tipo di sensazione fisica per poterla interpretare. Ho un percorso di ballerina, il linguaggio del corpo mi interessava nella sua storia. Natalie parla poco, agisce, prende delle decisioni. Il suo corpo parla per lei».
Nel 2022 Valeria Bruni Tedeschi le affida il ruolo di protagonista nel suo film Forever Young – Les Amandiers, presentato in concorso al festival di Cannes. Interpreta l’alter-ego della regista ai tempi in cui faceva parte della scuola di teatro Les Amandiers, diretta da Patrice Chéreau e Pierre Romans. La sua interpretazione le vale il premio di migliore promessa femminile al Premio César 2023.

 

Recensioni
3,5/5 MyMovies
3/5 Movieplayer
4/5 Ciak Magazine

 

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