Regia di Wes Anderson – USA, 2023 – 104′
con Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks

 

 

 

 

 

UN FILM SUL DESERTO DEL NOSTRO SCONTENTO

Asteroid City, località sperduta nel deserto americano con una sola strada che la attraversa, un diner, una base militare, un complesso di case, un osservatorio astronomico e tutt’attorno una gigantesca distesa di terra da vendere e occupare, è un’immagine funerea – per quanto come al solito coloratissima e vintage – della nazione americana e dello stesso cinema di Wes Anderson.
Una sovrapposizione non casuale. Uno spazio insulare, tagliato fuori dal mondo, che nel corso del film viene ulteriormente chiuso da una quarantena, quando agli sparuti abitanti della cittadina (militari, astronomi, viaggiatori di passaggio, amanti della scienza, una scolaresca, un’attrice con la figlia, un padre vedovo con i figli al seguito e la macchina in panne) appaiono nientemeno che gli alieni. Siamo a metà anni ’50, i funghi dei test nucleari decorano lo sfondo come le mese e i crateri e l’avventura spaziale nasconde desideri di fuga e paura del diverso, con i ragazzi che sognano di fuggire nello spazio e gli adulti che restano inchiodati alle responsabilità da cui sfuggono inutilmente.
Asteroid City, la città, non esiste, così come non è mai esistito il mondo di Wes Anderson, nonostante sia forse la creazione cinematografica più identificabile (e commercializzabile) degli ultimi decenni. Un mondo sempre più pieno di cose – nomi di persone, luoghi e città, oggetti, colori, animali, piante, vestiti, musiche, canzoni, libri, giornali: un gigantesco gioco di società, insomma – nel quale il suo creatore ha finito per chiudere gli spettatori e pure sé stesso.
Asteroid City, il film, è in questo senso il film più cupo di Anderson, quasi un’operazione mortuaria, costruito come una scatola cinese da cui è impossibile uscire. Il film si apre con un narratore (Bryan Cranston) da show televisivo anni ’50 in bianco e nero che introduce la storia di un commediografo di fantasia (Edward Norton) che sul palcoscenico di un teatro scrive la commedia inesistente Asteroid City, in cui in un mondo a colori alcune persone si ritrovano un po’ per volontà e un po’ per caso in una cittadina nel deserto attorno a una base militare… Il film è dunque la creazione inesistente di un autore anch’egli inesistente, diretto in scena da un regista (Adrien Brody) costretto a vivere dietro il palcoscenico, in cui a volte gli interpreti escono dal ruolo e dal set per parlare del loro ruolo, in cui il narratore può entrare per sbaglio nel racconto e le scene possono ripetersi e replicarsi su piani paralleli e sfasati.
In una serie anch’essa ripetitiva e potenzialmente infinita e unica di scene e scenette, nozioni da nerd e invenzioni buffe, luci colorate e soluzioni da cinema classico, Anderson non solo ingolfa il suo cinema oltre la saturazione, ma arriva addirittura a contemplare l’idea di distruggerlo, inserendo in maniera clamorosa la possibilità della quarta parete. Con un controcampo che potrebbe annientare tutto quanto ha fatto fino a ora, rompe egli stesso l’incantesimo frontale del suo mondo di bambole e fa scontrare il colore e il bianco e nero, il set del film e il palcoscenico della finzione, l’attore e lo scrittore.
E se, in fondo, questo film di Anderson fosse inaspettatamente l’unica risposta al mistero dell’universo, ai limiti della scienza, all’insignificanza dell’uomo nell’enormità del tutto?
E se alla fine del cinema non ci fosse, ancora e ancora, nient’altro che cinema?

Roberto Manassero – Cineforum.it

Recensioni
7/10 IGN Italia
3,3/5 Cineblog.it
3,4/5 Mymovies

Wes Anderson firma il suo capolavoro. Il consueto racconto a episodi è contenuto nei barocchismi e organizzato nel montaggio interno, scatole dentro scatole di precisione millimetrica, generose di invenzioni, personaggi pittoreschi e dialoghi da manuale.


 

IL CINEMA DI WES ANDERSON: UNA PALETTE DI COLORI

Quando si parla del cinema di Wes Anderson, le persone tendono ad associare alle sue pellicole colori pastello, inquadrature maniacalmente simmetriche e personaggi stravaganti in contesti vagamente realistici.
I colori e le loro combinazioni svolgono, a livello inconscio, un ruolo fondamentale nella visione di un film. Si spiega, dunque, il grande successo del regista Wes Anderson che unisce a trame particolari delle scene cromatiche forti che influiscono molto sull’atmosfera dei film e quindi sul coinvolgimento del pubblico. È rosso, viola o rosa. Il modo in cui descrive il mondo cinematografico è attraverso i colori.

 

Il regista Wes Anderson utilizza la sua tecnica estetica dell’uso del colore non al solo fine estetico, ma cercando nella forma la vera sostanza. Le sue storie raccontano di personaggi limite, adulti troppo bambini incapaci a stare in un mondo che non li comprende a causa delle loro nevrosi. I personaggi andersoniani tentano di evadere da queste gabbie di conformismo e il regista riporta le loro storie e la loro eccentricità, senza giudicarli negativamente ma anzi invita gli spettatori ad amarli ed imitarli.
Non esistono antagonisti, i buoni e i cattivi non esistono; i buoni non sono mai davvero buoni e i cattivi non sono mai davvero cattivi. Non bisogna però mai farsi ingannare dall’atmosfera leggera, la quale cela le fragilità e le debolezze dei personaggi. Anderson usa minuziosamente le tecniche cinematografiche, come i colori, le inquadrature e le simmetrie con lo scopo di sottolineare gli aspetti interiori e tutti gli aspetti di questa fragilità. Ogni scenario costruito dal regista è in funzione della psicologia facendo in modo che le caratteristiche dei protagonisti si riflettano nell’estetica che li rappresenta.
Alla base di ogni suo film vi è un elenco rigido di regole: le inquadrature sono sempre frontali, fisse da far notare una forte maniacalità della composizione dello scenario filmico. Si trova inoltre la simmetria bilaterale, presente in ogni scena, nulla di fronte alla telecamera è fuori posto, il punto di fuga è sempre al centro per creare una prospettiva centrale, utilizza inoltre lo scorrimento laterale e la panoramica dall’alto. Queste tecniche e soprattutto l’uso del colore creano una narrazione artefatta e una sensazione di surreale. Anderson ci fa vedere il mondo reale ma soprattutto quello interiore dei personaggi, enfatizzando gli umori e emozioni degli stessi.
I film come Grand Budapest Hotel, I Tenenbaum e Moonrise Kingdom fanno emergere al massimo queste caratteristiche: le tonalità di colori presenti in ogni scena si armonizzano come in un dipinto e a ogni momento ripreso viene abbinata una palette cromatica. Un esempio di questa sua intenzione cromatica è la scena, in Grand Budapest Hotel, in cui il consierge Monsieur Gustave H. e il lobby boy Zero Moustafa si trovano in ascensore con la ricca Madame D.: le scelte cromatiche di Anderson si orientano verso un rosso intenso e un viola stridente. Anche ne I Tenenbaum le scene emotivamente più forti si tingono di colori molto accesi. Altra tipologia di scena è quello in cui una cromia emerge in modo più netto sulle altre, scene prettamente monocromatiche. Per esempio, infatti, le scene tra il lobby boy e Agatha sono quasi sempre rosa.

                                                                  
Momenti comici si uniscono a commozione e ironia, creando un gioco perfetto di sfumatura.
Ciò che colpisce del regista è proprio la volontà di trasformare il cinema in una composizione.
Un dipinto di un pittore con colori complementari e allo stesso tempo sfumati.
Il lavoro sui colori, sulla simmetria e sulle inquadrature risultano protagonisti quanto la storia del film. Le scelte cromatiche diventano un modo per far relazionare i personaggi allo spazio che li circonda e un modo per enfatizzare le sensazioni e le emozioni degli stessi.

Giulia Notari – Cimoinfo.com

 

MGF

 

Regia di Justine Triet – Francia, 2023 – 150′
con Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner

 

 

 

 

 

ANATOMIA DI UNA CADUTA: IL LEGAL THRILLER CON UNA VERITA’ IMPOSSIBILE

Anatomia di una caduta” della quarantacinquenne Justine Triet, Palma d’Oro a Cannes, è, se guardiamo ai tralicci dell’edificio narrativo, un legal thriller – coinvolgente e corredato di tutto il necessario, schermaglie tra accusa e difesa e deposizioni inaspettate incluse – che contiene molto di più e lo lascia “traspirare” nell’incedere inesorabile di una drammatica vicenda familiare dove diluvi di parole, silenzi e passato alzano il sipario su una vivisezione di ciò che chiamiamo, con eccessiva sicurezza, Verità. Bersaglio non inedito e sempre aleggiante quando testimoni e imputati si alternano alla sbarra, ma qui il gioco va oltre l’accertamento di una responsabilità penale. E nessuna legge vince, o meglio, tutti hanno una “legge” o un codice (comunicativo) da difendere.

Sandra Voyter (una monumentale Sandra Hüller, attrice tedesca di solida formazione teatrale) è una scrittrice affermata, vive sopra Grenoble col marito francese Samuel Maleski (Samuel Theis), scrittore irrisolto fascinoso e sulle spine. Con loro l’undicenne figlio Daniel (Milo Machado Graner), diventato completamente cieco dopo un incidente di cui il padre porta una parte di responsabilità. È lui, guidato dal cane Snoop, a trovare per il primo il cadavere del padre, un altro trauma: la vita sa calcare brutalmente la mano, e sarà la devota bestiola a dare un cruciale contributo allo scioglimento del caso, che arriverà dopo 150 minuti di buon cinema, per scrittura scenica (Triet col marito Arthur Harari), ottimo cast, tenuta narrativa, sapiente e quasi pudico gioco di emozioni.

Il piccolo Daniel chiederà e otterrà di assistere alle fasi finali del processo, vuole capire di più, molto ha da dire alla corte. Chiede la parola, racconta sparigliando le carte. Solo un bambino riesce ad avvicinarsi, caricandosi un peso doloroso, a una possibile soluzione dell’enigma. Si dirada la nebbia, nella foresta di voci si apre un sentiero di verità vera.

“Anatomia di una caduta” è anche una lezione di metodo per chi scava nella Storia: confronto delle fonti, archivi, testimonianze dirette, dubbio sistematico. Un aggiornamento del classico “Anatomia di un omicidio” di Preminger (1959), smagliante legal thriller proprio imperniato sulla oscillazioni e le torsioni ex post dei fatti, tutti interpretabili, mascherabili, manipolabili. Triet tuffa le mani in un altro magma naturalmente associato alla violenza: la famiglia, i suoi fragili equilibri. In “Anatomia di una caduta” residua pure un’eco forte di tanti suoi lavori, tra nuove povertà, giovani inconciliati, crisi di famiglia tra pubblico e privato. Poi si tratta sempre di calare l’ispirazione in un linguaggio cinematograficamente potente e stavolta la regista c’è pienamente riuscita, con l’apporto significativo di Sandra Hüller, perfetta in ogni registro. Il film in Francia ha messo d’accordo al botteghino il pubblico più votato al cinema “d’autore” e quello appassionato ai drammi sul filo della suspense.

Andrea Aloi – Strisciarossa.it

Il film è stato premiato al Festival di Cannes, ha ottenuto 4 candidature a Golden Globes, ha ottenuto 4 candidature agli European Film Awards, ha vinto un premio ai British Independent, è stato premiato a National Board, ha ottenuto 1 candidatura a Spirit Awards, ha ottenuto 1 candidatura a Goya, Il film è inoltre stato premiato a Cahiers du Cinéma

 

Recensioni
9/10 IGN Italia
3,8/5 MyMovies
4/5 Cineforum


IL LEGAL THRILLER

Come nasce e di cosa tratta il Legal thriller? Alla voce Legal Thriller, il vocabolario Treccani riporta la definizione “Film o narrazione romanzesca che si incentra su un’indagine svolta da un avvocato e si risolve in un dibattimento in tribunale“. Perciò, che lo si chiami Thriller legale, Giallo giudiziario, Thriller giudiziario o che si utilizzi la ben più nota locuzione inglese Legal thriller, il concetto non cambia: parliamo, qui, di un sottogenere del thriller “specializzato” nell’analisi di fatti criminosi dal punto di vista dei processi, tribunali, verdetti e dei personaggi che interagiscono quotidianamente con quest’ambito così peculiare.
Al centro di ogni Legal thriller ci sono, dunque, avvocati, magistrati, pubblici ministeri, che molto spesso fungono da narratori delle vicende criminose, nonché da veri e propri ciceroni nei tortuosi meandri del processo. Non pistole, inseguimenti e piedipiatti, dunque, ma banchi, toghe e togati.
Sono davvero tanti i film che seguono questo filone. Ricordiamo qui i più famosi:

 

Il rapporto Pelican – The Pelican Brief (1993)
Julia Roberts interpreta una giovane studentessa di legge che, durante le sue ricerche, arriva a redigere un rapporto a proposito dei presunti omicidi di due giudici della corte suprema americana. Il rapporto attira l’attenzione del mandante degli omicidi e la giovane è costretta a difendersi da costanti minacce, anche grazie al reporter interpretato da Denzel Washington.

 

 

 

 

 

L’uomo della pioggia – The Rainmaker (1997)
Uno dei capolavori del grande Francis Ford Coppola: la storia è quella di un giovane neo avvocato (Matt Damon) che, con l’aiuto di un vecchio praticante mai laureatosi (Danny DeVito), assume la difesa di un ragazzo malato di leucemia al quale l’assicurazione non vuole erogare il risarcimento.

 

 

 

 

 

 

 

Il momento di uccidere – A Time to Kill (1996)
Nell’America razzista del profondo sud due ragazzi bianchi violentano ed uccidono una ragazza di colore; dopo l’assoluzione dei due, il padre della giovane (Samuel L. Jackson) decide di farsi giustizia da solo e viene difeso da un giovane avvocato interpretato da Matthew McConaughey.

 

 

 

 

 

 

Codice d’onore – A Few Good Men (1992)
Tom Cruise interpreta un rampante avvocato della marina militare statunitense a cui è stato assegnato il caso di due marines accusati dell’omicidio di un loro commilitone. Demi Moore è l’assistente di Cruise e alla sbarra depone nientepopodimeno che Jack Nicholson, cattivissimo alto ufficiale dell’esercito che, davanti alla corte marziale, testimonia su alcune pratiche diffuse nel mondo militare.

 

 

 

 

 

Il cliente – The Client (1994)
Giocando in un bosco, un ragazzino incontra un avvocato in procinto di suicidarsi che gli rivela alcune scomode verità sui suoi loschi traffici. In un attimo il ragazzo si ritrova ad essere un testimone scomodo, minacciato da mafiosi e delinquenti di ogni tipo e difeso dalla brillante avvocatessa Susan Sarandon.

 

 

 

 

 

 

Il caso Thomas Crawford – Fracture (2007)
Un ricco ed anziano ingegnere (Anthony Hopkins) escogita un piano per uccidere la giovane e bella moglie infedele e incolpare l’agente di polizia suo amante. Se non che l’assistente distrettuale Willy Beachum (Ryan Gosling) non è per niente convinto di come sono andate le cose e inizia ad indagare, in cerca della verità.

 

 

 

 

MGF

 

Regia di Matteo Garrone – Italia, Belgio, 2023 – durata 121′

con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo

 

 

 

 

 

Matteo Garrone entra nella corsa per gli Oscar: Io Capitano, candidato ufficiale dell’Italia al miglior film internazionale dell’edizione 2024, è stato scelto per la cinquina finale della notte delle stelle del 10 marzo.

SEYDOU E MOUSSA SONO PINOCCHIO E LUCIGNOLO IN PARTENZA PER IL PAESE DEI BALOCCHI, CIRCONDATI DA GATTI E VOLPI PRONTI A PREDARE SULLA LORO INGENUITÀ

Come Benigni con “La vita è bella”, così Matteo Garrone in “Io Capitano” aveva di fronte a sé un problema di rappresentazione collegato alla difficoltà di mettere in scena una realtà così tanto analizzata, discussa e mostrata da rischiare di rimanere un passo indietro rispetto all’immaginario corrente; oppure di scavalcarlo con il pericolo di risultare inverosimile. Tenendo presente che il dramma dei migranti rispetto all’Olocausto ha un livello di attualità maggiore, nel suo essere un fenomeno in corso di svolgimento con cui in Italia siamo abituati a confrontarci non solo attraverso giornali e televisioni ma anche nella vita di tutti i giorni, nei mari e sulle coste interessate agli sbarchi.

Un carico di concretezza di cui, in “Io capitano”, riscontriamo traccia nelle scelte del regista di contaminare la realtà con una dimensione favolistica senza però venire meno all’aderenza con le immagini che testimoniano le cronache dei nostri giorni e, d’altra parte, aprendosi a un’universalità fuori dal tempo che fa della vicenda di Seydou e Moussa – adolescenti senegalesi decisi a raggiungere l’Europa per diventare star della musica – una storia leggibile anche al di fuori delle questioni politiche ed emergenziali a cui è naturale associarla. Facendo riferimento alla filmografia di Garrone e considerando le caratteristiche appena menzionate, “Io capitano” si presenta come una versione contemporanea del suo precedente lavoro, “Pinocchio”, al quale lo lega non solo il viaggio come struttura del racconto, la giovinezza dei personaggi e il desiderio di cambiare la propria condizione, ma anche la similitudine di alcuni passaggi, primo fra tutti il richiamo emotivo nei confronti della figura genitoriale – in questo caso quella materna – e poi la raffigurazione di certi accadimenti: il ritrovamento di Moussa da parte di Seydou, simile a quello del ricongiungimento tra Pinocchio e Geppetto nel ventre della balena e, ancora, i ragazzi nel carcere libico simili a quelli segregati da Mangiafuoco nel paese dei Balocchi.

Situazioni la cui improbabilità – si pensi alla maniera in cui Seydou si salva dalle grinfie dei suoi carcerieri, aiutato da un compagno di sventura che ricorda la fatina di Collodi – trasfigurano la realtà spingendola verso una contingenza archetipica propria delle favole. Carlo Cerofolini – Ondacinema Lungi dall’essere un film buonista, “Io capitano” non concede alcuno sconto all’orrore dell’esperienza vissuta dai suoi personaggi, presente soprattutto nelle sequenze all’interno del carcere libico. La versatilità di “Io Capitano” e, dunque, la sua capacità di attirare un pubblico eterogeneo consistono anche nel saper essere più cose insieme, di fare dell’eccezionalità presente nella vicenda di Seydou e Moussa non solo materia di riflessione e di denuncia del destino iniquo, ma anche volano di uno spirito d’avventura ormai estinto a causa della sempre maggiore invasività della componente tecnologica. Lo spirito d’avventura è qui capace di mettere in moto una catarsi che si compie anche nella trasformazione dei personaggi, che da vittime diventano eroi per come, a un certo punto, riescono a prendere in mano le loro vite, influenzandone il corso. Detto questo, a vincere in “Io capitano” è l’essenza di una poesia sentimentale che non ha bisogno di forzare la mano, capace com’è di avvicinare lo spettatore all’esperienza dei protagonisti, riducendo le distanze tra l’ordinario delle nostre vite e l’eccezionalità di ciò che vediamo sullo schermo. Senza contare che “Io capitano”, alla pari delle favole che si rispettano, riesce anche a esprimere una sua morale raccontando di come siano gli uomini e non la natura a rendere peggiore il mondo.

Carlo Cerofolini – Ondacinema

Recensioni
3,8/5 MyMovies
6,5/10 IGN Italia
3/5 Cineforum

Una coproduzione internazionale ispirata alle storie vere di alcuni ragazzi che hanno vissuto il viaggio dei due protagonisti. Il film è stato premiato al Festival di Venezia, ha ottenuto 2 candidature agli European Film Awards. Il film è stato premiato a San Sebastian

I MIGLIORI FILM SUL TEMA DEI MIGRANTI

 

L’emigrante di Charlie Chaplin (1917). Capostipite dei film sulle migrazioni, narra l’epopea di Charlot prima su una nave che porta in America centinaia di persone alla ricerca di una nuova vita, e poi a New York, dov’è disoccupato e si innamora di una ragazza.

 

 

Mosca a New York di Paul Mazursky (1984). Racconta le vicende di un sassofonista sovietico interpretato da Robin Williams che, arrivato col Circo di Mosca a New York, decide di chiedere asilo politico. Riuscirà a cambiare la sua vita grazie all’aiuto di un avvocato, di una ragazza messicana e di un giovane di colore.

 

 

 

 

 

 

Lamerica di Gianni Amelio (1994). È la grande emigrazione dall’Albania negli anni ’90, con i barconi in fuga da un Paese povero e dilaniato.

 

 

 

 

L’odio di Mathieu Kassovitz (1995). Uno dei film più apprezzati degli anni Novanta. Narra una giornata nelle banlieue parigine seguendo le vicende di Vinz, ebreo, di Said, di origini maghrebine, di Hubert, nero. La storia si sviluppa attorno al loro amico sedicenne Abdel, picchiato dalla polizia.

 

 

 

 

 

Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana (2005) Rovescia il tema del salvataggio in mare. A essere salvato è il giovane figlio di un industriale bresciano sbalzato in acqua nel corso di una vacanza in barca a vela. Sarà issato a bordo di un barcone che trasporta migranti.

 

 

 

 

 

District 9 di Neil Blomkamp (2009). Prendendo l’ispirazione nel titolo dalle vicende ai tempi dell’apartheid nell’area residenziale che a Città del Capo è denominata District Six, racconta di un mondo fantascientifico dove xenofobia e segregazione razziale sono messe in atto dagli umani contro una minoranza aliena.

 

 

 

 

Terraferma di Emanuele Crialese (2011). Premio speciale della giuria alla 68esima Mostra di Venezia, racconta la storia di un’isola siciliana, abitata dai pescatori e quasi ignorata dal turismo. Investita dagli arrivi dei migranti, l’isola si troverà al centro di una nuova politica di respingimento che ignora le leggi del mare e l’obbligo di soccorso.

 

 

 

 

 

Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismaki (2011). La storia del lustrascarpe Marcel Marx che si adopera per salvare un ragazzino africano incontrato per caso, arrivato in Francia in un container e sfuggito alla polizia.

 

 

 

 

 

La prima neve di Andrea Segre (2013). E’ la storia dell’incontro tra Dani, originario del Togo e arrivato in Italia in fuga dalla guerra in Libia, e Pietro, falegname e apicoltore, sulle montagne del Trentino.

 

 

 

 

 

Samba di E. Toledano e O. Nakache (2014). La storia di Samba Cissé, un senegalese in attesa di un permesso di soggiorno che non arriva mai. Costretto da dieci anni in un centro di accoglienza a Parigi e con la costante paura di essere espulso, si rivolge a un’associazione che si occupa di questioni giuridiche legate all’immigrazione. A occuparsi del suo caso sarà Alice, una giovane donna borghese in congedo lavorativo.

 

 

 

Fuocoammare di G. Rosi (2016). Documentario Orso d’oro per il miglior film al Festival di Berlino, è dedicato all’isola di Lampedusa e ai suoi migranti. Il film testimonia la vita sul confine simbolico più importante d’Europa, raccontando il punto di vista dei lampedusani e quello dei migranti.

 

 

 

 

 

MGF

Regia di Ali Ray.

Docufilm Gran Bretagna, 2023, Durata 90 minuti.
La storia, la sensualità, i materiali abbaglianti e i misteri di uno dei dipinti più suggestivi, conosciuti e riprodotti del mondo.

 

 

 

 

 

Uno studio ravvicinato del dipinto ci condurrà tra le strade della straordinaria Vienna di fine secolo, quando un nuovo mondo si scontrava con il vecchio e la modernità vedeva, per la prima volta, la luce. Prodotto da Phil Grabsky con Exhibition on Screen.

 

KLIMT: IL BALUARDO BOHEMIEN NELLA CASTITA’ VITTORIANA

Gustav Klimt è un artista austriaco forse un po’ difficile da inquadrare, con le sue opere che mescolano così aggressivamente elementi realistici e strane geometrie.
Per contestualizzarlo, pensiamo all’epoca in cui nasce e cresce, come persona e come artista: l’Austria del XIX Secolo è un luogo di contraddizioni, dove il rigore che dall’Inghilterra Vittoriana si espande a tutta l’Europa stenta a reprimere i primi ansiti di quella che sarà la cultura bohémien.
Un puritanesimo diffuso e radicato, a cui Klimt inizialmente aderisce, ma che sfocia inevitabilmente nel risultato immancabile della repressione troppo strenua degli istinti: la ribellione, la perversione, l’erotismo.

 

Klimt – Il bacio (1907)

 

Siamo in un’epoca in cui cominciano ad emergere le teorie di Jung e Freud, con le ben note ipotesi riguardanti gli effetti sulla psiche della sfera sessuale: Klimt prende queste teorie, le fa sue.
Non può tuttavia discostarsi, e Freud approverebbe, dalla sua storia personale: figlio di un incastonatore, studia anch’egli la materia e pur dandosi poi all’arte pittorica, qualcosa di questa formazione gli resterà sempre.
Pensiamo ad esempio alla sua opera più celebre, Il Bacio: volti realistici, umani, riconoscibili, travolti da un’innegabile passione… e corpi celati dietro a strane vesti surreali, il cui decoro ricorda molto il mosaico, o appunto un decoro di pietre incastonate.

 

 

 

Klimt – La vergine (1913)

Sotto questo punto di vista, Klimt è la perfetta, sebbene inusuale, incarnazione del motto rinascimentale: “nani sulle spalle dei giganti”.
In Klimt rivive l’antica passione tardoromanica per il mosaico, per le gemme, per la gioielleria raffinata, e prende un nuovo slancio con la sua spinta, quasi un’esigenza, verso l’erotismo e la sensualità.

Le opere di Klimt sono uno schiaffo alle ondate di puritanesimo che quasi imponevano di non provare alcun tipo di desiderio impuro, spezzano e ricostruiscono la morale fino ad alzarla a uno stato di quasi divinità: impossibile non notare quanto gli sfondi dorati di cui egli faceva spesso uso rimandino alle opere medievali, in cui spesso il paradiso era rappresentato da un costosissimo sfondo oro monocromatico. Manca tuttavia l’ostentazione: in queste ultime opere, la foglia d’oro utilizzata per rappresentare il paradiso non era altro, in fondo, che uno status symbol, dal momento che solo i più ricchi potevano permettersela.

Klimt – Giuditta I (1901)

Klimt solleva quindi quella patina di falsità in cui è così facile cadere, riportando il paradiso ad una dimensione accessibile a chiunque; non solo i più ricchi e abbienti, ma anche gli ultimi del mondo possono ora alzare lo sguardo e rimirare la bellezza. Una bellezza terrena, comprensibile, un sensuale corpo di donna e una massa di capelli scompigliati, un bacio inevitabile, un sorriso malizioso. E tutto ciò strizzando l’occhio al pacchiano, alla decorazione di sfondo che quasi prende il sopravvento sull’opera nella sua interezza: un vero e proprio caos bohemién.
Le parole d’ordine che segnano la ribellione al puritanesimo sono quattro: libertà, bellezza, verità e amore. E Klimt le incarna tutte nelle sue opere.
Le donne da lui dipinte sono libere, belle, reali e innamorate. Klimt viene spesso accusato di misoginia e oggettivizzazione della donna, ma guardando bene si può capire che in realtà fa l’esatto contrario: prende la femminilità e la libera dalle convenzioni, dalle catene dei limiti sociali da non oltrepassare, rappresenta donne che sono donne in quanto tali, creature che non sono legate ad un ruolo di semi schiavitù, sempre un po’ in disparte, sempre beneducate e sorridenti, donne che abitano il mondo perché questo è ciò che vogliono fare, quasi fossero spiriti silvani che illuminano di fuochi fatui le foreste buie.

 

Gustav Klimt e Emilie Flöge – 1908

 

Basta con la concezione della donna solo e soltanto nel suo ruolo di madre e costola dell’uomo, basta con l’idea che le donne siano creature angeliche e caste, prive di qualsivoglia pulsione sessuale o violenta, basta con le donne intimamente schiave del proprio fato; ed è questa una concezione aliena al puritanesimo dilagante, allora come ora.
E forse, proprio per questo motivo, questa stessa idea è sempre più importante: la felicità vera non è attenersi a una serie di regole imposte, ma essere liberi da restrizioni troppo limitanti, vivi e pulsanti nella propria unicità, innamorati della vita e dell’arte, non costretti da sterili convenzioni sociali.

 

 

Beatrice Fiorello
Dott.ssa in Scienze dei Beni Culturali

 

MGF

 

 

 

Fu un programma di ricerca degli Stati Uniti per la realizzazione delle prime armi nucleari. Nato dal timore dei progressi della ricerca tedesca in materia atomica, il Manhattan è diventato in breve tempo un progetto totalizzante, che ha determinato per anni lo sforzo di un intero paese per il raggiungimento di un obiettivo militare tanto ambizioso quanto estremo.

Parteciparono al progetto alcuni dei più noti fisici del Novecento, come il premio Nobel italiano Enrico Fermi, l’inventore del ciclotrone Ernest Lawrence e Robert Oppenheimer.

Tutto cominciò nel 1938 con la scoperta della fissione nucleare da parte degli scienziati tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann. Da qui nacque il timore statunitense che i nazisti potessero in breve tempo realizzare un’arma di distruzione di massa dalla potenza mai conosciuta prima: la bomba atomica.

Fu lo stesso Albert Einstein, insieme a un gruppo di noti scienziati del tempo, a scrivere al presidente Franklin Delano Roosvelt, mettendolo in guardia riguardo ai presunti intenti dei nazisti. Per questo motivo, in breve tempo iniziarono anche negli Stati Uniti i primi studi nel campo della fisica nucleare, principalmente all’università della California, a Berkley, e alla Columbia University, a New York. I primi progressi nell’ambito della ricerca pura richiesero poi ulteriori risorse, e uno sforzo ancora più deciso, per svolgere quello che oggi chiameremmo il trasferimento tecnologico e giungere quindi rapidamente all’obiettivo finale.

 

Così nel 1942, nel pieno della Seconda guerra mondiale, il governo statunitense si impegnò per creare prima dei nazisti dei laboratori capaci di produrre un ordigno atomico. Il progetto Manhattan fu ufficialmente istituito il 13 agosto 1942 e coinvolse in pochissimo tempo esperti provenienti da ogni parte del mondo e di svariati settori: oltre a chimici, fisici, ingegneri e specialisti di esplosivi, collaborarono ingegneri, militari e medici. La supervisione scientifica fu affidata a Robert Oppenheimer, motivo per cui gli venne convenzionalmente attribuito l’appellativo di inventore della bomba atomica. All’interno del progetto Manhattan, alcune persone furono anche inviate in territorio nemico per indagare il programma nucleare militare tedesco, con l’obiettivo di raccogliere segretamente materiale e documenti utili per favorire la ricerca.

Una delle sfide più complesse che dovette affrontare il governo nordamericano riguardò la scelta del luogo dove realizzare i centri di ricerca nucleare. Bisognava trovare un luogo ampio, isolato, distante dalla costa e lontano dai grandi centri abitati. Era impossibile riunire tutti i laboratori in un unico sito e per questo ne furono scelti tre, lontani tra loro: Oak Ridge (nel Tennessee), Los Alamos (nel Nuovo Messico) e Hanford (Washington). Insomma, nonostante si chiamasse Manhattan, conosciuto come il distretto più famoso e importante di New York, i centri di ricerca furono dislocati in vari luoghi del territorio statunitense.

 

Il tutto venne costruito silenziosamente e, oltre a sfrattare tutti i residenti e a proibire loro di parlare dell’argomento, i centri non furono mai inseriti nelle mappe ufficiali. Insomma, una missione super segreta dai tratti patriottici. All’inizio si viveva in tenda o in altri rifugi di fortuna, poi con il tempo all’interno di queste aree top secret non mancò più nulla: gli scienziati vivevano insieme alle famiglie e potevano disporre di rifornimenti, laboratori, fabbriche, scuole e ospedali. Complessivamente furono spesi 2 miliardi di dollari dell’epoca, che corrispondono a circa 30 o 50 miliardi di dollari attuali. Per comprendere la vastità del progetto basta riflettere sul fatto che i tre agglomerati ospitarono 125mila scienziati, tutti impegnati in una missione nel rispetto del più rigoroso segreto militare.

 

Nel giro di qualche anno, l’immenso lavoro di ricerca stava iniziando a dare frutti e, mentre i nazisti erano ancora alle fasi preliminari, furono realizzate per la prima volta la bomba all’uranio e quella al plutonio. Nella mattina del 16 luglio del 1945 nel deserto della Jornada del Muerto, nel Nuovo Messico, gli scienziati del progetto Manhattan testarono Gadget, la prima bomba atomica della storia.

 

 

Era la premessa degli storici attacchi nucleari su Hiroshima e Nagasaki, che sarebbero arrivati poco dopo.

La morte di decina di migliaia di persone e le conseguenze derivanti dalle radiazioni hanno sollevato, al di là dell’impatto sulle sorti del conflitto, numerose questioni etiche e morali, che ancora oggi non possono certo ritenersi risolte.

Fonte: Wired Italia

MGF