Regia di Ilker Çatak – Germania, 2023 – 98′
con Leonie Benesch, Leonard Stettnisch, Michael Klammer

 

 

 

 

 

Dopo “Perfect Days”, “Il ragazzo e l’airone” e “Past Lives”, la Lucky Red porta al cinema nei primi mesi del 2024 un altro titolo di grande forza espressiva: “La Sala Professori” (“Das Lehrerzimmer”) di Ilker Çatak, film tedesco passato con successo alla Berlinale73 e in corsa agli Oscar nella categoria miglior film internazionale (la stessa di “Io Capitano”). Uno sguardo in chiaroscuro sul mondo scolastico, tra corpo docente, alunni e genitori. Un affresco sociale che esplora pregiudizi, fragilità, omissioni e colpe, evidenziando alla fine un’amara sconfitta educativa. Ottima la prova della protagonista Leonie Benesch (“Il nastro bianco”, “Lezioni di persiano”). La storia: Germania, oggi. La giovane Carla Nowak è un’insegnante di scuola al primo incarico. Crede nel dialogo, nella fiducia verso i suoi piccoli allievi e nei nobili compiti dell’istituzione. Quando in classe si verificano dei furti di denaro e tra i sospettati finisce un suo allievo, Carla decide di indagare. I suoi buoni propositi però attivano una serie di conseguenze inaspettate, per lo più sconfortanti… “Volevamo analizzare un sistema, riflettere sulla nostra società. La scuola è un buon punto di partenza, è come un laboratorio”. Così il regista tedesco Ilker Çatak, tracciando il perimetro del suo film. Scritto insieme a Johannes Duncker, “La Sala Professori” sorprende per lo sguardo sociale e al contempo introspettivo, che ricorda tanto la forza espressiva dei primi (magnifici!) film di Susanne Bier tra cui “In un mondo migliore” (2010). L’opera di Çatak mostra come un’efficace istantanea il nostro presente, quello della Germania e dell’Europa tutta, dove sembrano saltati il dialogo e la cooperazione tra docenti e genitori, lasciando i più piccoli a farne le spese. Non è però un racconto che si muove sulla polarizzazione bianco-nero, bene-male. In campo ci sono attanti solitari, che si sentono detentori di certezze, costantemente sotto attacco, e che agiscono non pensando alle conseguenze delle proprie azioni. Seppure animata da valide e nobili intenzioni, la prof.ssa Nowak attiva un’escalation di tensioni e conseguenze che si abbattono sull’alunno più brillante della classe, Oskar (Leo Stettnisch), figlio di immigrati che sconta già un prezzo alto in termini di integrazione. A complicare la situazione è la reazione della madre di Oskar (Eva Löbau), che sentendosi infangata si avvia allo scontro con la Nowak, non pensando alla serenità del figlio. Così, sul volto del piccolo Oskar si leggono alla fine del film tutte le amarezze di un mondo adulto che antepone le regole alle persone, l’Io al Noi, la cultura del sospetto al dialogo. Un bambino che finisce con il perdere l’innocenza per sperimentare prematuramente lampi di livore ed esclusione. A conquistare del film “La Sala Professori” è di certo la regia di Ilker Çatak, così attenta e misurata, capace di esplorare le pieghe del reale con la tensione di un thriller psicologico, dove la ricerca della verità si fa sfaccettata e sfocata. Lo stile narrativo di Çatak sembra muoversi nel solco del “pedinamento del reale”, richiamando Zavattini e la lezione neorealista, come pure la scuola del cinema sociale europeo odierno dove figurano i fratelli Dardenne. “La Sala Professori” è un film intenso, da vedere, girato e interpretato magnificamente.

Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana

Tematiche: Bambini, Dialogo, Donna, Educazione, Emarginazione, Famiglia, Famiglia – genitori figli, Giustizia, Media, Metafore del nostro tempo, Politica-Società, Razzismo, Scuola


Ci sono momenti nella storia della cultura in cui la scuola ben si presta a essere specchio della società


La sala professori fotografa con la giusta drammaticità lo stato di un’istituzione in grossa crisi, esogena e endogena, in cui il rispetto che un tempo era precetto è stato sostituito dal sentimento umorale, per cui all’insegnante si dà retta finché è simpatico, sa intrattenere, non si fa scudo con il suo ruolo, perché allora quello scudo, sebbene di latta, diventa subito il bersaglio del tiro incrociato di alunni e genitori.


La distanza si misura in una stanza. La sala professori, nello specifico, evocata fin dal titolo (anche in versione originale) di un’opera che scandaglia la società scegliendo la missione didattica come metro di giudizio.


Recensioni
3,6/5 MYmovies
4/5 Sentieri selvaggi
4/5 Cinematografo.it

 

CONSIGLI DI LETTURA SU SCUOLA ED EDUCAZIONE

 

 

IL DANNO SCOLASTICO, Paola Mastrocola, Luca Ricolfi

Paola Mastrocola e Luca Ricolfi per la prima volta insieme in un libro per denunciare a due voci il paradossale e tragico abbaglio della scuola democratica, che, nata per salvare i più deboli, oggi di fatto ne annega le speranze. Sì, è così: una scuola facile e di bassa qualità allarga il solco fra ceti alti e ceti bassi. Un disastro, di cui rendere conto e chiedere scusa, ai ragazzi e alle loro famiglie.

 

 

 

 

 

LA SCUOLA CI SALVERÀ, Dacia Maraini

Cosa è successo alla scuola? Come possiamo risollevare le sorti dell’istituzione più importante per il futuro del Paese dopo una fase difficile come quella che sta affrontando? Dovremmo partire dagli insegnanti motivati e capaci che la sorreggono nonostante i molti ostacoli e dal serbatoio di vitalità degli studenti. E poi naturalmente occorre ridare all’istruzione le risorse e la centralità che merita. La scuola può fare la differenza, soprattutto in momenti di crisi.

 

 

 

 

 

PAROLE DI SCUOLA, Mariapia Veladiano

Mariapia Veladiano, dopo più di vent’anni nella scuola, prima come insegnante e poi come preside, la conosce bene, la scuola. Conosce i ragazzi, l’energia che corre tra i banchi, le adolescenze fatte di paura e desiderio, il futuro che promette, e insieme minaccia. Conosce le parole della scuola – paura, entusiasmo, vergogna, condivisione, integrazione, esclusione, empatia, identità, equità – e il suono che fanno tra i banchi.

 

 

 

 

 

 

PERCHE’ DEVO DARE RAGIONE AGLI INSEGNANTI DI MIO FIGLIO, Maria Teresa Serafini

Negli ultimi anni si percepisce un disagio, una tensione nei rapporti tra la scuola e la famiglia. In passato i genitori affidavano i figli ai loro insegnanti con fiducia, perché “l’insegnante ha sempre ragione”: non c’era discussione, in caso di divergenze non c’erano dubbi su chi dovesse guidare le scelte e i comportamenti dei ragazzi. Ora sembra essere girato il vento: l’insegnante ha perso molte certezze, la sua carriera è spesso una corsa a ostacoli e, in mancanza di stima per il ruolo, cala la fiducia e si misurano e valutano tutti i suoi comportamenti.

 

 

 

MGF

 

Docufilm

diretto da David Bickerstaff

 

 

 

 

 

Viaggio alla scoperta di uno degli artisti più rivoluzionari e dirompenti dell’epoca moderna


Un artista colto, astuto, socialmente consapevole e anarchico. Era anche un grande scrittore di lettere, il che è un dono per un documentarista, in quanto questi scritti forniscono una visione intima sui suoi pensieri, sul mondo in cui viveva, sulle influenze che gli altri avevano su di lui e sul suo approccio infallibile al fare arte.”
David Bickerstaff


 

CAMILLE PISSARRO: LA DEIFICAZIONE DELLA QUOTIDIANITA’

Camille Pissarro nasce nel 1830 a St. Thomas, nelle Isole Vergini, allora territorio danese. Studia arte, e da sempre ne è stato attratto: è un instancabile riempitore di taccuini per gli schizzi.

 

Camille Pissarro, Paysage tropical avec masureset palmiers (1856)

La prima corrente alla quale si approccia è un naturalismo dai tratti romantici: nei primissimi anni di carriera, prima di approdare in Francia, si cimenta con la riproduzione di paesaggi bucolici e persone, soprattutto in Venezuela, dove vive per un periodo. Presto, emerge in lui l’amore non già per i grandi soggetti epici, ma per le piccole cose, per i panorami di tutti i giorni, per le persone comuni. La svolta, penso, della sua arte furono i ritratti di persone di colore: a pochissimi anni dalle leggi che rendevano illegale la schiavitù, Pissarro ha saputo guardare persone che per secoli erano state considerate meno che umane e ha deciso che erano un perfetto soggetto per dei dipinti.

 

 

 

 

1852-54 Market Scene on the Plaza Mayor-Caracas

 

Ora, oggi può non sembrarci chissà che cosa: modelli e attori di colore si trovano facilmente, e ci siamo finalmente liberati da assurde concezioni su fantomatiche considerazioni di razza basate sul nulla. Ma provate a pensare cosa poteva significare per l’epoca: persone che portavano ancora sulla propria pelle le frustate inflitte loro dai negrieri erano ora soggetti di quadri, opere d’arte da esporre in un museo! Questa deificazione di ciò che normalmente era considerato misero, povero, quasi volgare, sarà la particolarità che caratterizza l’intero percorso artistico di Pissarro.
Dopo il Venezuela e St. Thomas, Pissarro approda in Francia, dove tenta di far esporre le proprie opere al Paris Salon: il sommo riconoscimento artistico.

 

 

 

Salon des Refusés

Ci riesce, in un primo momento, ma poi qualcosa dentro di lui sembra suggerirgli che forse non è quella la sua strada: il suo amore per il povero, per il quotidiano, lo spinge presto a legarsi ad una ristretta cerchia di artisti, tra cui Cézanne, Courbet, Corot e Millet, tutti artisti che avevano finito per essere esposti nel Salon des Refusés, inaugurato da Napoleone III allo scopo di ospitare tutte le opere che non avevano trovato posto al Salon: è ironico che un imperatore abbia scelto di dare tanto respiro a dei reietti, ma questa piccola decisione, forse conclusa con un gesto noncurante della mano, cambierà per sempre il mondo dell’arte.

 

 

Con gli altri rifiutati, Pissarro fonderà, nel 1874, la Societé Anonyme des Artistes, Peintres, Sculpteurs et Graveurs: la loro prima mostra provocherà il disdegno e lo shock dei critici d’arte. Fieri della loro diversità rispetto a quanto era comunemente inteso come arte, felici di aver “fatto impressione” alla critica, fondarono il movimento artistico noto come Impressionismo.

 

 

 

Camille Pissarro (1830 – 1903) – Paysage à Chaponval

Da Corot, Pissarro impara la tecnica dell’en plein air: il disegno in presa diretta della natura. Ma se Corot si limitava ad abbozzare le opere in situ per poi terminarle in studio, Pissarro resta di fronte al soggetto fino all’ultima pennellata, resta in contatto con la natura fino all’ultimo istante; resta immerso in quella quotidianità che noi spesso non siamo in grado di vedere, si immerge in essa, ed è da questa confortante normalità che sono permeate le sue opere. L’effetto su tela del suo metodo risulta più realistico e rudimentale rispetto all’opera di altri impressionisti; fiero di questo suo amore per le cose semplici, non bada alle critiche che lo bollavano come “volgare”. E, mi sia concesso, se la mondanità dei suoi soggetti è spazzatura, allora noi tutti non saremmo degni di essere noi stessi. Pissarro è il primo a mostrarci quanto sia bella la vita di ogni giorno, con i suoi panorami forse non epici e maestosi, ma non per questo di minor valore.

 

 

Il raccolto (1830-1903)

Il valore di un campo di grano, il valore di uno schiavo liberato che si occupa del proprio piccolo raccolto; il valore della vita meno importante nel nostro mondo è il nostro stesso valore, la maniera in cui valutiamo il più piccolo dei nostri fratelli dice molto di quanto noi stessi valiamo: e guardando le opere di Pissarro, forse possiamo renderci conto che non esiste una gerarchia, nessuno è meno meritevole di altri, tutti siamo sullo stesso piano e siamo tutti importanti in quanto singoli elementi di un paesaggio che, senza anche solo uno dei propri elementi, sarebbe scarno e vuoto.

 

Donna in un prato a Eragny o Sole di primavera nel prato di Eragny (1887)

 

Pissarro sperimenta anche il puntinismo, insieme a Seurat e Signac, e incoraggerà Van Gogh: un’ulteriore dimostrazione del fatto che restare di mente aperta, non combattere a priori ciò che è nuovo e difficile da capire, spesso porta ad aprire nuovi orizzonti.

 

 

 

 

Siamo noi, la gente comune, i protagonisti delle opere di Pissarro. Siamo noi, la gente comune, in fin dei conti i protagonisti del mondo.

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

MGF

 

 

 

 

Regia di Tran Anh Hung – Francia, 2023 – 145′
con Juliette Binoche, Benoît Magimel, Emmanuel Salinger

 

 

 

 

 

“Il gusto delle cose” (“La Passion de Dodin Bouffant”) scritto e diretto da Tran Anh Hùng – classe 1962, vietnamita naturalizzato francese, Leone d’oro al Festival di Venezia nel 1995 con “Cyclo” – è stato premiato al Festival di Cannes nel 2023 per la miglior regia. Ispirato al romanzo “La vie et la passion de Dodin Bouffant, Gourmet” di Marcel Rouff del 1924 e alla pubblicazione “La fisiologia del gusto” che Jean Anthelme Brillat-Savarin del 1825, vede protagonisti Eugénie (la premio Oscar Juliette Binoche, sempre eccellente, una garanzia), cuoca da oltre vent’anni del famoso gastronomo Dodin (Benoît Magimel, bravissimo): insieme creano piatti raffinati, deliziosi, che sorprendono i più famosi chef del mondo. Con gli anni l’ammirazione reciproca è cresciuta e si è trasformata in relazione sentimentale. Dodin vorrebbe sposarla, ma Eugénie, temendo che il loro rapporto possa cambiare, rifiuta. L’uomo decide allora di fare qualcosa di assolutamente inaspettato: cucinare per lei.
Tran Anh Hùng prepara e “serve” agli spettatori un’opera raffinata, elegante, curata nei minimi particolari (in questo sicuramente debitrice dell’universo visivo di Luchino Visconti). Una “pietanza” (tanto per restare in tema) il cui sapore è dato dalla perfetta armonia tra gli ingredienti, un piatto che non cancella i singoli sapori, ma li esalta creando qualcosa di originale, unico: scenografie, costumi, una fotografia magnifica e attori al top sono questi ingredienti.
E al centro la coppia Eugénie-Dodin, il loro rapporto fatto di complicità professionale e cura reciproca. Si amano, certamente, ma molto di più condividono una grande passione per quello che fanno e si stimano professionalmente, riconoscendo l’uno il talento dell’altro. E forse è proprio questo che spinge la donna a non accettare il matrimonio e a dichiarare, con orgoglio, che vuole essere la cuoca e non la moglie.
In un turbinio di pentole, tegami, e gesti che sembrano seguire una precisa ritualità: pulire, tagliare, farcire, insaporire, cuocere, impiattare e servire. Una vera e propria coreografia. Pietanze elaborate, create per stupire e soddisfare i palati più esigenti. Il cibo, dunque, come metafora dell’accudimento, dell’attenzione per l’altro. Perché una tavola imbandita è condivisione, gioia, opportunità conversazione (in questo si rintracciano legami con il poetico “Il pranzo di Babette” di Gabriel Axel del 1987). “Il gusto delle cose” è passato alla 18a Festa del Cinema di Roma (2023) e ha rappresentato la Francia nella corsa agli Oscar 2024.

Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana

Tematiche
Amore-Sentimenti, Cibo, Donna, Malattia, Matrimonio – coppia


Il film diTrần Anh Hùng con i bravissimi Juliette Binoche e Benoît Magimel è “cinema gourmet” in purezza, ma anche una storia sensoriale e sensuale che insegna a gustare la vita


A prima vista, sembra uno sfoggio di un’eleganza un po’ esornativa. Ma il cineasta vietnamita riesce a raccontare la passione e la cura, ad accarezzare i personaggi e a trovare un’armonia profonda.


Il gusto delle cose si srotola come un menu, alterna i momenti di cucina a quelli di degustazione, assiste alle sentenze del cuoco geniale e le contrappone al piacere dei commensali.


Recensioni
4/5 Cineforum.it
3,4/5 MYmovies
3,6/5 Sentieri selvaggi

 

I 10 PIATTI PIÙ FAMOSI DELLA STORIA DEL CINEMA

 

1) Il cocktail di gamberi di “The Blues brothers”
Nel celebre film che ha come protagonisti due fratelli appena usciti di prigione, Dan Aykroyd e John Belushi (Jack e Elwood) si recano nel ristorante gestito da un amico per convincerlo a ricostituire la band nella quale suonavano in gioventù. Ordinano 5 costosi cocktail di gamberi e 12 bottiglie di champagne.

 

 

 

2) La ratatouille di “Ratatouille”
La ricetta a base di verdure che dà il nome al film è protagonista nella scena più emblematica del film di animazione Pixar: il temuto critico gastronomico Anton Ego assaggia il piatto cucinato dallo chef-topo Remy e ne rimane talmente colpito da immergersi in un flashback che lo riporta alle emozioni e ai sapori della sua infanzia.

 

 

 

3) I pomodori verdi fritti di “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”
“Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” racconta la storia di due giovani donne che negli anni ’30 lottavano contro razzismo e maschilismo. Le due donne gestiscono il Whistle Stop Cafe e preparano i migliori pomodori verdi fritti degli Stati Uniti del Sud, piatto ricorrente nello svolgimento del film.

 

 

 

4) Il sugo de “Il padrino”
In una scena del primo episodio della trilogia di Francis Ford Coppola, a casa Corleone il “picciotto” Clemenza sta cucinando un sugo e invita Michal Corleone (Al Pacino) a imparare la ricetta: “Vieni qua guagliò, può succedere che devi cucinare per una ventina di figli! Vedi, si comincia con un poco d’olio, ci friggi uno spicchio d’aglio poi ci aggiungi tomato e anche un poco di conserva. Friggi e attento che non si attacca; quando tutto bolle ci cali dentro salsicce e pulpetta, poi ci metti uno schizzo di vino e nù pucurille ‘e zucchero”.

 

 

5) I maccheroni in “Un americano a Roma”
Tra le ricette più famose della storia del cinema, questa non poteva proprio mancare: la scena di “Un americano a Roma” nella quale Alberto Sordi viene provocato dal piatto di maccheroni e li distrugge è una delle immagini più note del cinema italiano.

 

 

 

6) La pasta alla norma avvelenata di “Brutti, sporchi e cattivi”
Nel film di Ettore Scola dedicato alla quotidianità di una numerosa famiglia della periferia romana, in una scena memorabile il capofamiglia Giacinto Mazzatella (Nino Manfredi) viene avvelenato con un abbondante piatto di pasta alla norma: fiutato l’inganno, riesce però ad alzarsi da tavola e a salvarsi.

 

 

 

7) Il cioccolato di “Chocolat”
Il cioccolato è il filo conduttore del film di Lasse Hallström, simbolo di seduzione, tentazione e passione. Ne approfitta un goloso Johnny Depp, conquistato dalla mousse di cioccolato e peperoncino preparata da Juliette Binoche.

 

 

8) I courtesan al cioccolato di “Grand Budapest Hotel”
Il film di Wes Andreson vincitore di 4 premi Oscar nel 2015 è ambientato nel lussuoso Grand Budapest Hotel e ruota attorno al furto e al recupero di un dipinto rinascimentale dal valore inestimabile. Tra i personaggi del film c’è la bionda Agatha (Saoirse Ronan), che lavora nella pasticceria Mendl’s ed è solita preparare dei bigné ripieni di cioccolato che racchiude in eleganti scatole rosa: i courtesan al cioccolato.

 

 

 

9) Lo strudel con la panna di “Bastardi senza gloria”
In una delle scene centrali del film di Quentin Tarantino, il generale delle SS Hans Landa (Christoph Waltz) è seduto al tavolo con Shoshanna Dreyfus (Melanie Laurent), alla quale ha in passato sterminato la famiglia. Il generale ordina per entrambi uno strudel di mele con la panna: lui lo divora con modi poco eleganti e una foga stupefacente, metafora della sua spietatezza, prima di spegnervi sopra una sigaretta, mentra la ragazza lo assaggia controvoglia e con lo stomaco chiuso dalla rabbia e dal dolore.

 

 

 

10) Il milkshake di “Pulp fiction”
Il cibo (anche se “da bere”) è protagonista in un altro film cult di Tarantino: in una delle scene più celebri di “Pulp fiction”, Mia Wallace (Uma Thurman) sorseggia un bianchissimo milkshake sormontato da una ciliegina in compagnia di Vincent Vega (John Travolta) e pronuncia la frase: “Accidenti, è davvero buono questo frullato, non so se vale 5 dollari, ma c—o è veramente buono!”.

 

 

MGF

Regia di Leonardo D’Agostini
con Laetitia Casta, Andrea Carpenzano, Lea Gavino, Cristiana Dell’Anna

 

 

 

 

 

UN RACCONTO DI CHIARO SCURI, DOVE LA RICERCA DELLA VERITÀ SFUMA NEI MILLE INTERROGATIVI DI NATURA ETICA CHE ASSALIRANNO LO SPETTATORE.

“Voi lo sapete perfettamente quello che pensate? Quello che volete? Voi potete dividere tutto con certezza, giusto e sbagliato, sì e no, questo e quello? Se voi potete io vi invidio con tutte le mie forze”, chiede a un certo punto la protagonista Carla rivolgendosi ai giudici e alla Pm che continua a incalzarla in un’aula di tribunale. E forse è proprio questo uno dei passaggi manifesto di Una storia nera, il film che Leonardo D’Agostini dirige sulla base dell’adattamento dell’omonimo romanzo di Antonella Lattanzi, che qui è anche autrice della sceneggiatura.
Queste parole rappresentano il nucleo dell’intero film: dramma familiare, thriller, noir e legal drama dove i ribaltamenti e i colpi di scena si susseguono come da tradizione. Al centro una storia di violenza domestica, esplorata dal punto di vista giudiziale e delle conseguenze vissute da una famiglia abituata agli abusi del padre verso la propria madre. Una storia nera è il racconto di una donna che si ribella. Ma è anche una storia di figli che per anni hanno dovuto assistere inermi alle violenze domestiche perpetrate dal padre Vito verso la madre Carla. Quando li incontriamo per la prima volta Vito e Carla sono ormai separati da anni: un amore travolgente almeno all’inizio, una passione che ha portato lei, francese, a trasferirsi in Italia, sposarlo e farci tre figli. Si sono amati tanto Carla e Vito, poi però gelosia, manie di controllo e botte hanno trasformato quell’amore folle in una relazione tossica che si è conclusa con un divorzio. Ora entrambi hanno una nuova vita e nuovi partner, l’unico legame sono i tre figli e quando Mara, la più piccola di appena cinque anni, chiede di avere il padre accanto a sé il giorno del suo compleanno, Carla lo invita a cena.La festicciola procede tranquilla nonostante su quella riunione familiare incomba un’atmosfera sinistra: si ride, si scherza e si scartano i regali. Dopo quella sera però di Vito si perderanno completamente le tracce, fino a quando la polizia non recupererà il suo cadavere dal Tevere. L’uomo è stato ucciso con due colpi di arma da taglio e i sospetti ricadono su Carla. La confessione non tarderà ad arrivare: la colpevole è lei e più tardi a confermalo saranno le sue stesse rivelazioni, “ho capito che stavo per morire e l’ho ucciso”. Alla giustizia verrà affidato il compito di accertare la verità (legittima difesa o premeditazione?) e se Carla abbia fatto tutto da sola.

Il film esplora personaggi con “dilemmi morali impossibili” e solleva interrogativi: cosa succede ai figli di una madre che ha subito soprusi per venti anni? E quanto è disposta a pagare una donna vittima di violenza per salvarsi la vita? Cosa fare per non rimanere vittime in uno Stato che spesso ti lascia morire da sola? In Una storia nera nulla ha un contorno ben definito e il confine tra vittima e carnefice resta labile. Tutta la parte processuale è scandita dalla giusta tensione e dall’incalzare della pruriginose (e ahinoi verosimili) domande dell’accusa nel tentativo di scandagliare la vita sentimentale della protagonista con il nuovo compagno: “Chi fu a fare il primo passo?”, “Ha preso lei l’iniziativa?”, “Quando avete consumato la prima volta?”, “In sei mesi tre rapporti soltanto? Intraprendente la signora, come mai così poco ardore?”.
Laetitia Casta mette il proprio corpo e volto al servizio della storia e di uno straordinario lavoro di sottrazione; Andrea Carpenzano, che ritrova D’Agostini ancora una volta dopo Il campione, si conferma uno dei migliori talenti della nuova generazione, inquieto, ombroso e credibile dall’inizio alla fine.

Recensione di Elisabetta Bartucca – Movieplayer.it

 

 

 

Trasposto sullo schermo dal romanzo omonimo di Antonella Lattanzi, “Una storia nera” immerge lo spettatore nei risvolti cupi e allarmanti di tematiche sociali come la fisiologia del matrimonio, la violenza domestica e il suo inerente potenziale delittuoso oggi molto dibattute, ma ahinoi altrettanto irrisolte.

 

 

 

 

Recensioni
3/5 MYmovies
3,3/5 Comingsoon
3/5 Movieplayer

 

 


25  NOVEMBRE

GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE

Ogni anno, il 25 novembre si celebra la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne ufficializzata dalle Nazioni Unite nel 1999. Ma perché è stata scelta proprio la data del 25 novembre per commemorare la lotta contro la violenza sulle donne? Perché il rosso è il colore della giornata?

È stata scelta la data del 25 novembre per la Giornata contro la violenza sulle donne per commemorare la vita, l’attivismo e soprattutto il coraggio di 3 sorelle: Patria, Maria Teresa e Minerva Mirabal, anche soprannominate “mariposas”, ovvero farfalle, che hanno combattuto per la libertà del loro paese.

 

Durante gli anni ‘40 e ‘50, la Repubblica Dominicana era stretta nella morsa della dittatura del generale Rafael Trujilo. Le sorelle Mirabal decisero di impegnarsi nell’attivismo politico denunciando gli orrori e i crimini dalla dittatura. Ma il 25 novembre 1960 le tre sorelle “mariposas” vennero torturate e uccise dai sicari di Trujillo e i loro corpi gettati in un dirupo per simulare un incidente. L’indignazione per la loro morte, che nessuno credette accidentale, sollevò un moto di orrore sia in patria che all’estero, ponendo l’attenzione internazionale sul regime dominicano e sulla cultura machista che non tollerava di riconoscere alle donne l’occupazione di uno spazio pubblico e politico. Pochi mesi dopo il loro assassinio, Trujillo fu ucciso e il suo regime cadde. L’unica sorella sopravvissuta, perché non impegnata attivamente, Belgica Adele, ha dedicato la sua vita alla cura dei sei nipoti orfani e a mantenere viva la memoria delle sorelle. È in ricordo di Patria, Maria Teresa e Minerva che ogni 25 novembre si inaugura un periodo di 16 giorni dedicato all’attivismo contro la violenza di genere, che si conclude il 10 dicembre con la Giornata Internazionale dei diritti Umani.

Ormai da diversi anni, i simboli contro la violenza donne, sono le scarpe e panchine rosse. Le scarpe rosse rappresentano la battaglia contro i maltrattamenti e femminicidi e la loro storia nasce in Messico, a Ciudad Juárez, città tristemente nota per il numero sconcertante dei femminicidi avvenuti negli ultimi vent’anni. Un’artista messicana, Elina Chauvet, per ricordare le donne vittime di violenza, compresa la sorella assassinata dal marito a soli vent’anni, che nel 2009 posizionò in una piazza della città 33 paia di scarpe femminili, tutte rosse. Il colore rosso è stato in seguito adottato per simboleggiare in maniera più ampia il contrasto alla violenza di genere, in particolare con le panchine, luogo simbolico attorno al quale raccogliersi per riflettere.

 

La panchina rossa oggi viene utilizzata per dire no alla violenza, e nello specifico alla violenza domestica, per sottolineare come la violenza sulle donne avvena anche in contesti comunitari e familiari.
L’antropologa Franciose Heritier, nel 1997, definiva violenza “ogni costrizione di natura fisica, o psichica, che porti con sé il terrore, la fuga, la disgrazia, la sofferenza o la morte di un essere animato; o ancora qualunque atto intrusivo che ha come effetto volontario o involontario l’espropriazione dell’altro, il danno, o la distruzione di oggetti inanimati”.

 

Anche la violenza psicologica rappresenta quindi a tutti gli effetti una vera e propria forma di maltrattamento le cui conseguenze possono essere altrettanto devastanti per chi la subisce. Rispetto alla violenza fisica, i cui segni sono spesso visibili, la violenza psicologica rimane frequentemente nascosta, non riconosciuta o sottostimata.

Una delle forme di violenza psicologica recentemente tornata oggetto di studio è il cosiddetto Gaslighting, che è una forma di manipolazione psicologica attraverso la quale l’abusante presenta alla vittima false informazioni con l’intento di farla dubitare di se stessa, della sua stessa memoria e percezione, della sua capacità di analisi e valutazione della realtà fino a farla sentire disorientata, inadeguata, o addirittura sospettosa di star sviluppando un disturbo psichico.
Gli effetti della violenza, compresa quella psicologica, su chi la subisce possono essere devastanti. Le vittime possono sperimentare sensi di colpa, autobiasimo, vergogna, paura, impotenza. Possono sviluppare risposte di ansia, stress, depressione.
Purtroppo, ancora oggi, la violenza psicologica è un fenomeno che può rimanere a lungo sommerso, tuttavia uscirne è possibile. I Centri antiviolenza offrono ascolto e sostegno alle donne per accompagnarle nel percorso di uscita dalla violenza, oltre ad assistenza legale ed ospitalità quando se ne ravvisi il bisogno.

 

 

MGF

 

 

AZIONE/DRAMMATICO
Regia di Alex Garland – Gran Bretagna, USA, 2024 – 109′
con Nick Offerman, Kirsten Dunst, Wagner Moura

 

 

 

 

 

Il thriller di denuncia sociale “Civil War” scritto e diretto dal britannico Alex Garland (“Ex Machina”, suo è anche il copione di “28 giorni dopo”) ha destato attenzione, tra disagio, condivisione e dibattito. L’opera mette a tema il possibile sbandamento della società – il racconto è focalizzato sugli Stati Uniti, ma è applicabile a qualsiasi democrazia contemporanea –, preda di laceranti divisioni e violente contrapposizioni. Un mondo capovolto, senza più regole e tenuta sociale. Prospettiva del racconto lo sguardo di tre fotoreporter, l’occhio della camera, che rappresenta la prospettiva giornalistica e lo sguardo spettatoriale. Garland compone una suggestione dura, disturbante e profondamente realistica: il pericolo di scivolamento nel buio, nella violenza, di cui la Storia ci dà continuamente conto. Un’opera originale e al contempo debitrice di una riflessione cinematografica (ma non solo) sempre più ricorrente.
Uno storytelling distopico che sembra sempre meno fantastico e con ricorrenti punti di tangenza con il nostro oggi fragile e incerto. “Se dimentichi la storia – ha dichiarato Garland – sei destinato a ripeterla. È importante capire che nessuno è immune. Nessun Paese è immune da questo. Perché non ha niente a che fare con i Paesi, ha a che fare con le persone”. Il regista chiarisce da subito il perimetro narrativo del suo film: raccontare il rischio di implosione della democrazia, un rischio che più che fantastico corre veloce sui precedenti allarmanti della Storia. Sullo sfondo non c’è solo il collasso della Repubblica di Weimar a inizio XX secolo, ma anche gli avvenimenti di “ieri”, l’assalto tumultuoso nel gennaio 2021 a Capitol Hill, all’indomani del cambio di presidenza alla Casa Bianca.
“Civil War” si muove su due direttrici. Anzitutto sulle prime sembra che a conquistare il centro del racconto sia proprio lo smottamento della Nazione, con l’accurato storytelling di brutalità umane, efferatezze e buio sociale. In verità, appena si entra in partita con il film subito l’attenzione, il fuoco narrativo, si sposta sui protagonisti, i fotoreporter, chiamati ad addentrarsi nella tempesta e mostrarla, declinarla, al grande pubblico. “Civil War” approfondisce il ruolo e lo sguardo del giornalista-fotografo che sa spingersi a caccia della verità nelle zone d’ombra e nei territori più impervi dell’umano pur di trovare la notizia, lo scatto più incisivo e rivelatore. Garland si posiziona pertanto sulla linea di confine tra valore della professione, deontologia ed ebrezza da scoop che rischia però di avvitarsi in una vertigine di cinismo e mercificazione. Ci si domanda quale prezzo abbia la notizia, fino a che punto ci si possa spingere.
Punto di forza dell’opera è di certo la regia, potente e intensa. L’autore britannico ha saputo cogliere un tema di stringente attualità e proporlo in chiave efficace, problematica e assolutamente sfidante. Ci ha messo davanti a uno specchio più o meno deformante, ricordandoci che la salute della democrazia va custodita altrimenti con facilità si può (ri)scivolare nello smarrimento. La sua regia è vigorosa, serrata, livida: scuote e disturba lo sguardo dello spettatore, spingendolo a provare tanto empatia quanto allarme.
“Civil War” è un’opera acuta, provocatoria, da valorizzare: è un film denuncia, di impegno civile, dalle sfumature da thriller distopico, che direziona l’occhio della camera su un concreto pericolo per la democrazia.

Recensione della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana

Tematiche
Amicizia, Donna, Emigrazione, Giovani, Giustizia, Guerra, Internet, Libertà, Mass-media, Media, Metafore del nostro tempo, Morte, Politica, Politica-Società, Potere, Razzismo, Solidarietà, Terrorismo, Violenza


Il film più provocatorio dell’anno, e il più costoso mai prodotto da A24, non offre spiegazioni bensì scuote dispiegando un violentissimo conflitto, ambientato in America ma rivolto più in generale al degrado della Democrazia.


Civil War è un film potente, intelligente, di enorme impatto visivo e con la capacità unica di far riflettere e assieme di appassionare, mentre ci guida in una distopia sinistramente verosimile.


Con Civil War il britannico Garland, già sceneggiatore per Danny Boyle e giunto al quarto film da regista, realizza un’opera incredibilmente immersiva e brutale, che accompagna lo spettatore a interrogarsi sul possibile futuro degli Stati Uniti e del Mondo, in un’epoca in cui le immagini del film risultano, purtroppo, estremamente familiari.


Recensioni
3,5/5 MYmovies
7/10 IGN Italia
3/5 Cineforum

 

IL CINEMA DISTOPICO

 

Un’utopia distorta, una speranza avariata, un’illusione di progresso che, invece di migliorarci, ci fa sprofondare dentro un baratro oscuro. La distopia non riesce ad essere una cosa sola, perché ha tante facce, infinite derive che rispondono alle tante degenerazioni di cui l’umanità si scopre capace. Se l’utopia è la prospettiva di qualcosa di meraviglioso, un ideale talmente perfetto da risultare poi irrealizzabile, la distopia è la sua copia carbone, ovvero la versione decadente di una società piena di contraddizioni. In ogni caso parliamo di scenari futuribili, di immaginari spinti verso un ipotetico domani, insomma di proiezioni. E, assieme a tanta letteratura di genere, non c’è stato posto più adatto del cinema dove continuare a proiettare un futuro abitato da ansie e critiche rivolte al mondo contemporaneo. Già molti anni prima che George Orwell aprisse l’occhio invadente del suo celebre Grande Fratello, in un romanzo capostipite del genere distopico (1984), la settima arte aveva dato alla luce un’opera che portava dentro di sé un profondo malessere pessimista. Quel capolavoro di Metropolis racchiudeva una serie di caratteristiche fondamentali di ogni distopia: la rigidità dell’assetto sociale, l’importanza centrale del contesto e la spiccata vena disfattista. L’algido 2026 ipotizzato da Fritz Lang apre la strada al cinema come descrizione di futuri nei quali è meglio non sperare, con il grande schermo pronto a tramutarsi in spauracchio di timori umanissimi. Così, passando per l’iper violenza londinese di Arancia meccanica e la putrida Los Angeles di Blade Runner, la distopia ha trovato nel grande schermo un terreno fertile per seminare dubbi e far germogliare messaggi preoccupanti. Ed eccoci dispersi nei labirinti, abitanti di distretti alle prese con giochi crudeli e megalopoli dominate da strane regole. È facile accorgersi di come ogni distopia si nutra di personaggi oppressi dal panorama sociale in cui vivono, vittime di leggi rigide e di equilibri (quasi) impossibili da scardinare.
Ma quali sono i maggiori e più famosi film distopici della storia del cinema?

THE LOBSTER (2015) di Giorgos Lanthimos
SNOWPIERCER (2014)di Bong Joon-Ho
HUNGER GAMES (2012) di Suzanne Collins
V PER VENDETTA (2005) di James McTeigue.
MATRIX (1999) dei fratelli Larry e Andy Wachowski.
L’ESERCITO DELLE DODICI SCIMMIE (1995) di Terry Gilliam.
BLADE RUNNER (1982) di Ridley Scott
ARANCIA MECCANICA (1971) di Stanley Kubrick
FAHRENHEIT 451 (1966) di François Truffaut.
METROPOLIS (1927) di Fritz Lang

 

MGF