Regia di Wes Anderson – USA, 2023 – 104′
con Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks
UN FILM SUL DESERTO DEL NOSTRO SCONTENTO
Asteroid City, località sperduta nel deserto americano con una sola strada che la attraversa, un diner, una base militare, un complesso di case, un osservatorio astronomico e tutt’attorno una gigantesca distesa di terra da vendere e occupare, è un’immagine funerea – per quanto come al solito coloratissima e vintage – della nazione americana e dello stesso cinema di Wes Anderson.
Una sovrapposizione non casuale. Uno spazio insulare, tagliato fuori dal mondo, che nel corso del film viene ulteriormente chiuso da una quarantena, quando agli sparuti abitanti della cittadina (militari, astronomi, viaggiatori di passaggio, amanti della scienza, una scolaresca, un’attrice con la figlia, un padre vedovo con i figli al seguito e la macchina in panne) appaiono nientemeno che gli alieni. Siamo a metà anni ’50, i funghi dei test nucleari decorano lo sfondo come le mese e i crateri e l’avventura spaziale nasconde desideri di fuga e paura del diverso, con i ragazzi che sognano di fuggire nello spazio e gli adulti che restano inchiodati alle responsabilità da cui sfuggono inutilmente.
Asteroid City, la città, non esiste, così come non è mai esistito il mondo di Wes Anderson, nonostante sia forse la creazione cinematografica più identificabile (e commercializzabile) degli ultimi decenni. Un mondo sempre più pieno di cose – nomi di persone, luoghi e città, oggetti, colori, animali, piante, vestiti, musiche, canzoni, libri, giornali: un gigantesco gioco di società, insomma – nel quale il suo creatore ha finito per chiudere gli spettatori e pure sé stesso.
Asteroid City, il film, è in questo senso il film più cupo di Anderson, quasi un’operazione mortuaria, costruito come una scatola cinese da cui è impossibile uscire. Il film si apre con un narratore (Bryan Cranston) da show televisivo anni ’50 in bianco e nero che introduce la storia di un commediografo di fantasia (Edward Norton) che sul palcoscenico di un teatro scrive la commedia inesistente Asteroid City, in cui in un mondo a colori alcune persone si ritrovano un po’ per volontà e un po’ per caso in una cittadina nel deserto attorno a una base militare… Il film è dunque la creazione inesistente di un autore anch’egli inesistente, diretto in scena da un regista (Adrien Brody) costretto a vivere dietro il palcoscenico, in cui a volte gli interpreti escono dal ruolo e dal set per parlare del loro ruolo, in cui il narratore può entrare per sbaglio nel racconto e le scene possono ripetersi e replicarsi su piani paralleli e sfasati.
In una serie anch’essa ripetitiva e potenzialmente infinita e unica di scene e scenette, nozioni da nerd e invenzioni buffe, luci colorate e soluzioni da cinema classico, Anderson non solo ingolfa il suo cinema oltre la saturazione, ma arriva addirittura a contemplare l’idea di distruggerlo, inserendo in maniera clamorosa la possibilità della quarta parete. Con un controcampo che potrebbe annientare tutto quanto ha fatto fino a ora, rompe egli stesso l’incantesimo frontale del suo mondo di bambole e fa scontrare il colore e il bianco e nero, il set del film e il palcoscenico della finzione, l’attore e lo scrittore.
E se, in fondo, questo film di Anderson fosse inaspettatamente l’unica risposta al mistero dell’universo, ai limiti della scienza, all’insignificanza dell’uomo nell’enormità del tutto?
E se alla fine del cinema non ci fosse, ancora e ancora, nient’altro che cinema?
Roberto Manassero – Cineforum.it
Recensioni
7/10 IGN Italia
3,3/5 Cineblog.it
3,4/5 Mymovies
Wes Anderson firma il suo capolavoro. Il consueto racconto a episodi è contenuto nei barocchismi e organizzato nel montaggio interno, scatole dentro scatole di precisione millimetrica, generose di invenzioni, personaggi pittoreschi e dialoghi da manuale.
IL CINEMA DI WES ANDERSON: UNA PALETTE DI COLORI
Quando si parla del cinema di Wes Anderson, le persone tendono ad associare alle sue pellicole colori pastello, inquadrature maniacalmente simmetriche e personaggi stravaganti in contesti vagamente realistici.
I colori e le loro combinazioni svolgono, a livello inconscio, un ruolo fondamentale nella visione di un film. Si spiega, dunque, il grande successo del regista Wes Anderson che unisce a trame particolari delle scene cromatiche forti che influiscono molto sull’atmosfera dei film e quindi sul coinvolgimento del pubblico. È rosso, viola o rosa. Il modo in cui descrive il mondo cinematografico è attraverso i colori.
Il regista Wes Anderson utilizza la sua tecnica estetica dell’uso del colore non al solo fine estetico, ma cercando nella forma la vera sostanza. Le sue storie raccontano di personaggi limite, adulti troppo bambini incapaci a stare in un mondo che non li comprende a causa delle loro nevrosi. I personaggi andersoniani tentano di evadere da queste gabbie di conformismo e il regista riporta le loro storie e la loro eccentricità, senza giudicarli negativamente ma anzi invita gli spettatori ad amarli ed imitarli.
Non esistono antagonisti, i buoni e i cattivi non esistono; i buoni non sono mai davvero buoni e i cattivi non sono mai davvero cattivi. Non bisogna però mai farsi ingannare dall’atmosfera leggera, la quale cela le fragilità e le debolezze dei personaggi. Anderson usa minuziosamente le tecniche cinematografiche, come i colori, le inquadrature e le simmetrie con lo scopo di sottolineare gli aspetti interiori e tutti gli aspetti di questa fragilità. Ogni scenario costruito dal regista è in funzione della psicologia facendo in modo che le caratteristiche dei protagonisti si riflettano nell’estetica che li rappresenta.
Alla base di ogni suo film vi è un elenco rigido di regole: le inquadrature sono sempre frontali, fisse da far notare una forte maniacalità della composizione dello scenario filmico. Si trova inoltre la simmetria bilaterale, presente in ogni scena, nulla di fronte alla telecamera è fuori posto, il punto di fuga è sempre al centro per creare una prospettiva centrale, utilizza inoltre lo scorrimento laterale e la panoramica dall’alto. Queste tecniche e soprattutto l’uso del colore creano una narrazione artefatta e una sensazione di surreale. Anderson ci fa vedere il mondo reale ma soprattutto quello interiore dei personaggi, enfatizzando gli umori e emozioni degli stessi.
I film come Grand Budapest Hotel, I Tenenbaum e Moonrise Kingdom fanno emergere al massimo queste caratteristiche: le tonalità di colori presenti in ogni scena si armonizzano come in un dipinto e a ogni momento ripreso viene abbinata una palette cromatica. Un esempio di questa sua intenzione cromatica è la scena, in Grand Budapest Hotel, in cui il consierge Monsieur Gustave H. e il lobby boy Zero Moustafa si trovano in ascensore con la ricca Madame D.: le scelte cromatiche di Anderson si orientano verso un rosso intenso e un viola stridente. Anche ne I Tenenbaum le scene emotivamente più forti si tingono di colori molto accesi. Altra tipologia di scena è quello in cui una cromia emerge in modo più netto sulle altre, scene prettamente monocromatiche. Per esempio, infatti, le scene tra il lobby boy e Agatha sono quasi sempre rosa.
Momenti comici si uniscono a commozione e ironia, creando un gioco perfetto di sfumatura.
Ciò che colpisce del regista è proprio la volontà di trasformare il cinema in una composizione.
Un dipinto di un pittore con colori complementari e allo stesso tempo sfumati.
Il lavoro sui colori, sulla simmetria e sulle inquadrature risultano protagonisti quanto la storia del film. Le scelte cromatiche diventano un modo per far relazionare i personaggi allo spazio che li circonda e un modo per enfatizzare le sensazioni e le emozioni degli stessi.
Giulia Notari – Cimoinfo.com
MGF